L’ INFINITO AZZURRO – Claudio Veriol

IO sono un poeta,
io voglio l’ infinito azzurro!
TUTTI i poeti vogliono l’ infinito azzurro!…ma, ahimè!
Ora, guardando il cielo, non si prova più la sensazione infinita.
Tutto cominciò quando Magellano,
il navigatore, fece la circumnavigazione del globo.
La terra fu allora rotonda e finita, non piatta e infinita!
Maledetto Magellano! potevi stare a casa,
invece di andare in giro a rovinare i sogni dei poeti?
Si, perché era così bello, una volta,
tanti secoli fa, andare sul mare con un grande vascello.
Era così bello sapere che terra e mare erano infiniti.
Dove si poteva arrivare?
Sperduto sul vascello in mezzo al mare infinito
il poeta poteva alzare gli occhi e guardare il cielo azzurro. Guardava di qua, di là ,
e tutto era così azzurramente infinito.
Infinito azzurro.
Ora sappiamo che la Terra è rotonda e finita…
così abbiamo perso l’ antico contatto cosmico azzurro degli uomini antichi.
Che me ne facevo di un Universo senza infinito azzurro?
IO sono un poeta, non posso vivere senza infinito azzurro!
La civiltà, le scoperte, le invenzioni,
non sempre sono un bene per l’ uomo.
Evolvendosi,
l’ uomo ha perso l’ infinito azzurro.
Infinita sensazione di grandezza: nessun uomo mai piu’ ti proverà!…
ma io sono un poeta: ho bisogno dell’ azzurro!
Con la civiltà l’ uomo ha scoperto il mondo, ma a quale prezzo?
Ha perso la sensazione più bella.
Ha perso l’ infinito azzurro.

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POESIA ILLUMINAZIONE – Lenore Kandel

siamo stati tutti fratelli, ermafroditi come ostriche
donando le nostre perle spontaneamente
nessuno aveva ancora inventato la proprietà
né la colpa né il tempo
guardavamo le stagioni passare, eravamo cristallini
[come neve
e ci fondevamo dolcemente in forme nuove
mentre le stelle ruotavano attorno a noi
non avevamo conosciuto il tradimento
noi stessi eravamo perle
sostanze irritanti tramutate in splendore
e ci offrivamo spontaneamente
le nostre perle sono diventate più preziose e i nostri
[sessi statici
con la mutazione è nato un guscio, abbiamo concepito
[lingue diverse
nuove parole per nuovi concetti, abbiamo inventato
[le sveglie
i recinti la lealtà
eppure … anche adesso … simulando una comunione
infinite percezioni
io ricordo
siamo stati tutti fratelli
e ci offriamo spontaneamente

Lenore Kandel: The Love Book

Recita Daria di Bernardo
Suona Antonio Monti

Domenica 29 maggio Dalle ore 20.30
Inizio spettacolo ore 21.00
Gelateria popolare Via Goffredo Mameli 6 – Torino

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FRANCO SERANTINI – Morte di un anarchico

