IL MURO DI PUZZ

puzzTra le certezze rimaste della eredità lasciatami dai miei vent’anni, una continua ad esistere, anzi a persistere, malgrado le aggressioni ripetute e petulanti alle quali ho dovuto far fronte. La certezza si identifica con il confuso ricordo di una frase che suppergiù suona così: “L’obbligo di produrre aliena la passione di creare”. E il citato di turno dovrebbe essere un tal Raul Vaneigem, ma potrebbe anche non esserlo. Ecco, PUZZ aveva, ed ha, per me questa connotazione, o se si preferisce, questa giustificazione.
Certamente mi sarebbe piaciuto pubblicare su Linus e non mi è riuscito non certamente per colpa di Linus, ma non ho disegnato per PUZZ come ripiego.
PUZZ era il modello di pubblicazione che meglio si adattava al mio orgoglio di essere figlio di operai aristocratici cioè operai che disprezzavano il lavoro alla catena e adoravano il loro lavoro di operai di mestiere.
PUZZ non imponeva scadenze editoriali e quindi non dovevo obbligatoriamente, produrre l’idea e i disegni.
Contemporaneamente, era il luogo che mi permetteva di pubblicare un lavoro interamente pensato e realizzato da me. Sbagliando, ma solo rispetto al senno di poi, credevo che una condizione fondamentale di questo modo liberato di produrre fosse quella di essere ermetici ed elitari, cosa che in PUZZ mi riusciva benissimo.
Ma in fondo più che un errore era un necessario passaggio del desiderio di affermazione che mi stimolava a dimostrare di esistere, pur se con idee confuse.
Sono esistito sulle pagine di PUZZ e non su quelle di Linus, ma ho dimostrato a me stesso di esistere. Con una tiratura infima, con un pubblico di lettori forse ancor più scarso, ma sono esistito da allora.
Eccolo l’indistruttibile muro di PUZZ. Ciò che ha dato a chi come me cercava di esistere.
A ben vedere poi non era tanto il pubblicare che mi dava la sensazione di esistere. Era l’insieme delle cose da fare per assicurare l’esistenza di PUZZ a garantire questa certezza. Dalla distribuzione, alle sottoscrizioni, alle discussioni.
PUZZ ha sicuramente pubblicato cose di qualità molto diversa, alcune potrebbero essere qualificate tra la produzione artistica, altre, le mie, tra quella artigianale.
Ma tutte avevano la stessa qualità intrinseca: la libertà nella quale erano state prodotte.
Il muro è ancora lì, malgrado qualche mattone sia stato sostituito e qualcuno si sia sbriciolato, ma è all’ombra di quel muro che ancora mi riposo quando sono affaticato.
(Claudio Mellana 1992)

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Raoul Vaneigem. Solo, come resta solo il blouson noir che incendia una chiesa

ma-31903129-WEBCome la folla, la droga e il sentimento amoroso, l’alcool possiede il privilegio di stregare lo spirito più lucido. Grazie ad esso il muro di cemento dell’isolamento sembra un muro di carta che gli attori strappano a loro piacimento, perché l’alcool pone tutto su un piano teatrale intimo. Illusione generosa che uccide tanto più sicuramente.

In un bar soporifero dove le persone s’annoiano, un giovane ubriaco rompe il bicchiere, afferra una bottiglia e la fracassa contro un muro. Nessuno si scompone. Deluso nelle sue aspettative il giovanotto si lascia sbattere fuori.
Eppure il suo gesto era virtualmente in tutte le teste. È stato il solo a concretizzarlo, lui solo ha varcato la prima barriera radioattiva dell’isolamento: l’isolamento interiore, questa separazione introvertita del mondo esterno e dell’io.
Nessuno ha risposto a un segno che egli aveva creduto esplicito. È rimasto solo come resta solo il blouson noir che incendia una chiesa o uccide un poliziotto, in accordo con se stesso, ma votato all’esilio finché gli altri vivono esiliati dalla loro stessa esistenza. Non è sfuggito al campo magnetico dell’isolamento, eccolo bloccato nell’assenza di gravità. Tuttavia, dal fondo dell’indifferenza che raccoglie, percepisce meglio le sfumature del suo grido. Anche se questa rivelazione lo tortura, sa che bisognerà ricominciare con un altro tono, con più forza. Con maggior coerenza.
Non esisterà che una comune dannazione finché ogni essere isolato rifiuterà di capire che un gesto di libertà, per quanto debole e maldestro, è sempre portatore di una comunicazione autentica, di un appropriato messaggio personale. La repressione che colpisce il ribelle libertario s’abbatte su tutti gli uomini. Il sangue di tutti gli uomini cola insieme al sangue dei Durruti assassinati. Ovunque la libertà arretra di un pollice, essa accresce cento volte ll peso dell’ordine delle cose. Esclusi dalla partecipazione autentica, i gesti dell’uomo si fuorviano nella fragile illusione di essere insieme oppure nel suo opposto, Il rifiuto brutale e assoluto del sociale. Essi oscillano da un’ipotesi all’altra in un movimento di bilanciere che fa scorrere le ore sul quadrante della morte. (Raoul Vaneigem Trattato del saper vivere)

