ORGANIZZAZIONE CONSILIARE

Organizzazione Consiliare (Riccardo d’Este, Pier Franco Ghisleni, Carlo Ventura, Fabio Francardo, Valerio Bertello, Eva Ripa, Paolo Tonin, Salvatore Testagrossa, Giuseppe Consalvi, Glauco Giacomelli e altri) si costituisce a Torino a metà del 1970, su iniziativa di Riccardo d’Este, con il desiderio di riprendere l’esperienza di Ludd ma superando i limiti di un gruppo che era rimasto “troppo politico”. Elemento decisivo nella formazione di Organizzazione Consiliare è una detenzione in carcere di d’Este e di alcuni altri futuri consiliari che ha permesso loro un contatto diretto con il proletariato detenuto.

Volantino diffuso il 31 maggio 1971 a commento di un solito corteo del sabato pomeriggio  (rito della sinistra extraparlamentare all’epoca) stravolto dall’intolleranza di un migliaio di proletari.

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IL FUTURO TRIONFA MA NON ABBIAMO UN AVVENIRE

La scienza è ancora oggi un modello forte che corrisponde a un’immagine di universalità e potenza in un contesto globale di disordine climatico e di degrado sociale. Mentre la vita diventa sempre più assurda e le società sempre più brutali, la ricerca è l’unicosettore a offrire l’immagine rassicurante di continuità con le epoche passate, un settore che parrebbe al riparo dalla meschinità dei rapporti mercantili e che continuerebbe a progredire anche mentre tutto crolla. Ma è un’illusione funesta. Un corpus di conoscenze rigorosamente stabilito sarà sempre indispensabile, così come l’invenzione di tecniche al servizio delle comunità umane, ma tutto questo ha un ruolo marginale in ciò che oggi chiamiamo ricerca, e serve per lo più a giustificare tutto il resto. Un’ingenua buona fede produce gli stessi effetti del peggiore cinismo, lasciando campo libero a tutte le aberrazioni immaginabili. Non ci si salva facendo da sostegno ideologico alle peggiori atrocità. In questi tempi confusi in cui, nella bocca dei ricercatori e
nell’immaginario collettivo, la tecnoscienza appare l’unico avvenire
comune, noi, studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici, disoccupati e disoccupate che credevamo nella capacità dell’Università di preservarci da compiti idioti o irresponsabili, abbiamo deciso di organizzarci in vista di uno stravolgimento radicale che abbiamo scelto di non attendere. Denunciamo la collaborazione attiva dei ricercatori con i poteri militari e industriali che li finanziano, ne definiscono gli obiettivi e utilizzano le conoscenze e le tecniche messe a punto nei laboratori. Questa collaborazione risale alle origini della scienza moderna, i cui progressi sono sempre stati in stretto rapporto con quelli delle tecniche di guerra. Ma con la Seconda Guerra mondiale si è compiuto un salto quantitativo e qualitativo. Oggi la maggior parte delle ricerche non serve a far progredire le conoscenze, ma ad accrescere la potenza militare ed economica. La volontà di sapere è un alibi che serve a far accettare la corsa agli armamenti e la competizione economica internazionale.

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1984/2024 – la speranza nascosta nell’avvertimento di Orwell

Sono ormai trascorsi quarant’anni dall’anno in cui George Orwell collocò la sua immaginaria società distopica.

Il romanzo 1984 non è mai stato concepito come una profezia letterale, ovviamente, ma, per i primi tre decenni e mezzo dopo la sua pubblicazione nel 1949, ha esercitato una forte presa sull’immaginazione del pubblico, almeno in Gran Bretagna.

Quando ero piccolo, negli anni ’70, le quattro cifre “1984” erano un sinonimo terrificante del futuro totalitario che tutti noi in qualche modo sapevamo essere proprio dietro l’angolo, se non fossimo rimasti vigili.

Penso che il libro di Orwell, insieme al romanzo Il Mondo muovo di Aldous Huxley del 1931, abbia contribuito a evitare l’avvento del tipo di mondo da cui entrambi ci mettevano in guardia, rendendo abbondantemente chiaro che nessuno, indipendentemente dall’appartenenza politica, accoglieva favorevolmente un simile futuro.

La data ha perso molto del suo effetto, ovviamente, una volta passato l’anno indicato. All’improvviso il 1984 era solo parte della vita di tutti i giorni: è stato l’anno in cui la tua ragazza ti ha lasciato, in cui hai superato l’esame di guida o in cui l’Everton ha battuto il Watford nella finale della Coppa di calcio FA.

E anche se molti di noi erano ancora preoccupati per la prospettiva che uno stato rafforzasse la sua presa da Grande Fratello, non c’era più la sensazione di fare un triste conto alla rovescia fino a quell’anno fatidico: le persone cominciavano invece a guardare con ansia al nuovo brillante futuro annunciato per l’anno Duemila.

Ora, però, la data 1984 è ritornata a essere un pensiero semi-astratto, soprattutto per tutti i nati dopo quella data, e il titolo del libro sembra molto meno importante del contenuto, oggi fin troppo attuale.

È vero che parte della forma narrativa della storia è piuttosto datata. Rileggendolo ai fini di questo articolo, sono rimasto colpito dal modo in cui Orwell descrive una Londra del dopoguerra danneggiata dalle bombe, che era già scomparsa quando sono nato e che immagina abitata da un classe operaia bianca (i “prolet”) che ora si è in gran parte trasferita.

L’idea che “non si vedessero letteralmente mai” stranieri camminare per le strade di Londra sarebbe già suonata un po’ strana nella vita reale nel 1984, per non parlare di oggi!

Ho anche notato un piccolo difetto di plausibilità nella trama, nel senso che Winston Smith, avendo prestato la massima attenzione a non farsi mai vedere parlare con la sua amante Julia in pubblico, la porta allegramente con sé per incontrare O’Brien, che spera semplicemente sia dalla sua parte.