Domenica 7 maggio 1972 è morto nelle carceri di Pisa il giovane anarchico Franco Serantini, massacrato di botte da “ignoti” poliziotti. Il massacro era iniziato il venerdì precedente, durante una manifestazione indetta per protesta ad un comizio fascista. Durante la prima carica eseguita poco dopo le 18 dalla polizia contro gli antifascisti, Serantini rimaneva fermo senza opporre alcuna resistenza alla furia costituzionale dei poliziotti, furia che si è coperta in passato di innumerevoli encomi solenni presidenziali e di elogi di ministri vari. Circondato da una decina di poliziotti, il compagno Serantini viene bestialmente picchiato: la furia costituzionale degli “agenti dell’ordine” contro il compagno Serantini raggiunge delle punte talmente violente che un commissario della stessa polizia è costretto ad intervenire e ad arrestare Serantini “per sottrarlo alla furia degli agenti” come lo stesso commissario ha dichiarato. Dopo l’arresto, Serantini viene condotto nella caserma della celere dove rimane a disposizione dei locali poliziotti sino alle ore 1.30 della notte. Che cosa sia successo a Serantini all’interno della caserma della Celere non è dato sapere, ma vi sono buoni motivi per ritenere che i poliziotti si siano serviti di tale arresto soltanto per permettere che il pestaggio continuasse in maniera razionale e senza pericolosi testimoni. Nessun commissario inoltre poteva più intervenire per arrestare ulteriormente Serantini e “sottrarlo alla furia degli agenti”. Alle 1.30 della notte Serantini viene finalmente trasportato nel carcere Don Bosco e nello stesso istante che Serantini supera il portone del carcere si verifica una violazione al cosiddetto regolamento carcerario, violazione che – detto per inciso – ormai è diventata una regola ed una precisa prassi intoccabile del sistema repressivo italiano. Il regolamento carcerario prescrive infatti che tutti coloro che entrano in un carcere nella condizione di arrestati debbano passare obbligatoriamente attraverso un controllo medico. E tuttavia non si contano più i casi di compagni e di non compagni i quali hanno denunciato – anche nelle aule dei tribunali – di aver subito violenze fisiche da poliziotti di differente estrazione ministeriale, e soltanto dopo essere stati ridotti a stracci di uomini ricevettero finalmente la grazia di venir passati alle carceri senza che nessun medico si curasse di prendere atto delle loro condizioni fisiche. L’autopsia eseguita sul corpo di Serantini ha preso atto dell’esistenza di tumefazioni esterne grosse quanto un pugno, di un ematoma polmonare provocato da un colpo violentissimo, di lesioni, lividi in ogni parte del corpo, e ben due fratture craniche: una posteriore ed una parietale. Non si può che constatare che il compagno Serantini è stato massacrato a furia di botte, e ciò non può certamente essere accaduto prima che egli venisse trasferito nelle celle della polizia, cioè in piazza, perché un uomo ridotto in tali condizioni non sarebbe stato in grado di reggersi sulle proprie gambe. Se l’avessero visitato e conseguentemente ricoverato in ospedale, Serantini non sarebbe forse morto. Dunque oltre ai sadici poliziotti che l’hanno massacrato ed ai loro dirigenti che hanno ordinato o consentito il pestaggio, anche la direzione del carcere è responsabile della morte di Serantini. Sabato a mezzogiorno Serantini viene interrogato dal sostituto Procuratore Sellaroli, ed anche tale interrogatorio rientra nelle formalità previste dalla legge. Il Procuratore non deve infatti che appurare la reità possibilmente confessa dell’accusato. Durante l’interrogatorio formale che il Procuratore Sellaroli sagacemente conduce, con totale soddisfacimento della parte lesa (la polizia!) il compagno Serantini dimostra visibilmente di stare male. È stato trasportato a braccia dagli agenti carcerari e dichiara di sentirsi molto male. Durante tutto il periodo dell’interrogatorio, egli mantiene il capo appoggiato sulla superficie del tavolo, e l’ematoma che gli era stato prodotto sulla parte posteriore del cranio, è ben visibile. Il Procuratore Sellaroli non si degna nemmeno di appurare se il cittadino che egli sta interrogando sia stato sottoposto al controllo medico previsto dal regolamento carcerario. Unica preoccupazione del degno sostituto Procuratore è quindi evitare accuratamente ogni possibile intervento che possa avere delle noiose conseguenze per la polizia. Se il sostituto Procuratore l’avesse fatto ricoverare forse Serantini poteva ancora salvarsi e dunque anche Sellaroli è responsabile della sua morte. Ecco che già la catena di responsabilità per l’assassinio di Serantini passa attraverso le principali istituzioni repressive dello stato: la polizia, il carcere, la magistratura. Un esemplare assassinio di stato. Domenica 7 maggio alle ore 9.30 del mattino Serantini muore, e con perfetto tempismo un funzionario della questura si precipita in Municipio per ottenere l’autorizzazione a rimuovere il corpo, tentando così di evitare il necessario esame medico, formalità decisamente scocciante anche questa e che secondo i poliziotti di larghe vedute andrebbe eliminata per non intralciare il “giusto compito delle forze dell’ordine”. A questo punto scoppia lo scandalo. I giornalisti si lanciano sull’episodio e scoprono che “un giovane studente è stato ucciso”. Ma neppure tanto scandalo: si tratta di un anarchico e per di più di un figlio di genitori ignoti; i suoi assassini sono poliziotti e figli di buona donna. Perciò la vicenda non giunge mai in prima pagina e dopo un paio di giorni i giornali non ne parlano più. Intanto si sente la solita fitta rete di omertà, di reticenze mafiose, di scaricabarili. Ed a tappare la bocca ai compagni di Serantini ci pensa la polizia impedendo comizi, sequestrando volantini, incriminando. Una sola cosa ci consola. Ai funerali del compagno Serantini non abbiamo ricevuto l’offesa di corone inviate dal Presidente della Repubblica nè di corazzieri in alta uniforme, né di mafie tricolori che si contendessero la bara come nei film di Al Capone. Quando la bara è apparsa uscendo da una fredda sala d’obitorio, nessuna folla di borghesi e piccolo-borghesi, accecati dalla disinformazione televisiva si è istericamente accalcata per applaudire. (A Rivista Anarchica, n° 13 Giugno 1972)