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La macchina, l’uomo, il sogno, la tragedia

frankForse per caso, sperduto tra mille novità, o tra utili ripescaggi in bilico tra sogno è realtà, esiste un primo costruttore di insoliti ed interessanti aggeggi ed invenzioni, che usa energie naturali che aiutano e sviluppano stati di coscienza più elevati: si tratta di Lord Frankenstein, geniale personaggio portato alla conoscenza del mondo da Mary Shelley con un libro finto romanzo ma rigorosamente scientifico: Frankenstein, or the Modern Prometeus del 1818.
Tentativo di romanzo gotico, secondo la voga del tempo, attua, invece, una contestazione radicale del magico e del sovrannaturale, facendo nascere il senso del meraviglioso non dall’ultraterreno ma dal contesto scientifico.
Il mostro creato dalle imprudenti sperimentazioni del professor Frankenstein è costruito con reperti anatomici, ed è animato grazie alla grande scoperta scientifica dell’epoca: la forza elettrica (Galvani, 25 anni prima aveva dimostrato che l’elettricità può far muovere i muscoli, e Volta 19 anni prima, aveva fabbricato la pila).
Frankenstein, primo uomo artificiale scientificamente concepito, è il punto di saldatura tra la tradizione magico-fantastica della mandragola, del golem, dell’homunculus e la nascente ricerca scientifica.
È una grottesca caricatura dell’immagine umana, perché il golem rabbinico e l’homunculus degli alchimisti, da cui discende, erano immagini dell’uomo raccolte in uno specchio deformante.
Cova entro di sé i semi della ribellione, perché nei confronti della società umana si vede come un corpo estraneo. È più forte dell’uomo, più resistente, più agile perché è una creatura scientifica, nata in ossequio alla pretesa della ragione di perfezionare la natura.
Dal diario di Lord Frankenstein: “… Feci delle ricerche in anatomia, chirurgia, criminologia, usanze antiche e moderne di sepoltura e di elettrodinamica. Scoprii che c’erano sei modi di tagliare il cranio. Scelsi il più facile, cioè tagliare la cima del cranio come fosse il coperchio di una pentola … Questa è la ragione per cui ho deciso di fare la testa della creatura quadrata e piatta come una scatola, e di incidere quella grossa cicatrice attraverso la fronte e di inserire morse metalliche per tenerla assieme. Le due barrette di metallo che escono dal collo sono prese elettriche … Avevo letto che gli egiziani legavano mani e piedi di certi criminali e li seppellivano vivi. Quando dopo la morte il sangue diventava acqua, scorreva nelle estremità ed ingrossava mani, piedi e faccia a proporzioni anormali. Pensai che potesse essere una buona idea per la creatura, dal momento che pensavo di costruirlo con cadaveri di criminali …

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Elridge Cleaver. Sogno drogato dell’Yippie-Pantera