Poi, pochi secondi dopo essere arrivato a casa del funzionario, sbotta: «Siamo nemici del Partito»! e prosegue dicendo di accettare di «corrompere la mente dei bambini», «trasmettere malattie veneree» e «gettare acido solforico in faccia a un bambino» se richiesto dalla resistenza clandestina conosciuta come Confraternita.

Qualcuno lo farebbe davvero?

Ma questi sono piccoli cavilli rispetto al modo misterioso in cui Orwell prevedeva gran parte del controllo psicologico e della manipolazione che stiamo subendo oggi.

Possiamo subito riconoscere nelle pagine del romanzo, ad esempio, coloro che stanno attualmente imponendo il Grande Reset e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

«Altrettanto ovvio era immaginare quale tipo di persone avrebbe controllato il mondo. La nuova aristocrazia era formata per la massima parte da burocrati, scienziati, tecnici, sindacalisti, esperti in pubblicità, sociologi, insegnanti, giornalisti e politici di professione. Costoro, le cui origini vanno rintracciate nelle classi medie salariate e nei gradi superiori della classe operaia, erano stati plasmati e amalgamati dallo sterile mondo dei monopoli industriali e delle forme centralizzate di governo.»

Lo stesso vale per la misura del controllo esercitato: perfino la Chiesa cattolica del Medioevo era tollerante, rispetto agli standard moderni. Il motivo è in parte il fatto che in passato nessun governo aveva il potere di tenere i propri cittadini sotto costante sorveglianza…

«Il perfezionamento tecnico della televisione, in particolare, consentendo di ricevere e trasmettere simultaneamente immagini attraverso il medesimo strumento, pose fine alla vita privata.
Ogni cittadino – almeno ogni cittadino tanto importante da giustificare un simile impegno – poteva essere osservato dalla polizia ventiquattr’ore su ventiquattro, e immerso nel sonoro della propaganda ufficiale… Per la prima volta diveniva possibile indurre nelle coscienze non solo una cieca obbedienza alla volontà dello Stato, ma anche una totale uniformità di opinioni.»

Anche l’agenda globalista dell’attuale criminocrazia è chiaramente descritta: «Il Partito persegue due fini essenziali: conquistare tutta la Terra e distruggere definitivamente ogni forma di libero pensiero.»

Le tre zone in guerra del mondo multipolare di Orwell hanno ideologie che sono solo superficialmente diverse: «Nell’Oceania il sistema dominante si chiama Socing, in Eurasia Neobolscevismo, mentre per l’Estasia si fa ricorso a un’espressione cinese, di solito tradotta col nome di Culto della Morte… In realtà le tre dottrine sono assai simili fra loro, mentre i sistemi sociali che esse informano sono assolutamente identici.»

I tiranni immaginari di Orwell si abbandonano addirittura alla stessa pianificazione a lungo termine per aumentare il controllo, dichiarando che entro il 2050: «Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.»

Sono decisi ad abolire la vita umana naturale: «I bambini dovevano essere generati per mezzo dell’inseminazione artificiale (insemart, in neolingua) e allevati dalle pubbliche istituzioni», e sono orgogliosi del successo del loro progetto di distanziamento sociale; «Abbiamo infranto ogni legame fra genitori e figli, uomo e uomo, uomo e donna.»

A ciò si accompagna la mobilitazione dei giovani indottrinati per imporre il dogma ufficiale. «Era quasi normale che le persone di età superiore ai trent’anni avessero paura dei propri figli. Non passava settimana, infatti, che il Times non contenesse un articolo su qualche orecchiuto spioncello (l’espressione usata in questi casi era “bambino eroe”) che aveva captato un”osservazione compromettente nella conversazione dei genitori e perciò li aveva denunciati alla Psicopolizia.»

Il mito del progresso gioca un ruolo importante nel mantenimento dell’accettazione sociale per questo regime totalitario immaginario.

«Giorno e notte i teleschermi vi riempivano le orecchie di statistiche comprovanti che adesso la gente aveva più cibo, più vestiti, case migliori, divertimenti migliori… che viveva più a lungo, che lavorava per un numero minore di ore, che, rispetto a cinquant’anni prima, era più in carne, più sana, più forte, più felice, più istruita. Non era possibile dimostrare o contestare nulla di tutto ciò.»

Al centro del controllo psicologico del Socing sulla popolazione c’è l’invenzione e lo sviluppo della neolingua, un gergo politicamente corretto volto a inserire la visione del mondo del Partito nei termini stessi necessari per pensare e comunicare.

Parlare e scrivere usando le parole nel loro senso originale era considerato Archelingua e quindi doppiamente arcipiùsbuono e poteva anche portare a un soggiorno prolungato in un camposvago.

La neolingua svolge un ruolo importante nella criminalizzazione della libertà da parte del regime.

Accanto al noto concetto di Psicoreato del Socing esiste anche il Facciacrimine: «avere sul volto un’espressione sconveniente (come il mostrarsi increduli, per esempio, all’annuncio di una vittoria.»

Orwell aggiunge: «Compiere una qualsiasi azione che lasciasse intendere una certa predilezione per la solitudine, perfino fare due passi da soli, era sempre un po? pericoloso. In neolingua vi era una parola che la definiva, vitinprop, che stava a indicare individualismo ed eccentricità.»

Accanto alle tecniche mentali del Bispensiero e dello Stopreato, che ho descritto in un articolo precedente, troviamo il Nerobianco che «indica la sincera volontà di affermare che il nero è bianco quando a richiederlo sia la disciplina di partito» e anche «la capacità di credere veramente che il nero sia bianco e, più ancora, di sapere che il nero è bianco, dimenticando di aver mai pensato il contrario.»

I vaccini sono sicuri ed efficaci. Le donne possono avere peni. Il pensiero critico è pericoloso.

Anche quando le vecchie parole non vengono effettivamente abolite, vengono private del loro significato essenziale.

Orwell spiega: «in neolingua esisteva ancora la parola libero, ma era lecito impiegarla solo in affermazioni del tipo “Questo cane è libero da pulci”; o “Questo campo è libero da erbacce”. Non poteva invece essere usata nell’antico significato di “politicamente libero” o “intellettualmente libero”, dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più neanche come concetto e mancava pertanto una parola che la definisse.»]

