Essere simbolico alternativo

James Shreeve, alla fine del suo Neanderthal Enigma, fornisce una bella illustrazione di un essere simbolico alternativo. Meditando su come avrebbe potuto essere una coscienza originaria, non-simbolica, ci presenta possibilità e differenze significative:
… gli dei del moderno abitano la terra, il bufalo, o il filo d’erba. Lo spirito di Neanderthal era l’animale o il filo d’erba, era la cosa e la sua anima percepite come una singola forza vitale, senza alcun bisogno di distinguerli con nomi diversi. Analogamente, l’assenza di espressioni artistiche non preclude la comprensione degli aspetti estetici del mondo. I Neanderthal non dipingevano sulle loro caverne immagini di animali, ma forse non avevano alcun bisogno di distillare la vita in rappresentazioni, perché le sue essenze erano già rivelate ai loro sensi. La vista di una mandria in corsa era sufficiente a ispirare un improvviso senso di bellezza. Non avevano tamburi né flauti di osso, ma erano in grado di ascoltare i ritmi esplosivi del vento, della terra e dei battiti del cuore degli altri, e di esserne coinvolti.

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Falli e mummie – Joyce Mansour

TRA IL SOGNO E LA RIVOLTA LA RAGIONE VACILLA
Una frase attraversa la testa assopita
Bisogna eludere le torri della cattedrale
Giri di sangue nel vento capogiro
Luccicanti girini
Organi inesplorati
Ascesso di fissazione per acrobati verbosi
Il ragno appeso alle ciglia
Spia la propria immagine nell’iris del cielo
Un capello finto ne sostituisce un altro nella
zuppiera
Il cervello respira male sotto il globo del ricordo
L’occhio del cavallo
Non sapendo dove posarsi
Torna alla carica
Esplosione del flusso di vita
Fissi gli occhi Gonfie le palpebre
Pesanti i miasmi nel campo dei carnivori
Una frase una sola frase sul muro cavo dello spa-
vento
L’allume chiarifica le acque
I notabili del popolo stercorario
portano fieramente la loro croce di carne
sulle spalle della propria insonnia
Ebbri bisogna vivere ebbri
Nauseante equazione del giusto mezzo
Tra le cosce tiepide dello smidollato
Vive un topo
Che vomita
Triste fine per un letterato

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Autogestione generalizzata contro il totalitarismo di Stato

Finalmente, le primizie del progetto di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana cominciano a essere esplorate da gruppi di affinità comunali federati nelle situazioni locali, ma destinati a diffondere fino al planetario il loro rifiuto del totalitarismo di Stato, della dittatura del Mercato e della disumanità mondializzata che ne consegue e che sta distruggendo la vita in nome dell’economia politica e dell’industrialismo tecnocratico di una società artificiale. Finalmente, due mondi da sempre in opposizione radicale appaiono nella loro irriducibile incompatibilità: quello gerarchico, suprematista e predatore o quello dell’aiuto reciproco e della solidarietà egualitaria. Il disumano contro l’umano: ecco il nuovo “rapporto di classe” del conflitto sociale. Della storia dove la coscienza di classe passa il testimone alla coscienza di specie. Pur se ancora parzialmente ideologica, la coscienza di classe ha avuto il merito di preservare l’umano nei tempi barbari dell’Antropocene trionfante, preparando il proprio superamento storico per il quale è cruciale liberarsi di ogni fascismo suprematista e di tutte le illusioni ideologiche di destra e di sinistra. Si tratta di accedere, per la prima volta nella storia dell’umanità, direttamente a una coscienza collettiva comune senza particolarismi di sorta. Si tratta di costruire un mondo nuovo sulle rovine del vecchio che si sta distruggendo da solo. Siamo al bivio tra un mondo che nasce e un altro che muore. La scelta non può essere più chiara, ma si tratta di farla e non soltanto di parlarne, perché il tempo stringe. (Tratto da “Storia e coscienza di classe” di Sergio Ghirardi, xxmilaleghe sotto n.13, 2021)

Per approfondire:

 

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GLI AEROPLANI SONO MADRI BRONTOLONE – Jim Morrison

Gli aeroplani sono madri brontolone
Nelle nostre labili guerre da insetti.

Profilattici di nylon le sventolano dietro Guerrieri
Troiani nel loro orrido volo ritorto.

Lanciati fuori, aspirati via
dal suo ventre di metallo,
solo un sottile laccio resta a profezia di un ritorno,
saltano liberi.