© Copyright 2013 CorbisCorporationSpiritualmente, il patto Yippie-Pantera fu firmato nel 1964-65, quando gli studenti di Berkeley rivoluzionavano l’Università e fermavano i treni militari, e Eldridge Cleaver era chiuso nella prigione di Folsom.
In Anima in ghiaccio, Eldridge scrive quel che provava:
« Avrei voluto fare un salto di un miglio, o farmi crescere la barba e mettermi con Che Guevara, e condividere il suo destino, aiutando ad aprire un altro sentiero nel cervello sempre più cosciente della Nuova Sinistra… O mi sarebbe piaciuto essere a Berkeley proprio in questo momento, a rotolarmi in quell’atmosfera, a folleggiare in quella tana di pseudo-rivoluzione ».
Sin dalla nascita, Eldridge Cleaver era stato condannato al carcere dall’Amerika bianca. Ebbe la prima condanna quando venne trovato in possesso di quella che lui chiama una « borsa piena d’amore » (marijuana), ma il suo delitto era avere la pelle nera.
Adesso sta in prigione e legge sui giornali che i figli dei suoi carcerieri bianchi sputano in faccia ai propri arroganti padri!
I figli dell’oppressore si uniscono all’oppresso!
Cinque anni dopo, Eldridge Cleaver divenne il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti del partito Pace e Libertà.
La profezia di Eldridge si stava avverando: i giovani bianchi respingevano la società bianca. «Bianco » era uno stato d’animo. Gli hippies erano alla ricerca di una nuova identità.
Giovani bianchi espellevano l’Amerika borghese dalla propria mente e dal proprio corpo con la droga, il sesso, la musica, la libertà, il vagabondaggio. Affollavano le prigioni. Non partecipavano alla rivoluzione unicamente per « sostenere » i negri; rifiutando la società bianca si battevano per la propria libertà.

Eldridge voleva stringere un’alleanza tra i negri cattivi e i bianchi cattivi. Criminali di tutti i colori, unitevi! Istituire una consorteria che nasceva dalle lotte e dall’oppressione comuni.
Eguaglianza-sotto-i-pigs.
L’unità bianconera diventa reale solo quando i bianchi vengono trattati come negri.
Eldridge voleva una coalizione tra le Pantere e gli attivisti psichedelici della strada. Dal candidato a suo vicepresidente esigeva un unico requisito: che fosse fuori di prigione.
Ero appena stato assalito nel mio appartamento da tre della Squadra narcotici di New York. Eldridge mi telefono, e io ci stetti.
Ma come avrebbe reagito il partito Pace e Libertà? Gli sarebbe venuto un infarto. E’ un partito fatto di bianchi che non si sentono oppressi e che aspettano il risveglio della classe operaia, di attivisti camicia bianca-cravatta-opuscoli-prese di posizione. Questi bianchi possono anche accettare di presentare come candidato alla Presidenza un drogato, un pistolero, un ex detenuto negro. Ma un mostro di capellone bianco alla vicepresidenza?
Dio ne guardi!
Andai al congresso di Pace e Libertà a new York, e salii sul ring. Proposi di trasferire il partito dai suoi uffici burocratici alla strada. Di trasformarlo in un partito di ribelli bianchi
Proposta respinta. Il partito nominò un professore universitario con borsa di pelle regolamentare (Jerry Rubin Do it! 1970)

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Stalin ai suoi figli

stalinVi sono due modi per combattere la malattia. Quello del medico, ma per efficace che sia, non cessa di inquietare l’argomento secondo il quale la medicina deve la sua esistenza e i suoi profitti proprio alla malattia. L’altro, meno spettacolare e tutto sommato poco praticato, consiste nell’esercizio, per ciascuno di una volontà di vivere che, sotto la sua unica responsabilità, lo tutela dall’entrare troppo facilmente nei morbosi intrichi della buona e della cattiva salute.
Niente di ciò che opprime il vivente è tollerabile – l’integralismo, il razzismo, il nazionalismo, l’assoggettamento della donna, l’abbrutimento degli uomini, i regimi dittatoriali, le relazioni di disprezzo, l’omicidio, lo stupro, l’inquinamento, il massacro della fauna e della flora, il maltrattamento dei bambini, la tortura, la prigione, l’incitamento alla paura e al senso di colpa. Ma se la vita ha bisogno delle vostre leggi per difendersi, evidentemente è perché non avete mai intrapreso di renderla offensiva.
Voi applicate l’amputazione, mentre non esiste una chirurgia dei trapianti e vi appellate alla chirurgia penale, benché la propagazione del vivente sia la sola arma assoluta che distrugge al passaggio il partito della morte.
Bisognerebbe, è vero, cominciare a non amputarvi di voi stessi, pugnalati dal quotidiano. Imparare il piacere di essere se stessi.
La vostra compagnia mi è stata più gradevole che in passato. Non mancherò all’occasione di farvi visita. Un consiglio amichevole al momento di lasciarvi: prima di chiedere il mio aiuto, riflettete, anche se sento già i miei compagni esclamare: “È successo quello che di peggio sarebbe potuto succedergli ai bei tempi della sua potenza: è diventato umano”.