Questa manipolazione ha un impatto reale nella creazione di uno spazio sociale più sicuro e inclusivo, libero da disinformazione, incitamento all’odio o qualsiasi tipo di teoria della cospirazione o negazionismo: «In neolingua l’espressione di opinioni non ortodosse, al di sopra di un livello molto basso, era quasi impossibile.»]

Una delle battute più memorabili del romanzo è l’insistenza del Partito sul fatto che «“Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”.»

Qualsiasi contenuto inappropriato che sia stato precedentemente pubblicato deve essere mandato nell?oblio nel buco della memoria.

«Non possiamo tollerare che un pensiero sbagliato esista in una parte qualsiasi del mondo», sottolinea O’Brien, membro del Partito Interno, e apprendiamo che «non si permetteva che restasse traccia di notizie o opinioni in contrasto con le esigenze del momento.»

Il risultato è una popolazione totalmente disorientata. «Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità.»

«Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna. Il senso comune costituiva l?eresia delle eresie.»

Le parole di O’Brien assumono una certa sfumatura postmodernista quando insiste: «Noi controlliamo la materia perché controlliamo la mente. La realtà si trova nella scatola cranica.… Le cose esistono solo in quanto se ne ha coscienza.»

Soprattutto, la mafia al potere vuole nascondere la sgradevole realtà del suo controllo. «Tutte le convinzioni, i costumi, i gusti, le emozioni, gli atteggiamenti mentali che caratterizzano il nostro tempo sono stati in realtà programmati al solo fine di sostenere la mistica del Partito e di impedire che venga colta la vera natura della società contemporanea.»

La falsa opposizione è un altro strumento utilizzato da Socing per ingannare e schiacciare i potenziali dissidenti, in particolare la figura da cartone animato dell’arcisovversivo Emmanuel Goldstein, autore di un libro intitolato The Theory and Practice of Oligarchical Collectivism (Teoria e pratica del collettivismo oligarchico, che ha un chiaro sentore di Karl Marx.

Invece di vedersi negare l’ossigeno della pubblicità da parte del regime, come ci si potrebbe aspettare, il suo volto e le sue parole vengono costantemente mostrati sui teleschermi come un odioso opposto binario del Grande Fratello, figura di spicco del Socing.

«Goldstein stava rivolgendo il solito attacco velenoso alle dottrine del Partito, un attacco così eccessivo e iniquo che non avrebbe tratto in inganno neanche un bambino e purtuttavia plausibile quanto bastava a trasmettere l’allarmante sensazione che potesse far presa su persone sufficientemente credule e ingenue» scrive Orwell.

Sebbene Goldstein «chiedeva a gran voce libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di pensiero», lo fa «parlando concitatamente ed esprimendosi in uno stile polisillabico che suonava come una parodia del modo di parlare tipico dei membri del Partito e nel quale non mancava, addirittura, qualche parola in neolingua. A dire il vero, ne conteneva più di quante un membro del Partito ne avrebbe usate normalmente.»

L’inversione deliberata e maligna del significato fa parte tanto della distopia di Orwell quanto del mondo di oggi, soprattutto con lo slogan del Partito «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.»

Si dice che il Socing e le altre ideologie globali simili siano nate da filosofie a cui ancora prestano “adesione formale”, pur ribaltando i loro ideali originali perseguendo «in maniera del tutto conscia il fine della mancanza di libertà e della ineguaglianza

«Il Partito respinge e mortifica tutti i principi che erano in origine alla base del movimento socialista, e ha scelto di farlo proprio in nome del Socialismo.»

«Perfino i nomi dei quattro Ministeri che ci governano manifestano una sorta di impudenza nel loro deliberato stravolgimento dei fatti. Il Ministero della Pace si occupa della guerra, il Ministero della Verità fabbrica menzogne, il Ministero dell’Amore pratica la tortura, il Ministero dell’Abbondanza è responsabile della generale penuria di beni.»

A questa demoniaca inversione di valore si aggiunge una malefica ossessione per il potere, fin troppo familiare a noi oggi.

O’Brien dichiara: «Il Partito ricerca il potere in quanto tale. Il bene altrui non ci interessa, è solo il potere che ci sta a cuore.… Noi sappiamo che nessuno si impadronisce del potere con l’intenzione di cederlo successivamente. Il potere è un fine, non un mezzo. Non si instaura una dittatura al fine di salvaguardare una rivoluzione: si fa la rivoluzione proprio per instaurare la dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione, il fine della tortura è la tortura, il fine del potere è il potere.»

In un’altra delle frasi agghiaccianti per cui 1984 è così famoso, aggiunge: «Se vuoi un’immagine del futuro, pensa a uno stivale che calpesti un volto umano in eterno.»

Per il regime è importante che il suo controllo sia così completo che diventi impossibile anche solo immaginare che un giorno possa finire.

O’Brien dice a Winston: «Se hai mai cullato il sogno di una insurrezione violenta, è meglio che lo lasci perdere. Non esiste alcuna possibilità di rovesciare il Partito. Il Partito governerà in eterno. Da qui deve muovere ogni tuo pensiero.»

Il senso di impotenza imposto dal Partito sembra funzionare su Winston, almeno per quanto riguarda le prospettive della sua personale microribellione, e «non voleva accettare che per legge di natura il singolo è destinato a essere sconfitto in ogni caso.»

Il fatto che finisca per tradire i suoi principi sotto tortura nella Stanza 101, denunciando la sua Julia e ammettendo di amare il Grande Fratello, può lasciare il lettore con un senso di sconfitta pesante e impotente e da tempo considero questo un difetto del libro.

Ma uno sguardo più attento rivela che c’è anche qualcos’altro, una profonda controcorrente di speranza che scorre contro l’ondata della repressione totalitaria.