Inghiottendo aria per il secondo canale.
Il terreno che salta su come i cani
per mordere, il campo, & rotolando dolore.

Paludi, campi di riso, pericolo.
Abbattuti, più di dieci di loro
in lotta c/la placenta bagnata

Mentre qualcuno atterra più in la negli oceani.
Sommozzatori a galla, liberamente a galla,
nell’utero.

Il mare è una Vagina che
può essere penetrata a ogni punto.

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La Canzone di ZERO IN CONDOTTA


PRIMA STROFA

In una scuola ragazzini dal bel viso
Se ne vanno a cercar dei grani
Se ne vanno a raccogliere pani
Pani d’anice e la colla ch’è del riso
E piselli pisellini e patatone (bis)

Son fuggiti verso la città grande
Con ali da bei maggiolini
Hanno incontrato certi moscerini
E fu la guerra, guerra per bande (bis).

RITORNELLO

Dei nostri piedi mica per niente
Noi ce ne serviremo
Marciare marceremo
Nuotare nuoteremo
Volare voleremo
Le mani non voglion dir niente
E allor le taglieremo
Con un coltello grande grande
Come dagli Appennini sino alle Ande
Con un coltello grande grande

SECONDA STROFA

Il loro bello stendardo in battaglia
Volò lungo tutti i quattro canti
Han ricevuto colpi di mitraglia
Di dietro e anche davanti
Con dei duri pallini da elefante (bis)
Sono quelli della scuola nostra
Che alla fine la vittoria han conseguito
Ed ecco che il gruppo già è ripartito.
Forza ragazzi! A ciascuno la sua
giostra (bis).

RITORNELLO

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Siamo tutti individui unici

Perché dividiamo l’umanità in uomini e donne, anziché considerarci individui unici? Perché incaselliamo le nostre attrazioni erotiche ed emotive in “eterosessualità” e “omosessualità”? Da secoli i discorsi della religione, della scienza e delle classi dominanti influenzano, anzi, letteralmente creano le nostre idee sui generi, sulla sessualità e sui ruoli predefiniti che siamo tenuti ad assumere nell’ordine sociale. Queste ideologie che delimitano i confini della “norma” sono sempre servite a mantenere stabili i privilegi di alcuni individui e gruppi sociali e ad assoggettarne altri, costringendo l’umanità a una condizione inautentica, oppressa e consenziente.
Essere anarchici/che significa, oltre che lottare contro il potere statale, religioso e scientifico fuori di noi, liberarsi dalle barriere mentali che ci impediscono di vivere rapporti veramente paritari con gli altri. Liberarsi il più possibile dalle relazioni di potere in cui siamo impilati/e, che influenzano la qualità della nostra esistenza forse ancora più pesantemente dell’oppressione che viene dall’alto. Viviamo rapporti asimmetrici fin dall’infanzia nell’ambito della famiglia, che poi si replicano nelle istituzioni preposte alla nostra educazione e istruzione: collegi religiosi, scuole statali, università. Il mondo del lavoro in cui veniamo inseriti/e nell’età adulta, è una rete di relazioni di potere ancora più fitta. Anche nel rapporto con gli altri animali, con gli individui dello stesso sesso o dell’altro sesso, con gli individui di cui abbiamo differenze culturali, di provenienza, di conformazione fisica, di preferenze sessuali (e la lista potrebbe continuare all’infinito), sono impilate relazioni di potere che ci apportano un vantaggio materiale o un rafforzamento della nostra identità personale, o che al contrario ci opprimono e ci discriminano. Il nostro stesso linguaggio, e le categorie che adoperiamo per descrivere il mondo e relazionarci con le altre persone, non sono neutrali ma sono stati prodotti per perpetuare divisioni sociali non paritarie. Il primo passo per abbattere il potere è riconoscere quanto esso ha influenzato ogni aspetto della nostra vita e delle nostre relazioni, e da lì partire per rivedere i rapporti personali che portiamo avanti in modo da renderli davvero liberi e orizzontali. Si tratta di svelare le idee e le categorie che il potere ha prodotto per giustificare le asimmetrie dei rapporti sociali, funzionali a una società organizzata gerarchicamente in cima alla quale stanno proprio le istituzioni.
“E’ nella logica dell’oppresso imitare il suo oppressore e provare a liberarsi dall’oppressione attraverso azioni simili ad essa”. (Paulo Freire)

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Bisogno di sollevarci e gridare “NO!”