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Jean Dubuffet: è molto più pericoloso lasciare intatto un museo che una chiesa.

dubuffet_43Chi soggiorna a lungo,in un paese di civiltà non cristiana si rende conto di quanto il cristianesimo abbia influito sulpensiero dell’uomo occidentale, sui suoi punti di vista, sulla sua mistica, sui suoi umori (anche se è ateo, e se si proclama anticristiano). Il nostro sangue è imbevuto di cristianesimo.
Non si tratta, come generalmente si crede, di una questione di fede, o di accettazione dei dogmi, ma di una scala di valori, di un atteggiamento mentale, di un condizionamento del pensiero di cui non siamo coscienti, ma la cui esistenza è indubbia. Profondamente, inseparabilmente legata al cristianesimo, la nostra cultura è anche legata a un regime sociale che nasce dal dominio di una casta. E questa casta è il frutto secolare del cristianesimo. Le nazioni che volessero sbarazzarsi di questo dominio dovrebbero eliminare non soltanto il cristianesimo, ma anche la nostra cultura e tutti gli elementi che la compongono. Se conservano uno qualsiasi degli elementi che fanno parte della nostra cultura, esso diventerà il verme nel frutto, e prima o poi farà ritornare quel regime che si è tentato di abolire. È molto più pericoloso lasciare intatto un museo che una chiesa. Un tempo erano i gesuiti che aprivano la strada alle navi da guerra, ai negrieri e alle banche, ora sono gli organizzatori delle esposizioni d’arte che hanno questo compito. D’altronde, essendo la nostra cultura intimamente legata al nostro regime sociale, il pensiero dei nostri intellettuali è influenzato da tutti i miti sui quali il regime sociale si fonda. Questo vale anche per gli intellettuali che pretendono di non esserne complici. Il condizionamento funziona nei riguardi degli intellettuali chesicredono rivoluzionari come il cristianesimo influenza gli atei, senza che né l’uno né l’altro ne siano coscienti. (Jean Dubuffet, L’asfissiante cultura 1968)Dubuffet_QuatreArbr

 

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Chi ha paura di Marco Camenisch?

liberiSono un pastore, contadino e cacciatore delle Alpi Retiche, residuo di un genocidio consumato dallo stesso nemico che, nel corso dei secoli, ha distrutto quasi del tutto la mia terra. Nelle vesti delle multi nazionali dell’atomo e dello sfruttamento idroelettrico, turistico, del militarismo e dei suoi poligoni, con l’inquinamento radioattivo, chimico, da carburazione industriale e metropolitana, sovranazionale e via aerea, l’ipersfruttamento boschivo e agricolo è responsabile storico della rapina della mia identità etnica, della mia terra e del mio lavoro.
È nella presa di coscienza del mio essere sfruttato, schiavo ed espropriato che sono semplicemente andato fino in fondo nel tentativo della mia liberazione e nel tentativo di contribuire con tutto me stesso alla liberazione e difesa della terra che ha ospitato e nutrito i miei avi e me. Sono stato catturato dal nemico e mi sono liberato; sono stato cacciato dalla mia terra, da cacciato sono diventato cacciatore, preda e nomade, ospite di molte terre e genti. La mia solidale coscienza globale, coscienza della globalità del nemico e della sua guerra di sfruttamento e sterminio totale, non poteva che dirmi che la lotta contro di lui è dovere per e su qualsiasi terra che mi ospita. Solo così riaffermo, comunque e ovunque, la mia quotidiana e umana dignità, responsabile, solidale e comune, con le mie sorelle e fratelli di ogni razza e lingua, prresse e oppressi, sfruttate e sfruttati; solo così affermo la solidarietà con coloro che lottano, in qualsiasi modo lottino; solo così affermo la mia responsabilità, l’amore naturale e scontato per i nostri figli e per tutti i viventi di questo meraviglioso pianeta.
La comparsa del plutonio su questo pianeta è il segno più chiaro che la nostra specie è in pericolo.
Il mio sviluppo verso una critica radicale non ha avuto luogo all’interno di una specifica militanza antinucleare, ma è un percorso spesso autodidatta, lungo e irregolare, a partire dalla mia infanzia.
I miei genitori mi insegnarono un sentimento e un bisogno profondo di giustizia, nella contraddizione tra ricchezza e povertà, potere e impotenza (…)
(Marco Camenish)