 

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Luigi Assandri – Autodidatta

Luigi Assandri è stato uno dei miei primi contatti anarchici a Torino (nella sede di Via della Rocca) quando vi sono arrivato nel ’62. All’inizio, devo dire, non mi aveva fatto una grande impressione. La sua “semplicità” espositiva non si accordava con le mie idee da neofita un po’ fanatico. Poi, negli anni successivi, ho cambiato atteggiamento.
La presenza anarchica era piuttosto modesta, allora, rappresentata da personaggi con un passato militante degno e anche storicamente importante, ma ormai comprensibilmente poco attivi nella diffusione dell’idea. C’era Ilario Margarita, testimone vivente della rivoluzione spagnola del ’36. C’era Gaspare Mancuso, che aveva continuato in Italia la lotta antifranchista in Spagna. E c’era un gruppo di compagni anziani (residuo del nucleo “storico” dell’anarchismo torinese del dopoguerra) che nel ’66 avevano aperto una nuova sede in Via Arsenale, più che decorosa ma poco utilizzata.
Con questi compagni Luigi aveva un rapporto (reciproco) di scarsa sintonia, in parte perché si trovava a disagio nei conflitti ideologici che avevano agitato l’anarchismo del dopoguerra e sopravvivevano tra i vecchi anarchici torinesi, ma soprattutto perché (a quanto potevo vedere) sentiva il bisogno di un impegno propagandistico che, invece di perdere tempo nelle diatribe interne, si desse da fare per testimoniare al mondo esterno le caratteristiche dell’anarchismo.
Questa era la sua concezione della militanza, forse un po’ ingenua ma perseguita con convinzione imperterrita allora, quando l’ho conosciuto, e in seguito, per tutta la sua vita, con il supporto costante della compagna Adele Gaviglio, essa stessa una figura esemplare di quell’ambiente, anche lei, come Luigi, di estrazione proletaria e autodidatta: poca “ideologia” e molta passione. (Adele meriterebbe una citazione biografica a parte, per la sua storia personale di ex-mondina vercellese poi emigrata a Torino, oltre che per il carattere a dir poco burbero di “donna del popolo” e l’altrettanto burbero affetto on cui difendeva il “suo Luigino” dalle critiche ingenerose).
In seguito, già prima del mitico ’68, la presenza anarchica a Torino si è andata arricchendo per l’ingresso di nuova linfa, che all’inizio era rappresentata soltanto da Gerardo Lattarulo, al momento unico “giovane” disponibile sulla scena (col quale il sottoscritto ha stipulato un sodalizio non solo ideologico ma di grande e imperitura amicizia). Poi, pian piano, sono arrivati altri compagni, tutti desiderosi di darsi da fare, e ciò ha portato alla formazione di gruppi d’intervento innegabilmente più attivi di quello dei “vecchi” (come con anagrafica sufficienza li definivamo). E Luigi Assandri è uscito progressivamente dal suo isolamento e ha preso a frequentare le riunioni e le iniziative dei nuovi compagni, partecipando ai cortei e alle manifestazioni con i suoi slogan personali (“guelfo o ghibellino, il potere è sempre assassino” e altri simili). Pur senza aderire formalmente a questo o quel gruppo, è stato direi quotidianamente presente (sempre con la compagnia di Adele) non solo nelle discussioni e nei momenti organizzativi locali, ma anche nei contatti che si tenevano con i militanti di altre città e fuori dell’Italia, soprattutto in Francia.
Con Luigi tutti noi “giovani” abbiamo così sviluppato un rapporto ben al di là della semplice consuetudine, anche perché il suo contributo non era solo di presenza, ma pratico. Si era dotato di un’attrezzatura completa per ciclostilare, messa a disposizione dei compagni per la produzione di volantini e manifesti (il che ci portava frequentare continuamente la sua casa) e che con gran lena utilizzava per riprodurre testi o parti di testi anarchici, classici o meno, da offrire in giro per l’educazione libertaria di curiosi e simpatizzanti. Queste “edizioni Assandri” (una bella massa di materiale, va detto) sono state l’altra faccia dell’attività di Luigi, svolta in parallelo a quella di collaborazione con i gruppi, proseguimento evoluto della sua tendenza a fare propaganda per conto proprio (anch’esso meritevole, se possibile, della considerazione di una trattazione ad hoc).
Quanto è andato avanti, tutto ciò? Ben oltre gli anni Novanta, direi, a lungo, comunque, fino alla morte di Luigi. (Roberto Ambrosoli)