Il mondo futuro è proprio adesso ed è fatto di telemedicina, dad, telelavoro, e-commerce, tele-polizia, conferenze immateriali. Quando il distanziamento verrà attenuato difficilmente si allenterà il controllo dei nostri corpi. Che si tratti dell’app Immuni, dell’intelligenza artificiale applicata ai dati dei nostri smartphone, o l’uso del riconoscimento facciale — e queste sono solo la punta dell’iceberg — tutta la nostra vita è chiamata a passare sotto il controllo delle nuove tecnologie. Il post-capitalismo connesso, oltre a voler rappresentare il motore dell’economia (o se si preferisce del mondo), si sta sviluppando per garantire la nostra sopravvivenza tecnologicamente assistita in ambienti patogeni. Dalla città intelligente al pianeta intelligente, questo capitalismo tecnologico si sta sviluppando per sopravvivere ai suoi misfatti ecologici attraverso la razionalizzazione poliziesca delle popolazioni. Se non bastasse, un transumanesimo green sta fiorendo nei laboratori di ricerca di molti Stati e promette di modificare geneticamente la specie umana nel tentativo di darle qualche chance di sopravvivenza. A breve molte occupazioni non saranno più disponibili per gli umani che, soppiantati dai robot, dipenderanno da un qualche reddito non più frutto della loro attività, ma della benevolenza dello Stato. Già ora la sopravvivenza nella precarietà è realtà per milioni di persone e in prospettiva ben pochi prevedono che le cose potranno migliorare se si procede su questa strada. Anzi. Questo post-capitalismo, piuttosto che il traguardo raggiunto dell’abbondanza, assomiglia a una gestione assistita dal computer della scarsità di aria pulita, acqua, materie prime, spazio vitale, lavoro, istruzione, salute. L’umanità sta affrontando la prospettiva di un futuro cupo difficile da immaginare e abbiamo urgente bisogno di sollevarci e gridare “no!”.

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La Banda di Benevento

6 Aprile 1877

«Ai primi dell’Aprile 1877, una trentina di persone, venute non si sa donde, si riuniva tutte le sere in una casa di San Lupo, villaggio perso nelle gole del Beneventano. La notte del 6 Aprile i carabinieri che sorvegliavano la casa furono ricevuti a colpi di fucile e due tra essi rimasero sul terreno gravemente feriti.
 Dopo queste prime avvisaglie la banda, lasciata la casa, si dirige al vicino villaggio di Letino preceduta da un orifiamma rosso e nero. Occupa il palazzo del Comune e ne caccia il Consiglio Municipale a cui rilascia pel debito scarico la seguente dichiarazione: “Noi sottoscritti dichiariamo d’aver preso possesso del Municipio, di Letino a mano armata, in nome della Rivoluzione Sociale”. E i banditi pongono in calce, l’un dopo l’altro, le proprie firme. Si portano in piazza, a piedi della croce che vi troneggia, i registri del catasto, quelli dello stato civile, e se ne fa una fiammata. I contadini accorrono in folla e ad essi uno degli insorti (Carlo Cafiero)  rivolge la parola: “il movimento è generale, il popolo è affrancato, il re decaduto, la Repubblica Sociale proclamata”. Si applaude. Le donne chieggono che si proceda subito alla ripartizione delle terre. “Voi avete delle armi, voi siete liberi, fate tra voi le ripartizioni” risponde la banda. Il curato Fortini — che è anche Consigliere comunale — monta sul piedestallo della croce e dice che gli uomini della banda sono venuti a ristabilire sulla terra l’uguaglianza, come vuole il vangelo, e che si debbano quindi accogliere come gli apostoli del Signore, e gridando: “Viva la Rivoluzione Sociale!” si pone a capo del drappello e lo guida al prossimo villaggio di Gallo. A Gallo il parroco Tamburini si fa loro incontro, li accoglie bene e li presenta ai suoi parrocchiani con queste semplici parole: “sono buona gente! non abbiate paura di essi. Il governo è mutato e si dà il fuoco alla cartaccia”. La folla, rapita ed entusiasta, riceve i fucili della guardia nazionale. I registri della locale agenzia delle imposte sono recati in piazza ed arsi tra gli evviva, mentre ai molini si tolgono e si distruggono gli odiosi contatori del macinato. L’entusiasmo è al colmo. Il parroco abbraccia il capo della banda, le donne piangono di gioia: non più imposta! non più affitti! eguali tutti, emancipazione generale. Se non che…. si apprende dopo qualche giorno che le regie truppe accorrono. La banda si rifugia nella foresta del Matese e, disgraziatamente, il cielo è meno clemente dei contadini. Neve dappertutto, il freddo orribilmente intenso, i liberatori muoiono di fame. Sono arrestati in blocco e nell’Agosto del 1878 compaiono dinnanzi alla Corte d’Assise di Capua…