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Un rebetiko stupefacente

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Non c’è molto da leggere in italiano sul rebetiko, genere di canzone cittadina sorto in Grecia negli ambienti marginali e sottoproletari nel secondo decennio del Novecento. Benvenuta dunque questa elegante pubblicazione, piena zeppa di illustrazioni, messa in vendita ad un costo più che contenuto e che raggruppa alcuni testi di Elias Petropoulos (un singolare personaggio tuttora considerato, a dieci anni dalla morte, la massima autorità nel settore), nonché di Iacques Vallet, giornalista e animatore culturale, e Iacques Lacarrière, poeta e scrittore. Ma è Petropulos l’autore effettivo e sebbene questo scritto sia soltanto una estrapolazione da un’altra sua opera, esso riesce a fornire un primo inquadramento al genere, ricostruendone la storia, riportando le biografie dei suoi maggiori protagonisti, presentando gli strumenti musicali utilizzati e dedicando ampio spazio al suo rapporto con gli stupefacenti (l’associazione con le droghe è costitutiva del rebetiko e ne permea in pratica ogni aspetto). Non sempre Petropoulos è convincente, pur avendo vissuto in prima persona ciò che racconta: la sua narrazione non è scevra da una certa inclinazione romantica nel tratteggiare l’argomento ed è quasi esclusivamente di tipo descrittivo ed evocativo. Il pezzo forte del volume sono però le immagini: quasi duecento tra disegni e fotografie, illustrano volti e corpi, paesaggi e scenari urbani, mappe ed interni di prigione, copertine di dischi e strumenti, oltre che, ovviamente, droghe (e loro effetti); immagini più eloquenti di qualsiasi parola e che da sole varrebbero la spesa per il libro, tra l’altro libero da copyright e quindi fotocopiabile a piacere: è chiaro, pero, che il basso costo incoraggia all’acquisto e c’è da scommettere (e da sperare) che saranno davvero in pochi a sfruttare questa autorizzazione. (Giovanni Vacca. Bow up febbraio 2014)

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STATI DI ALLUCINAZIONE di Ken Russell