Una parte di questa speranza Winston la vede nell’85% della popolazione nota come “prolet”, anche se la loro creduloneria e mancanza di immaginazione lo frustrano: «Non avrebbero dovuto fare altro che levarsi in piedi e scrollare le spalle, come un cavallo che scuote da sé le mosche. Se avessero voluto, avrebbero potuto fare a pezzi il Partito l’indomani stesso. L’avrebbero pur dovuto fare, prima o poi. Eppure…»

Trova anche incoraggiamento nella capacità di una persona come Julia di vedere attraverso le bugie diffuse dal regime, nonostante l’imponente muro di inganni che ha costruito attorno alle sue attività.

Sorprende Winston «affermando con noncuranza che secondo lei questa guerra non esisteva. Le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell’Oceania, “per mantenere la gente nella paura”.»

La capacità umana di vedere la verità e di rimanervi fedele nelle situazioni più difficili è la chiave della varietà di speranza di Orwell, nonostante tutto.

«Essere in minoranza, anche una minoranza di uno solo, non ti rendeva pazzo. C’era la verità e la non verità, e se ti aggrappavi alla verità anche contro il mondo intero, non eri pazzo.»

Descrive anche un’innata sensazione di giusto e sbagliato che ci consente di percepire che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella società in cui viviamo.

Winston, riflettendo sul proprio disagio, pensa: «non costituiva comunque il segno che non era questo l’ordine naturale delle cose… Come sarebbe potuto apparire intollerabile, tutto ciò, se non si fosse conservato una sorta di ancestrale ricordo che le cose un tempo erano state diverse?»

È questa fonte di speranza al di là dell’individuo fallibile e mortale a cui Smith cerca di aggrapparsi durante il suo interrogatorio.

Dice a O’Brien: «Io so che fallirete. C’è qualcosa nell’universo… non so, uno spirito, un principio… che voi non riuscirete mai a dominare.»

Orwell, la cui salute stava peggiorando mentre scriveva il romanzo, non poteva proiettare alcuna prospettiva di cambiamento immediato nella sua società immaginaria.

Tuttavia, Winston dice a Julia: «Non credo che nel corso della nostra esistenza noi possiamo cambiare qualcosa, ma non è impossibile immaginare piccoli nuclei di resistenza che nascono qua e là, gruppetti di persone che si mettono insieme e poi lentamente infittiscono le proprie file, fino a lasciare dietro di sé una qualche traccia visibile. In tal modo la prossima generazione potrebbe riprendere il cammino là dove noi lo abbiamo interrotto.»

Queste non sono le parole di un uomo che si è arreso alla disperazione.

Ma l’elemento più importante in questa controcorrente nascosta dell’ottimismo orwelliano è qualcosa che ho notato solo nella mia più recente rilettura.

L’appendice, I principi della neolingua, ripercorre il periodo del Socing al passato, dal punto di vista di un futuro più lontano in cui l’incubo del Grande Fratello è evidentemente giunto al termine e in cui una sorta di libertà e di buon senso sono stati ripristinati.

Egli osserva, ad esempio: «solo una persona totalmente radicata nel Socing potrebbe apprezzare a pieno l’energia del termine ventralsentire, che implicava un senso di accettazione cieca ed entusiasta, quale non è agevole a trovarsi oggi.»

Quindi all’orizzonte c’è un “oggi” in cui “l’accettazione cieca ed entusiastica” del totalitarismo non solo appartiene al passato, ma è addirittura “difficile da immaginare”.

A conferma di ciò, l’ignoto autore di questo resoconto pseudo-storico osserva che «l’adozione integrale della neolingua era stata fissata solo per il 2050.»

Queste sono le ultime parole nell’ultima pagina del libro e Orwell ci dice qui, proprio alla fine del suo racconto, che il regime del Socing è caduto prima di poter realizzare il suo programma a lungo termine di cancellare completamente la libertà umana!

Il Partito può essere rovesciato! Lo stivale non ha calpestato un volto umano per sempre!

E come è stato possibile, di fronte allo schiacciante controllo a tutto campo delle vite e delle menti delle persone che Orwell descrive con effetti così terrificanti?

Può essere stato possibile solo grazie al rifiuto di lasciar perdere la verità e alla fede nello spirito dell’universo che alla fine impedirà alla morte di prevalere sulla vita, alla schiavitù sulla libertà o al potere sull’umanità.

Orwell deve aver scritto 1984 per il disperato e ispirato bisogno di fare la sua parte nella lotta contro le forze dell’oscurità che ci attendono.

Ha fatto quello che ha potuto e, come ho detto, per molti anni il suo monito ha contribuito a frenare l’avanzata della tirannia.

Ora tocca a noi raccogliere il testimone della sfida profonda che ci sta porgendo, attraverso i decenni.

Sta a noi trarre ispirazione dalla nostra memoria ancestrale dell’ordine naturale, vedere oltre le bugie del sistema, unirci in piccoli gruppi e formare nodi di resistenza che manterranno la bandiera lacera della libertà a sventolare con orgoglio negli anni a venire.

Dobbiamo farlo senza sperare che la vittoria sia necessariamente raggiunta nell’arco della nostra vita, ma dobbiamo semplicemente mirare a fare tutto ciò che è necessario affinché, secondo le parole di Orwell, «la prossima generazione possa riprendere il cammino là dove noi lo abbiamo interrotto.»

D’altra parte, chi lo sa?

Forse la caduta del sistema arriverà prima di quanto potremmo pensare.

Orwell fa osservare a Winston che «la vittoria poteva essere ottenuta solo in un futuro remoto.»

Lo ha scritto 75 anni fa.

Forse quel futuro lontano è adesso!