La catastrofe giudiziaria non è meno strana degli incidenti che l’hanno indotta: gli avvocati sostengono che si tratta di delitto politico coperto dall’amnistia accordata da Umberto I salendo al trono, ed i giurati assolvono…».  Fin qui il socialista cristiano Emilio De Laveleye nel suo Socialisme contemporaine (Parigi, Felix Alcan Editeur, 1902) laddove parlando dell’Alleanza Universale della democrazia e di Bakunin apostolo del nihilismo, sintetizza gli episodi e le vicende di quella che i giovani compagni ignorano, ed i vecchi ricordano sempre con ammirazione ed affetto: la banda di Benevento, di cui oggi abbiamo voluto nel trentesimo anniversario suscitare pei lettori della Cronaca il simpatico ricordo. Perché a costituire la trentina di persone, piovute non si sa di dove, come dice il rugiadoso De Laveleye, che il 6 Aprile 1877 ritentarono nel Beneventano l’eroica iniziativa che sulla terra di Sapri aveva condotto vent’anni avanti i Pisacane, i Nicotera, i Rota, l’eroica iniziativa di dare ad un popolo di ombre il pensiero e 
l’animo dei vivi, di dare ad uno strupo d’iloti un bagliore di coscienza, di verità, di diritto, di speranza e di libertà erano Carlo Cafiero, Alvino, Covelli, Errico Malatesta, Sergio Stepniak e cento altri che la morte ha falciato poi, e che le persecuzioni, le delusioni, le miserie hanno reso superstiti a se stessi, fatta la dovuta parte a coloro che sulla breccia rimasero e rimangono, come Errico Malatesta, immutati, tenendo il loro posto di battaglia coraggiosamente, gloriosamente. Era insomma il fior fiore dell’intelligenza e dell’energia libertaria germogliato sotto l’alito ardente della parola e dell’esempio di Michele Bakunin nel campo irrequieto della grande Internazionale. Quarantottate! ghignano in coro i piccioletti ladruncoli bastardi del socialismo scientifico e palancaiolo; e, nello stesso dispregio per le vittime e nella stessa adorazione pel successo: quarantottate! gridano nel sarcasmo nietzschiano gli apologisti eunuchi del dominatore e del superuomo.

Quarantottate? può essere; ma intanto contro gli arnesi da forca dell’antico regime superstite, l’Internazionale ergeva temeraria i postulati del nuovo diritto umano ed i suoi vessilli sanguigni. Quarantottate? evidentemente: ma intanto il nuovo regno, il primo regno d’Italia si conchiudeva senza le sintomatiche carneficine proletarie, che sono la gloria del secondo e del terzo. Quarantottate? non v’è il minimo dubbio; ma sotto la ferula cantelliana della vecchia destra non s’accucciava — anestetizzato dal cloroformio delle conquiste graduali e soprattutto pacifiche; avvilito e castrato dalle fervide obiurgazioni modernissime sulla schiavitù degli umili, perenne ineluttabile e necessaria — il proletariato della patria con cui, allora, vivevamo la vita, il palpito, il pensiero di ogni ora.

Ora siamo grandi e… furbi.

Abbiamo detto un grande addio alle quarantottate ed abbiamo messo giudizio.

Il quarantotto imperversa, è vero, nella reazione: sazia di piombo i ventri vuoti, sazia di menzogne i cervelli vergini; rifugia in galera i vecchi tronchi da cui non può più spremere né sudore né lavoro né quattrini; ci affoga nella strozza la libertà di pensiero e di parola e lo statuto; mitraglia per le risaie, per le miniere, per le
 brughiere il diritto alla vita, il diritto di associazione, il diritto di coalizione…  Ma è la reazione.

Possiamo essere reazionari noi, e ricorrere al quarantotto dell’insurrezione, delle barricate, delle rivolte sguaiate perché le classi dominanti tornano al quarantotto del crimenlese, della tortura e della forca? Ohibò! noi siamo, oggi, tutti filosofi.