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Avete mai provato una volta il desiderio di arrivare in ritardo?

Il carattere principale della nostra epoca è l’alta velocità che hanno assunto le merci, siano esse prodotti industriali, informazioni o essere umani ridotti alla condizione di lavoratori-consumatori. Le reti telematiche, telefoniche e satellitari, le rotte del traffico aereo, automobilistico, ferroviario e marittimo stanno ingabbiando in modo sempre più accelerato la quasi totalità dello spazio e del tempo e con essi i sogni e i bisogni degli uomini: sembra non esserci più via di uscita, un altrove, in un mondo ovunque uguale a se stesso.
Per cambiare questo mondo occorre costruire assieme la pratica del rifiuto unilaterale dell’esistenza imposta dal capitalismo globale, attraverso l’autogestione delle proprie vite e l’autoproduzione singola e collettiva di quanto ci chiedono necessità e desideri, passando per l’autocostruzione dei luoghi in cui vogliamo vivere e dei modi in cui vogliamo interagire. Abbandonare il proprio posto nella catena ciclica del consumo di oggetti, spettacoli, per inventare nuovi modi di produzione e distribuzione, di autogestione dei luoghi in cui si abita attraverso decisioni minime, locali e condivise, sperimentare ognuno nei propri mondi arti e mestieri, quello di vivere liberi. Le nostre accademie e laboratori saranno palazzi e orti, boschi e acque. Anche se narcotizzata nella drogheria mediatica, un’insofferenza al modello di vita imposto e propagandato come democratico insorge nei modi più disparati, dappertutto: si aprono brecce, scoppiano ire, sfoghi di violenza ma anche sommosse, rivoluzioni, senza obiettivi né palazzi d’inverno. Sarà dura e toccherà a ciascuno, con le sue ragioni e la sua sensibilità, rendere questa avventura appassionante.