(postato il 1° gennaio 2024 su Winter Oak di Paul Cudenec)

 

Riferimenti:

1984/2024 – the hidden hope in Orwell’s warning

https://www.youfriend.it/wp-content/uploads/2020/01/1984-Orwell-Ebook-.pdf

 

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Luisa Michel e il Nautilus

Il 21 gennaio 1954 fu varato il primo sottomarino interamente azionato da energia atomica. Era stato costruito nel cantiere della General Dynamics Corp. a Groton, Connecticut, ed era stato solennemente battezzato dalla moglie del Presidente degli Stati Uniti col nome di Nautilus. Fu ammesso al servizio della Marina il 30 settembre e dopo numerosi collaudi ed esperimenti fu ispezionato verso la fine di marzo 1955 da dodici membri dalla Commissione unica del Congresso per l’Energia Atomica, i quali ne rimasero entusiasti, e lo descrissero poi come realizzazione generosa di un sogno· letterario del secolo passato: il Nautilus immaginato nel romanzo di Giulio Verne: “Ventimila leghe sotto i mari”, un sottomarino fantastico e terribile che a fianco di una potenza distruttiva indescrivibile realizzava le più audaci visioni della scienza. Del romanzo di Giulio Verne è stato questione in questi ultimi tempi anche per altre vie. Se n’è parlato molto, in Francia specialmente, per la ricorrenza del cinquantesimo anniversario della morte del Verne avvenuta appunto il 24 marzo 1905 – e per la presentazione sugli schermi cinematografici di tutto il mondo di una nuova versione delle avventure del Nautilus, eseguita sotto la direzione di. Walt Disney con poca fedeltà letteraria, è vero, ma con una competenza tecnica che ha guadagnato ai fotografi delle profondità sottomarine il premio dell’Accademia Cinematografica (“Oscar”) per l’anno 1954. Se non che, nel gennaio ricorse un altro anniversario, il cinquantesimo della morte di Luisa Michel, avvenuta a Marsiglia il 10 gennaio 1905. E Luisa Michel, scrittrice di valore, eroina della Comune, propagandista indefessa dell’anarchismo è la vera ideatrice del Nautilus, il sottomarino immaginario del romanzo di Giulio Verne, realizzato ora per mezzo dell’energia atomica dai preparatori della terza guerra mondiale. Lo ricorda – agli ignari ed a quanti fingono di ignorare – il compagno G. de Lacaze-Duthiers, un dotto compagno francese, in un articolo documentato che vede la luce nel numero di maggio del mensile parigino: Le Monde Libertaire, dove dice tra l’altro: “Degli uomini dotti, e degli eccelsi, concordano nel riconoscere a Giulio Verne il merito di aver preveduto il sottomarino atomico nel libro ”Ventimila leghe sotto i mari”, pubblicato dalla casa editrice Hetzel nel 1870. Bisogna ristabilire la verità. Luisa Michel si era applicata a quell’epoca alla soluzione di certi problemi scientifici, risolvendo i quali, secondo lei, si sarebbe potuto avvantaggiare tutta l’umanità. Certo: la “Bonne Louise” era lontano dal prevedere l’impiego che di una simile scoperta avrebbero fatto gli stregoni in erba. Avrebbe senza dubbio preferito tenere nel cassetto il suo manoscritto, o distruggerlo addirittura, invece di farlo pubblicare. “Luisa aveva previsto anche l’aeroplano, destinato a subire la medesima sorte, d’essere impiegato alla distruzione degli esseri e delle cose mentre avrebbe potuto servire a fini di pace … “Ma torniamo alla navigazione sottomarina, che in un’opera teatrale, il “Nuovo Mondo”, aveva intravista come di prossima realizzazione, al pari della navigazione aerea. Quella era un’idea che le stava molto a cuore, tanto che l’aveva spinta a scrivere un’opera che un altro avrebbe sottoscritto, in vece sua”. Ne da testimonianza Emile Girault, il quale scrive testualmente nel suo studio: “La Bonne Louise, Psychologie de Louise Michel”, pubblicato nel 1885: “Cosa molto singolare è che, pur non essendo una scienziata, Luisa aveva intuizioni meravigliose. Cosi molti per non dire tutti, saranno sorpresi d’apprendere, per esempio, che il famoso libro “Ventimila leghe sotto i mari”, pubblicato da Giulio Verne, è suo; non già beninteso, il romanzo quale è stato pubblicato, ma l’idea fondamentale: il sottomarino, l’universalmente noto sottomarino Nautilus, cbe ella aveva concepito. Il suo manoscritto era di circa duecento pagine e un giorno che aveva più del solito bisogno di denaro, vendette il manoscritto al celebre volgarizzatore per cento franchi”. Fernand Planche, il più recente biografo di Luisa Michel, riferendo sulla sua attività di scrittrice, scrive in proposito: “Sempre nel gènere sociale-scientifico, Luisa Michel scrisse ”Ventimila leghe sotto i mari”. Un giorno che aveva molto bisogno di denaro, vendette il suo manoscritto, senza terminarlo, per cento franchi, a Jules Verne (E. Girault). “Quando la gente dice: “Straordinario quel Giulio Verne, ha previsto il sottomarino, si sbaglia. Il “Nautilus” è di Luisa Michel. Giulio Verne si è limitato a finirlo aggiungendovi qualche capitolo. Quel libro ebbe il massimo successo e gli procurò una fortuna. Ma fu Luisa Michel a concepirne l’idea fondamentale”. E l’idea fondamentale è quella del sottomarino “Nautilus”, per l’appunto, concepito dal cuore e dalla mente di Luisa Michel come arma di liberazione e di emancipazione umana. Era una rivoluzionaria, scrive nel suo articolo G.de Lacaze-Duthiers, confidava nell’avvenire di un giorno in cui gli esseri umani avrebbero raggiunta la piena coscienza della propria forza e della propria dignità, e in cui le scoperte della scienza sarebbero impiegate per il bene e per la felicità di tutti: “Aveva in tutti i campi idee originali, e misconosce !’opera sua chi non tenga nel dovuto conto questo lato del suo temperamento”. È certamente ironico che il “Nautilus,” sognato da Luisa Michel abbia finito per realizzarsi nel Nautilus del generale Eisenhower e dell’industriale Charles E. Wilson. Ma ciò vuol dire soltanto che l’aspirazione di emancipazione sociale che aveva inspirato a Luisa quel suo generoso sogno rimane da realizzare. La scienza – come il capitale – serve chi le impone la propria autorità. Come il capitale, servirà il genere umano tutto quanto solo quando questo, liberando se stesso l’avrà liberata dalle imposizioni dei prepotenti. (Tratto da L’Adunata dei Refrattari N.23, del 4 giugno 1955)