Noi non comprometteremo coi moti inconsulti della ribellione primitiva le libertà consolidate onde sorride benigno dai cieli benedetti della terza Italia il regime liberale al nostro ravvedimento addomesticato; e se v’è ancora in mezzo a noi qualche semi-selvaggio che raccogliendo nel cuore ingenuo e primitivo i dolori e le onte del volgo ne temperi una folgore pei simboli dell’onnipotenza borghese, noi gli mozzeremo le unghie e le temerità in nome della fatalità darwiniana per cui spetta ai forti il dominio per cui sono retaggio ineluttabile degli umili la miseria e la vergogna. Noi pieghiamo il groppone, la coscienza, la viltà, la bandiera, maestri di raccoglimento e di rassegnazione…

E i banditi di Benevento li ricordiamo tutt’al più per la nostra… mortificazione.

[Cronaca Sovversiva, anno V, n. 14, 6/4/1907

 

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Il DADAISMO in Germania

Il Dadaismo esige:
1. L’associazione internazionale e rivoluzionaria dei creatori e intellettuali del mondo intero sulla base del comunismo radicale.
2. L’introduzione progressiva della disoccupazione attraverso la meccanizzazione generalizzata di tutte le attività. Perché soltanto la disoccupazione darà ad ogni individuo la possibilità di prendere coscienza della realtà della vita e di abituarsi finalmente a condurre la propria esperienza.
3. L’abolizione immediata di ogni proprietà (la socializzazione) e l’alimentazione collettiva come anche la costruzione di città luce che saranno proprietà della comunità e permetteranno all’umanità di accedere alla libertà.
Il comitato centrale propone:
a) l’alimentazione pubblica e quotidiana di tutti i creatori ed intellettuali sulla piazza di Potsdam (Berlino),
b) l’obbligo per il clero e per il corpo insegnante di prestare giuramento al credo dadaista,
c) la lotta più violenta contro tutte le tendenze dei cosiddetti lavoratori dello spirito (Hiller, Adler), contro il loro animo borghese nascosto, contro l’Espressionismo e contro la cultura post-classica così come viene rappresentata dallo Sturm, (La rivista Der Sturm, edita da Herwarth Walden dal 1910 al 1932 (Berlino/Vienna), fu per qualche anno una delle più importanti riviste dell’avanguardia internazionale: vi era collegata la casa editrice omonima e la “Galerie du Sturm” (serate “Sturm”, École Sturm, Thatre Sturm).)
d) l’immediata costruzione di un centro artistico di Stato e l’abolizione del concetto di proprietà nella nuova arte (l’Espressionismo); questo concetto di proprietà è totalmente rifiutato dal movimento supra-individuale dadaista che libera l’umanità,
e) l’introduzione della poesia simultanea come preghiera comunistica dello Stato,
f) l’utilizzazione delle chiese per la rappresentazione di poesie rumoriste, simultanee e dadaiste, g) la creazione, in ogni città di più di cinquantamila abitanti, di un Consiglio Dadaista per la riorganizzazione della vita,
h) la realizzazione immediata di una grande campagna di propaganda dadaista, con centocinquanta circhi, per l’informazione e l’educazione del proletariato,
i) il controllo di tutte le leggi e di tutti i decreti da parte del comitato centrale dadaista della rivoluzione mondiale,
/) la regolamentazione immediata di tutti i rapporti sessuali secondo lo spirito internazionale dadaista.
Il comitato centrale dei dadaisti rivoluzionari.
Gruppo Germania: Hausmann, Huelsenbeck
Per approfondire:

 