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Gli uomini sono solo più mediatori tra le macchine

In questa società la tecnologia — processo che riunisce scienza, tecnica, economia e politica — è la forza che presiede a ogni cambiamento; sta alla base di ogni sistema di produzione, circolazione e consumo. È il mezzo grazie al quale la produzione può essere automatizzata e delocalizzata, la natura colonizzata, le sue forze domate e le sue risorse saccheggiate; infine crea lo spazio sociale in cui la merce diventa spettacolo. La tecnologia non può essere ridotta a un insieme di macchine e di conoscenze: costituisce di per sé un sistema divenuto autonomo. L’economia è alle sue dipendenze, ed essa si è diffusa a tal punto che si può parlare di una società artificializzata o “coltivata fuori suolo”. Gli uomini si limitano a essere nient’altro che mediatori tra le macchine, vero soggetto della storia alienata: nel linguaggio dei commentatori più oscurantisti viene definita “società della conoscenza”. E quando le macchine rappresentano la principale forza produttiva questa diventa, spronata dagli imperativi della crescita, la principale forza distruttiva.
La logica tecnicista travalica gli ambiti nazionali e si impadronisce del pianeta intero: ci troviamo in una società mondializzata votata allo sviluppo, in cui le
popolazionidei paesi in via di sviluppo non sono altro che animali da laboratorio.

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Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza

Signori,
le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano. Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza, né la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono altra cosa che un’insalata di parole?
Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito umano.
E che incarcerazione! Si sa – e ancora non lo si sa abbastanza – che gli ospedali, lungi dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla prigione, al bagno penale.
Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch’essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.
Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.
Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza. (Antonin Artaud)

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La vita è una festa, facciamo festa alla vita

Sono portato a pensare che una coscienza sveglia smuova il mondo più facilmente che lo scatenarsi dell’entusiasmo gregario. La radicalità è una radiosità attraente, una scorciatoia che interrompe i percorsi ordinari della riflessione laboriosa.
Creare la mia felicità favorendo quella degli altri è più in sintonia con la mia volontà di vivere che i lamenti della critica-critica, il cui muro ottura o perlomeno oscura i nostri orizzonti.
Vi sono fiammate d’impazienza in cui griderei volentieri “Lasciatevi andare! Sbattete nelle fogne gli adulatori del denaro! Rompete gli ormeggi del vecchio mondo, abbracciate l’unica libertà che ci rende umani, la libertà di vivere!”.
Non ignoro che fare ricorso alle parole d’ordine e alle esortazioni dà più importanza alla cappa d’inerzia che alla coscienza che la incrina e finirà per spezzarla. Tuttavia niente e nessuno m’impedirà di gioire al pensiero di non essere il solo ad auspicare un tornado festivo che ci libererà, come di una brutta colica, dei morti-viventi che ci governano. Il ritorno della gioia di vivere irride la vendetta, il regolamento di conti, i tribunali popolari. Il respiro degli individui e delle collettività va oltre le strutture corporative, sindacali, politiche, amministrative, settarie; evacua il progressismo e il conservatorismo, queste messe in scena di un egualitarismo cimiteriale che è ormai il portato delle democrazie totalitarie. Apre all’individualista, inacidito dal calcolo egoista, la via di un’autonomia in cui scoprirsi come un individuo unico, incomparabile, offre la migliore garanzia di diventare un essere umano a pieno titolo. L’individuo ascolta i consigli ma rifiuta gli ordini. Imparare a rettificare i propri errori lo dispensa dai rimproveri. L’autonomia s’iscrive nel dolce stil novo destinato a soppiantare il regno del disumano.
Lasciar marcire quel che marcisce e preparare le vendemmie. Questo è il principio alchemico che presiede alla trasmutazione della società mercantile in società vivente. Non è forse l’aspirazione a vivere superando la sopravvivenza a innescare ovunque l’insurrezione della vita quotidiana? Vi è in questo una potenza poetica di cui nessun potere può venire a capo, né con la forza né con l’astuzia. Se la coscienza tarda ad aprirsi a una tal evidenza è perché siamo abituati a mettere a fuoco le cose a rovescio, a interpretare le nostre lotte quotidiane in termini di sconfitte e vittorie senza capire che è l’anello al naso che ci conduce al macello.
Vagando tra appassimento e rinnovamento, abbiamo acquisito il diritto di schivare e abbandonare una danza macabra di cui conosciamo tutti i passi, per esplorare una vita di cui, purtroppo, abbiamo potuto conoscere soltanto dei piaceri furtivi.
La nuova innocenza della vita ritrovata non è una beatitudine né uno stato edenico. È lo sforzo costante richiesto dall’armonizzazione del vivere insieme. Spetta a noi tentare l’avventura danzando sul sepolcro dei costruttori di cimiteri. (Raoul Vaneigem, 21 aprile 2021)