 

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NUCLEARE, NO GRAZIE

Alla COP28, 22 Paesi si impegnano a triplicare la capacità nucleare nel tentativo di ridurre i combustibili fossili. Gran Bretagna, Canada, Francia, Ghana, Corea del Sud, Svezia ed Emirati Arabi Uniti sono stati tra i 22 paesi che hanno firmato la dichiarazione di triplicare la capacità rispetto ai livelli del 2020. L’Italia non ha firmato.
E’ noto che in tutti i maggiori conflitti regionali del XX e XXI secolo, la disputa sulle risorse energetiche ha svolto un ruolo importante, e spesso determinante, nelle cause e negli esiti di queste guerre. Ma la maggior parte dei commentatori e degli storici (la “propaganda” che si spaccia per giornalismo) che analizzano questi eventi sottovalutano o addirittura ignorano completamente questo ruolo dell’energia. Come in passato, l’interpretazione di tutti i conflitti attuali o recenti si concentra sulle ideologie, il “bene” contro il “male” per spiegare e giustificare le avventure o le sequenze di questi conflitti.
Anche in Italia comunque, l’industria nucleare sta vivendo una ripresa impressionante: sul tavolo del governo, e in particolare del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, sarebbe approdato il piano per il ritorno al nucleare dell’Italia. Il contenuto delle 35 pagine del documento, presentato nelle scorse settimane al ministro Gilberto Pichetto Fratin dai vertici di Edison, Ansaldo Nucleare, Enea, Politecnico di Milano e Nomisma Energia, parla di un investimento complessivo da 30 miliardi di euro per costruire in tutto 15-20 mini centrali nucleari, con il primo cantiere aperto nel 2030, da concludersi entro il 2035, per proseguire al ritmo di un reattore l’anno fino al 2050. Intanto l’ENI si concentra sui progetti legati alla fusione nucleare. L’energia nucleare, su cui fino a poco tempo fa aleggiava l’ombra di Chernobyl e Fukushima, è diventata un’arma contro il riscaldamento globale : nel luglio 2022 ha ottenuto, non senza polemiche, l’integrazione nella tassonomia ‘verde’ della Commissione Europea. C’è stata un’epoca, il lontano 1966, in cui l’Italia era il terzo produttore al mondo di energia elettronucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna. Un record difficile da mettere a fuoco con le lenti di oggi, dopo i due referendum che nel 1987, all’indomani del disastro di Chernobyl (1986), e poi nel 2011, dopo quello di Fukushima, hanno messo la parola fine al nucleare nel nostro Paese, che oggi impiega combustibili fossili per oltre la metà del proprio fabbisogno e importa dalle nazioni confinanti quote importanti di energia, prodotta anche con impianti nucleari. Ma dall’esperienza nucleare dei cinque maggiori paesi occidentali che hanno adottato in modo convinto questa forma di energia (USA, Francia,UK, Giappone e Germania) risulta che su 170 reattori attualmente operativi, ben 114 risalgono a prima del 1986 (si avvicinano quindi ai fatidici 40 anni di servizio per i quali erano stati concepiti), solo 12 progetti sono stati avviati nel XXI secolo (5 già realizzati e 7 in costruzione), mentre 151 unità sono state permanentemente disattivate. In Gran Bretagna e Giappone la potenza dismessa è attualmente maggiore di quella installata, mentre la Germania nel 2011, dopo i fatti di Fukushima, ha abbandonato definitivamente l’avventura atomica. Inoltre, questa energia, che richiede molta acqua dolce per garantirne il raffreddamento, è vulnerabile ai cambiamenti climatici. Il rischio poi di un grave incidente evitato per un pelo nella centrale elettrica ucraina di Zaporizhia nell’agosto 2022 ci ha ricordato l’esposizione dell’energia nucleare agli attacchi militari . La gestione di una produzione di energia così pericolosa necessita poi di un’organizzazione centralizzata e controllata al massimo. L’industria nucleare dovrà presto affrontare anche la dura prova materiale e finanziaria dello smantellamento della flotta esistente, irta di incertezze su tempi, costi, esposizione radiologica e stoccaggio dei rifiuti. La necessità di gestire le scorie e di smantellare le centrali fuori servizio (decommissioning) rappresenta un fardello non da poco per i nuclearisti di vecchia data.
Per farsi un’idea della portata del problema, si pensi che la Sogin nel 2022 doveva aver completato il decommissioning dei reattori italiani al 45%, malgrado la nostra esperienza nucleare sia terminata nel 1987 e riguardasse solo quattro unità.
Come si fa a presentare ancora una volta questa energia controversa, fragile e invecchiata come un’ancora di salvezza tecnologica?
La preoccupazione alla base di queste proposte sono il picco del petrolio e il cambiamento climatico, ma non è il problema più grande che il mondo deve affrontare. È un sintomo del problema molto più ampio del superamento del limite sostenibile delle risorse del pianeta, che sta avvenendo a causa del consumo in costante aumento di energia e delle attività industriali. Ciò significa che gli esseri umani utilizzano le risorse naturali e inquinano a ritmi superiori alla capacità del pianeta di riprendersi.
Il superamento dei limiti è più difficile da contestare rispetto al cambiamento climatico: la distruzione delle foreste pluviali, il declino della popolazione di altre specie, l’inquinamento della terra, dei fiumi e dei mari, l’acidificazione degli oceani e la perdita della pesca e delle barriere coralline. Questi non fanno parte di alcun processo naturale e l’attività umana ne è chiaramente responsabile. Le auto elettriche, i pannelli solari, le turbine eoliche, le batterie e l’energia nucleare definiti energie “sostenibili” richiedono comunque notevoli input di minerali, metalli e prodotti chimici. La prevista crescita della domanda di questi materiali eserciterà una maggiore pressione sulle risorse naturali del pianeta e richiederà un uso sostanziale di energia fossile per estrazione, trasporto, produzione e distribuzione dei medesimi. Se la crescita economica continuerà, questo si tradurrà in livelli sempre maggiori di impronta materiale della società. Ciò a sua volta suggerisce che una transizione energetica avrà un effetto netto minimo sull’impronta materiale della società sul pianeta.È improbabile che le emissioni di carbonio e il superamento dei limiti planetari diminuiscano finché il consumo di energia e il PIL mondiale continueranno ad aumentare. L’interrelazione di questi fattori con il degrado dell’ecosistema terrestre significa che non esistono soluzioni senza un cambiamento strutturale di tutti questi fattori come punto di partenza: è necessario un cambiamento di paradigma di civiltà.

