Debord e la geografia urbana

Di tante storie a cui partecipiamo, con più o meno interesse, la ricerca frammentaria di un nuovo stile di vita resta il solo aspetto interessante. Va da sé il più grande distacco nei confronti di alcune discipline, estetiche o altre, la cui insufficienza a questo riguardo è prontamente verificabile. Occorrerebbe dunque definire alcuni terreni d’osservazione provvisori. E, fra essi, l’osservazione di certi processi del casuale e del prevedibile nelle strade. Il termine psicogeografia, proposto da un cabilo illetterato per indicare l’insieme dei fenomeni che preoccupavano alcuni di noi verso l’estate del 1953. non è ingiustificato. Non esce dalla prospettiva materialista del condizionamento della vita e del pensiero da parte della natura oggettiva. La geografia, per esempio, rende conto dell’azione determinante di forze naturali generali, come la composizione dei suoli o i regimi climatici, sulle formazioni economiche di una società e, per questa via, sulla concezione che essa può farsi del mondo. La psicogeografia si proporrebbe lo studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, coscientemente organizzato o meno, in quanto agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui. L’aggettivo psicogeografico, conservando una vaghezza assai simpatica, può dunque applicarsi ai dati accertati da questo genere di investigazioni, ai risultati del loro influsso sui sentimenti umani, e anche più in generale a ogni situazione o ogni comportamento che sembrano partecipare allo stesso spirito di scoperta. (Guy Debord settembre 1955)

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