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La vita tra i resti

Innanzitutto, cosa resta da salvare? L’impero della distruzione ha continuato a espandersi fin dal Neolitico,2 rafforzando costantemente le basi scientifiche e materiali (industriali) della sua potenza per lanciarsi, agli albori del XIX secolo, in un’offensiva generale (finale?) contro il vivente. Quella che da Chaptal, il chimico e imprenditore ministro di Napoleone I, viene per analogia chiamata “la rivoluzione industriale”, quando invece fu un’accelerazione verticale, ininterrotta e forse esponenziale, iniziata nel Medioevo, e anche prima. Da allora, tutti gli indicatori statistici (economici, demografici, di crescita, produzione, consumo, traffico, comunicazioni, inquinamento, distruzione, ecc.) hanno un andamento che assomiglia alla traiettoria di un missile che punta sempre più velocemente allo zenit. Molti ne sono entusiasti e lo chiamano progresso.
Gran parte dell’attività scientifica consiste nel fare l’inventario di queste distruzioni e delle loro autopsie, e nel tenere un registro di quelle in corso. Avremo così la soddisfazione di sapere che la nostra stessa scomparsa è in gran parte il risultato di un suicidio; e questo suicidio è il risultato dell’istinto di morte, teorizzato da Freud..’ Vale a dire una volontà infantile di onnipotenza che finisce per volgersi
contro se stessa, poiché il potere crescente dei mezzi acquisiti supera la saggezza di chi li detiene.

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Debord e la geografia urbana

Di tante storie a cui partecipiamo, con più o meno interesse, la ricerca frammentaria di un nuovo stile di vita resta il solo aspetto interessante. Va da sé il più grande distacco nei confronti di alcune discipline, estetiche o altre, la cui insufficienza a questo riguardo è prontamente verificabile. Occorrerebbe dunque definire alcuni terreni d’osservazione provvisori. E, fra essi, l’osservazione di certi processi del casuale e del prevedibile nelle strade. Il termine psicogeografia, proposto da un cabilo illetterato per indicare l’insieme dei fenomeni che preoccupavano alcuni di noi verso l’estate del 1953. non è ingiustificato. Non esce dalla prospettiva materialista del condizionamento della vita e del pensiero da parte della natura oggettiva. La geografia, per esempio, rende conto dell’azione determinante di forze naturali generali, come la composizione dei suoli o i regimi climatici, sulle formazioni economiche di una società e, per questa via, sulla concezione che essa può farsi del mondo. La psicogeografia si proporrebbe lo studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, coscientemente organizzato o meno, in quanto agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui. L’aggettivo psicogeografico, conservando una vaghezza assai simpatica, può dunque applicarsi ai dati accertati da questo genere di investigazioni, ai risultati del loro influsso sui sentimenti umani, e anche più in generale a ogni situazione o ogni comportamento che sembrano partecipare allo stesso spirito di scoperta. (Guy Debord settembre 1955)

Per approfondire:

 

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