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NON È SUCCESSO NIENTE – Caterpillar

Cosa è successo?
Non è successo niente, diceva un poeta.

È successo che quello che è successo
succederà ancora mentre succede adesso.

Si distrugge per fare, pur di fare
per poi ancora distruggere ogni fare.
A questo serve lo spettro della morte:
a rendere più semplice l’impossibile.
E le cose semplici impiegano sempre troppo tempo
a mostrarsi per quello che sono.
La minaccia di inferni a venire
è la luce che abbaglia il presente.

Ostinatamente si nega la sostanza,
ostinatamente ci si ostina a nasconderla.
Il triste brusio dei commerci.
Lo spreco immane dei corpi.

Intanto, si obbedisce.
Ogni volta che si obbedisce
si perde qualcosa di sé.
E questo qualcosa che obbedendo si perde,
una volta perduto, è perduto per sempre.

Così pericolosa, la vita.
Così avvinghiata al suo segreto.
Così irrimediabile e scorbutica.
Intrappolata nel sale come una statua.
Un intralcio.
Un’obsolescenza.

Più nulla ci appartiene.
Più nulla che si possa difendere.
Più nulla che si debba eccepire.
La fatica ha valore per se stessa:
non si corre per andare da qualche parte,
si corre per fare la fatica di correre.
Correre, correre, correre,
fino al giorno in cui ci spareranno in petto
un’altra diagnosi.

Intanto, ci si consegna serenamente
a un’anticamera qualsiasi.
Si guarda nei vetri delle porte
per sapere chi si deve essere
e cosa si deve fare per essere,
a cosa far succedere per succedere.

Cosa è successo?
Non è successo niente, diceva un poeta.

Per approfondire:

 

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Ciao Nondas

Ripercorrendo a memoria un’antica danza chiamata dai greci rebetiko, piena di vita e di malinconia.

Il 27 giugno viaggiarono al termine
 
Della notte più corta dell’anno
 
E aspettarono l’alba del solstizio
 
In cima al Licabetto solitario,
 
il monte che una volta era dei lupi,
 
davanti al panorama dell’Acropoli
 
e al cielo che veloce impallidiva.
 
Chiamato dal ronzio dei calabroni,
 
il sole greco sorse, poi brillò
 
come un doblone della Martinica:
 
allora Maša, colpita dal dardo,
 
a braccia larghe da sola ballò
 
schioccando le dita, e mormorando
 
formule antiche, quasi un esorcismo,
 
ripercorrendo a memoria un’antica
 
danza chiamata dai greci rebetiko,
 
piena di vita e di malinconia.
 
(…)

(da La cotogna di Istanbul, Ballata per tre uomini e una donna)
 

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Le origini di Comontismo

Le origini immediate di Comontismo risalgono a tutti quei gruppi che genericamente si definiscono, e furono definiti, consiliari. Genericamente, poiché i Consigli storicamente intesi e la “teoria” che ne fu l’espressione ben poco di comune ebbero con i recenti gruppi consiliari, i quali, pur indicando nei Consigli la forma organizzativa del proletariato e con ciò la possibilità pratica dell’autogestione
della società da parte dei proletari stessi, cercavano di andare al di là della semplice affermazione della tematica consiliare ed aspiravano a forme di espressione ed a contenuti più radicali e moderni. Nei fatti però l’ambiguità fu mantenuta sino alle sue conseguenze estreme, poiché venne riaffermata schematicamente la forma Consiglio, mentre si era incapaci di derivarne gli insegnamenti storici con tutte le conseguenze che essi imponevano. Perciò è necessario un chiarimento minimo su cosa fu e su cosa significò l’esperienza consiliare in sé, ancor prima che per
i suoi epigoni e quindi per noi. La nascita storica dei Consigli coincide con un preciso periodo dello sviluppo del capitale e della sua organizzazione conseguente. Infatti essi nacquero e si determinarono in rapporto al periodo di transizione, imposto dalla crisi che la riproduzione del capitale su scala allargata comportava come sua interna conseguenza. La contraddizione fondamentale del capitale (cioè quella tra processo di valorizzazione e necessariamente conseguente processo di devalorizzazione), lo spinse alla conquista di nuovi mercati, alla riorganizzazione interna del mercato ed alla ricomposizione organicamente sociale della popolazione, alla difesa armata degli interessi dei singoli capitali nazionali ed ancor più alla ristrutturazione della produttività operaia. Tutto ciò non fu sufficiente ad impedire l’estendersi e l’approfondirsi delle contraddizioni stesse, che esplosero violentemente nella prima guerra mondiale e, più tardi, nella grande crisi internazionale del 1929 che trovò la sua risposta storica nel New Deal e nella NEP, prima forma di omogenea ripartizione e riorganizzazione del mercato e dell’economia mondiali. In seguito a ciò il capitale, sino ad allora libero di svilupparsi in maniera parzialmente irrazionale ed empirica, fu costretto a porsi come soggetto dell’intero tessuto sociale e delle forme di produzione e realizzazione del valore. La democrazia, forma politica finalmente riscoperta appieno in tale processo, ne espresse, nella sua caratteristica di momento popolare, la tendenza generale (almeno sino a che le esigenze di globalizzazione non spinsero il capitale a scegliere il fascismo come sua forma necessaria per lo sviluppo ordinato ed armonico delle potenzialità produttive). Essa significò infatti il conglobamento di tutti i ceti e le classi sociali nella logica del capitale per cui il suo proprio sviluppo poteva essere spacciato per progresso generale dell’umanità ridotta a funzione economica. L’esperienza consiliare si pone all’inizio di tale processo, soprattutto come reazione alle conseguenza delle crisi interne, periodiche, estensive ed intensive della produzione e della circolazione di merci. Solo sulla base di questo sommario inquadramento storico è possibile cercare di comprendere i ritardi di un’epoca e di coloro che ne furono i protagonisti.