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VENTUNESIMO ALTROVE

Il numero che presentiamo si apre con un vero e proprio “Dossier Taussig”, ossia con un omaggio a colui che può senz’altro essere definito il più trasgressivo antropologo vivente, di difficile inquadramento, come il suo maggiore e costante riferimento intellettuale, il filosofo Walter Benjamin. Tra l’altro, come il lettore scoprirà, il suo nome non compare solo nei suoi contributi, ma serpeggia in vari altri scritti compresi nel numero… Nel primo breve pezzo Michael Taussig, tra coronavirus e sciamanismo, introduce il tema decisivo del “re-incanto”, mentre nel secondo pezzo conversa lungamente con Peter Lamborn Wilson, meglio conosciuto come Hakim Bey, forse il più noto esponente internazionale del pensiero anarchico degli ultimi decenni. Negli altri due pezzi al prediletto Benjamin viene affiancato un altro autore caro all’antropologo, l’inafferrabile William Burroughs, uno dei quali più noti aforismi recita: “la cosa più pericolosa da fare è restare immobili”. All’antropologo trasgressivo Taussig fa seguito un testo del filosofo e musicologo trasgressivo Frédéric Bisson, che coniugando le linee tracciate dallo scrittore Henri Michaux con quelle di un filosofo a lui caro, Alfred North Whitehead, abbozza i fondamenti di una vera e propria “filosofia psichedelica”. Dopo lo sguardo “antropologico” e quello “filosofico”, ecco quello “psichiatrico transculturale” con un esponente di punta del nostro Paese, Alfredo Ancora, che ci riconduce di nuovo dinanzi alle meraviglie della cultura sciamanica, da lui indagata e assorbita da anni nei numerosi viaggi e incontri nell’Asia centrale. Con i saggi di Ralph Metzner e Gianfranco Mele entriamo in un’area che possiamo chiamare “etnobotanica”.
Il primo non ha bisogno di presentazioni, ma, come ci ricorda Gilberto Camilla nella nota introduttiva, è venuto a mancare il 14 marzo 2019, e dunque con questa pubblicazione, che fa seguito ad altre del passato, la nostra rivista rende omaggio a una figura di primo piano degli ultimi decenni nello studio degli stati modificati di coscienza. Dal canto suo il sociologo e musicista Gianfranco Mele, collaboratore di lunga data della SISCC e tra i fondatori della nuova SISSC, ci offre una sua ulteriore disamina su un tipo di piante che possiamo a buon diritto definire “leggendarie”. Wouter J. Hanegraaf e Federico Battistutta esaminano il tema della psichedelica e degli stati modificati di coscienza dai
rispettivi punti di osservazione che sono per il primo l’esoterismo (Hanegraaf è attualmente uno dei maggiori studiosi internazionali di tale disciplina) e per il secondo la religione concepita in una prospettiva, apparentemente paradossale, laica e libertaria. Nicholas Cozzi introduce lo sguardo sulla psichedelica da parte di discipline di frontiera come le neuroscienze, mentre Gilberto Camilla regala una sintetica e brillante storia degli anni d’oro della psichedelia. Non poteva mancare nel numero un’attenzione alla musica, disciplina sempre coltivata nella SISSC a tutti i livelli (relazioni, laboratori, concerti). I due saggi d’eccellenza selezionati sono opera da un lato di uno dei più geniali studiosi del nostro Paese, da anni docente all’Università di Francoforte in Germania, Leopoldo Siano, che presenta un compositore francese ancora non sufficientemente noto nel nostro Paese, Jean Claude Eloy, dall’altro di Marcos Boon, giornalista, scrittore e professore universitario, capace di attraversare brillantemente
molteplici discipline, che delinea i tratti di una etnopsichedelia musicale incrociando, tra l’altro, anche i “nostri” Taussig e Hakim Bey. Dopo l’orecchio, la vista, ed ecco che tra indagine iconografica e indagine etnomicologica il chimico Gianluca Toro, altro collaboratore di lunga data della SISSC, ci documenta un aspetto dell’arte rupestre sahariana, mentre l’antropologa Stefania Consigliere e il padre dell’etnopsichiatria italiana, nonché antico collaboratore della SISSC, Piero Coppo, conducono una serrata e profonda requisitoria su un testo del noto antropologo francese Jean Loup Amselle, la cui traduzione italiana è appena arrivata nelle librerie. Un altro testo di attualità, divenuto celebre anche per via della pubblicazione in una casa editrice raffinata e di prestigio come l’Adelphi, è quello del giornalista Michael Pollan, che si è inserito nel contesto del cosiddetto “Rinascimento psichedelico”. Gilberto Camilla a partire da esso offre utili strumenti di riflessione. Conclude il voluminoso numero una breve intervista che il “nostro” Maurizio Nocera condusse con il grande pensatore Elémire Zolla qualche anno prima della sua scomparsa, e prima della pubblicazione dello straordinario volume su i “moderni Dionisiaci”, e infine una rassegna da parte dello stesso Nocera che, muovendo le mosse da un’altra pubblicazione recente di successo, il libro di Agnese Codignola sull’LSD, ripercorre la storia della nostra rivista. E qui il cerchio si chiude.

Per approfondire: 

 

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