altered_states locUn inquieto e spregiudicato antropologo, il dr. Jessup, arso da una divorante sete di conoscenza, non solo sulle origini della razza umana, ma dell’intero universo, si lancia in una ricerca scientifica estrema, che lo condurrà al di fuori dell’umano. L’idea è di sperimentare stati alterati di coscienza – da qui il titolo originale della pellicola – in modo da poter esplorare, per mezzo di essi, territori cosmici altrimenti inaccessibili alla scienza ordinaria. Inizialmente, lo studioso partecipa ad un rito iniziatico di una tribù primitiva dell’America Latina, ed assumendo una particolare droga psicotropa entra nell’allucinante mondo delle reminiscenze ataviche. In questo modo, non solo vive una prima e potente esperienza di coscienza alterata, ma innesca un profondo e radicale processo di trasformazione – non solo psichico, ma anche fisica – la svolta decisiva avviene nel momento in cui si sottopone a ripetute sedute di deprivazione sensoriale all’interno di una speciale camera atta allo scopo. Immerso a lungo nella vasca di deprivazione sensoriale, con le droghe che gli scorrono per le vene, avviene l’inaspettato e l’indicibile. Isolata quasi completamente dall’ambiente esterno, la mente di Jessup muta drasticamente il proprio rapporto con la realtà e compie un viaggio a ritroso nello stesso percorso biologico che, nell’arco di ere incalcolabili, avrebbe prodotto evolutivamente la specie umana. Jessup si trova quindi a mutare anche sul piano corporeo e a regredire ad uno stadio evolutivo umano precedente l’attuale, trasformandosi effettivamente in un ominide preistorico. La metamorfosi è temporanea, ma non vi sono limiti alle possibilità concrete della regressione ormai attivata, la quale, verso la fine, si sposta dal piano organico-biologico a quello puramente molecolare; e Jessup si ritrova a dover affrontare la spirale inversa dell’evoluzione materica dello stesso universo, vedendo ridotto il proprio stesso corpo ad un ammasso grottesco, quasi amorfo, e pulsante delle brute energie primordiali; rischiando da ultimo di precipitare nel nulla assoluto che avrebbe preceduto il Big Bang. Riesce infine a scampare all’annientamento, e a tornare completamente umano, solo grazie al fortissimo legame affettivo che lo unisce alla moglie.
Un Ken Russell allucinogeno, in bilico tra scienza e fantascienza. Un viaggio all’origine del mondo e della follia. Spettacolo morboso, drogato, che si prende gioco, tramite i protagonisti, della morale convenzionale infatti, essendo geniali, costoro aborrono le sovrastrutture sociali, il matrimonio, le cerimonie, per vivere una vita che soddisfi essenzialmente i bisogni primari, la completezza dell’essere.
Tutto inizia alla fine degli anni Cinquanta, quando un neuro-psichiatra americano, tale John Lilly, convertì una vasca per lo studio dei sommozzatori in una sorta di incubatrice della mente umana. Trasformò la vasca in uno strumento in grado di ridurre al minimo gli stimoli esterni. Originariamente la vasca permetteva allo sperimentatore di restare in una posizione verticale, ma successivamente gli studi proseguirono su una ad assetto orizzontale. La vasca era piena di acqua satura di sale di magnesio dell’acido solforico, mantenuta costantemente a temperatura corporea in modo da eliminare la sensazione tattile. Il corpo dello sperimentatore si trovava così a galleggiare in assenza di gravità in un liquido isotermico. L’assenza degli altri stimoli veniva garantita isolando la vasca da luce e rumori esterni. Stiamo parlando della così detta vasca di deprivazione sensoriale, all’interno della quale il medico conduceva i suoi soggetti che, trovandosi in uno stato di totale isolamento fisico ed emotivo, entravano in una profonda fase di rilassamento. In qualche caso dottore e paziente venivano a coincidere, perché Lilly diresse su di sé i propri esperimenti, prima affondando nella cisterna e partorendo allucinazioni, quindi assumendo regolarmente ketamina e sostanze analoghe (pare che abbia utilizzato tale farmaco per ventun giorni consecutivi, somministrandoselo in dosi di 50 mg ogni ora).
Gli studi dell’eccentrico dottore stimolarono l’immaginazione di uno scrittore, Paddy Chayefsky, che nel 1978 pubblicò, appunto, Stati di allucinazione, suo primo e ultimo romanzo.
Un paio di anni dopo, la Columbia si interessò del progetto, chiamando lo stesso Chayefsky a sceneggiare il futuro film, e Arthur Penn a dirigere. I due litigarono presto, e Penn abbandonò l’impresa, esattamente come la casa produttrice che si tirò indietro, cedendo il tutto alla Warner. La scelta del regista cadde su Ken Russell.

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Favoletta di un gallo di Gian Pietro Lucini

luciniIl Gallo canta ancora per tutto il vicinato
Il suo rosso peccato sobillatore.
Grida: “Chiricchichì, sono la turbolenza
tra i timidi animali;
ho rejetto le greppie ufficiali,
che ci impinguano, ma che ci evirano.
Mi rifiuto alla pentola borghese;
sfoggio queste pretese d’insegnare il mio canto
a tutti quanti. Grassa truppa mi fa d’avvisatore,
epe tonde e spaventate
si rivoltano dentro lo strame.
Ma il mio duro corpaccio
Vi sta innanzi ad impaccio.
Che mi direte un dì,
se dietro alla fanfara del mio chiricchichì
procederà una schiera di Galletti
ribelli, indomiti e schietti?

Io son fiero e tenace cantatore,
sono l’instancabile vigilatore,
avviso di lontano, il nibbio, la faina, la volpe,il traditore;

noto e bandisco le colpe altrui;
guerriero senza macchia, forse donchisciottesco,
trombetto all’aer fresco la diana;
porto corazza, gorgera e cimiero,
sproni, e, nel rostro, lucida partigiana;
e piume rosse e nere”.

Il Gallo canta ancora
rivolto all’aurora.

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