Per  approfondire:

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Per una ripresa della coscienza sociale

Tornare in sé non è un tentativo di analisi, né una elaborazione teorica, né una apologia. È piuttosto l’intreccio di diverse voci che danno vita a un racconto collettivo di un orientamento culturale sovversivo, quello confluito nel movimento contro il Green Pass (GP). Ha senso raccogliere queste voci e pubblicarle perché chi ha fatto parte delle mobilitazioni è stato descritto in toni semplificati e derisori. La denigrazione si è spinta fino a delineare il profilo psico-patologico del no-vax sia nei media egemonici sia, di riflesso, in una parte consistente della popolazione. Le posizioni e i valori di chi si è messo di traverso rispetto alla gestione pandemica sono stati criminalizzati al punto da ritenere accettabile e in linea con i valori democratici silenziarli con la censura sui dispositivi telematici e con la rimozione nel dibattito pubblico. Queste opinioni eretiche e il patrimonio di energie sprigionate nelle mobilitazioni trovano qui lo spazio per raccontarsi nella loro complessità; gli attivisti rivelano le motivazioni e i valori che guidano le loro azioni; le implicazioni sulle scelte esistenziali; le azioni personali e collettive intraprese; le visioni del futuro e la tensione spirituale. Ciò permette di capire slogan, pratiche, contenuti e critiche elaborate dal movimento che sono state frettolosamente e comodamente dipinte come frutto di credenze antiscientifiche, ottusità, deliri. Credo che la visione dal basso degli eventi presentata in questo libro, sia in linea con il tentativo di interrompere processi di delega portato avanti da settori significativi del movimento. Mantenere l’attenzione sui militanti permette di apprezzare il protagonismo che risiede in un movimento culturale composito e variegato piuttosto che in poche personalità carismatiche che cercano di catturarlo, indirizzarlo, e a volte manipolarlo e usarlo. Ascoltare chi si è mosso in modo anonimo ha senso anche perché mentre le opinioni di alcuni trascinatori risuonano con insistenza da anni, quelle degli attivisti anonimi sono rimaste soffocate dal clamore di chi grida di più. Per tali ragioni ho evitato qualsiasi riferimento a esponenti di punta, partiti e associazioni. Le pagine che seguono vogliono raccontare la forma e le ragioni della sovversione culturale in questo esordio di terzo millennio attraverso le opinioni e la passione di chi ha scelto di esporsi, di anteporre l’ascolto della propria coscienza alla comodità del conformismo. (Stefano Boni)

Per approfondire:

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METTERE LE ALI… ALLE FORBICI

Prima sono venuti i libri – una splendida bibliotecari più di mille titoli che ora sitrova a Guasilia nell’ Arkiviu Bibrioteka “Tamasu Serra” -, poi tutto il lavoro di riproposizione di testi che non erano più in commercio attraverso la realizzazione di opuscoli e libretti per diffondere l’anarchia, quindi l’uso delle immagini ingrandite su carta a colori fotocopiate in larghe tirature, e alla fine questi collage. Quasi una summa di quello che era stato il suo apprendistato da autodidatta, la sua rielaborazione e la sua passione. Perché, se Assandri, come è vero, possiede l’arte del comporre, questo è dovuto anche al suo “tirocinio” sul ciclostile. La preparazione delle pagine su un particolare formato prevedeva le colonne del testo incollate su carta e arricchite da disegni, foto, vignette.., ritagliati e a sua volta incollati, ogni pagina richiedeva la sua composizione. E Assandri di sicuro si divertiva in questo montaggio. In più, se seguiva la strada indicata da Kropotkin che ogni autore doveva farsi editore e stampatore del suo libro contro ogni divisione del lavoro… il gioco era fatto! Le sue basi erano solide. Si avvaleva anche di fonti diverse come L’anarchia di Ettore Zoccoli (Fr. Bocca, Milano che aveva in una ristampa anastatica dell’edizione del 1907) ma anche di un testo senz’altro denigratorio, I delinquenti dell’anarchia di Enrico Sernicoli (Voghera, 1899) e via discorrendo come emerge dalle sue carte. Se li guardiamo con attenzione, scopriamo in ognuno di essi, un insegnamento che collega una figura, un volto a una storia, a una vita, a un avvenimento storico che vengono celati nelle righe scritte, brevi inserti, in alcuni casi, o fondi, in altri, con cui compone le sue pagine fatte di ritagli e che contribuiscono a cercare il messaggio da comunicare, ne circoscrivono il senso da trasmettere tenuto insieme da frammenti di altre immagini, da interventi colorati con il pennarello, da rimandi anche artistici ma che con l’arte hanno ben poco a che fare. Semmai con la vita. In alcuni casi sono certamente più vicini ai détournement di un Asger Jom che alla tradizione dadaista e surrealista dei collage. La sua irriverenza non si fermava di fronte a libri illustri, a edizioni uniche, a libri archiviati e ritagliava senza remore, senza “sentirsi in colpa” per aver profanato qualcosa, senza quell’ossequio verso le reliquie del passato. Non so chi abbia visto questi suoi lavori nella versione originale, senz’altro la fedele compagna Adele, i compagni che lo andavano a trovare nella sua casa/cucina/officina e adesso noi che li abbiamo avuti in eredità. Un’eredità collettiva che ci è stata lasciata per farla ancora rivivere. Sta a noi riprendere questi pezzi ormai scollati e cercare di ricostruire un quadro che sappia ancora una volta far volare le forbici della fantasia alla ricerca di quelle figure (come Assandri), di quei momenti, di quei frammenti con cui poter di nuovo ricreare un mondo a nostra immagine e somiglianza: in un mondo sempre più povero, ritrovare quegli istanti che valga la pena di vivere ancora.

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