NUCLEARE, NO GRAZIE

Alla COP28, 22 Paesi si impegnano a triplicare la capacità nucleare nel tentativo di ridurre i combustibili fossili. Gran Bretagna, Canada, Francia, Ghana, Corea del Sud, Svezia ed Emirati Arabi Uniti sono stati tra i 22 paesi che hanno firmato la dichiarazione di triplicare la capacità rispetto ai livelli del 2020. L’Italia non ha firmato.
E’ noto che in tutti i maggiori conflitti regionali del XX e XXI secolo, la disputa sulle risorse energetiche ha svolto un ruolo importante, e spesso determinante, nelle cause e negli esiti di queste guerre. Ma la maggior parte dei commentatori e degli storici (la “propaganda” che si spaccia per giornalismo) che analizzano questi eventi sottovalutano o addirittura ignorano completamente questo ruolo dell’energia. Come in passato, l’interpretazione di tutti i conflitti attuali o recenti si concentra sulle ideologie, il “bene” contro il “male” per spiegare e giustificare le avventure o le sequenze di questi conflitti.
Anche in Italia comunque, l’industria nucleare sta vivendo una ripresa impressionante: sul tavolo del governo, e in particolare del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, sarebbe approdato il piano per il ritorno al nucleare dell’Italia. Il contenuto delle 35 pagine del documento, presentato nelle scorse settimane al ministro Gilberto Pichetto Fratin dai vertici di Edison, Ansaldo Nucleare, Enea, Politecnico di Milano e Nomisma Energia, parla di un investimento complessivo da 30 miliardi di euro per costruire in tutto 15-20 mini centrali nucleari, con il primo cantiere aperto nel 2030, da concludersi entro il 2035, per proseguire al ritmo di un reattore l’anno fino al 2050. Intanto l’ENI si concentra sui progetti legati alla fusione nucleare. L’energia nucleare, su cui fino a poco tempo fa aleggiava l’ombra di Chernobyl e Fukushima, è diventata un’arma contro il riscaldamento globale : nel luglio 2022 ha ottenuto, non senza polemiche, l’integrazione nella tassonomia ‘verde’ della Commissione Europea. C’è stata un’epoca, il lontano 1966, in cui l’Italia era il terzo produttore al mondo di energia elettronucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna. Un record difficile da mettere a fuoco con le lenti di oggi, dopo i due referendum che nel 1987, all’indomani del disastro di Chernobyl (1986), e poi nel 2011, dopo quello di Fukushima, hanno messo la parola fine al nucleare nel nostro Paese, che oggi impiega combustibili fossili per oltre la metà del proprio fabbisogno e importa dalle nazioni confinanti quote importanti di energia, prodotta anche con impianti nucleari. Ma dall’esperienza nucleare dei cinque maggiori paesi occidentali che hanno adottato in modo convinto questa forma di energia (USA, Francia,UK, Giappone e Germania) risulta che su 170 reattori attualmente operativi, ben 114 risalgono a prima del 1986 (si avvicinano quindi ai fatidici 40 anni di servizio per i quali erano stati concepiti), solo 12 progetti sono stati avviati nel XXI secolo (5 già realizzati e 7 in costruzione), mentre 151 unità sono state permanentemente disattivate. In Gran Bretagna e Giappone la potenza dismessa è attualmente maggiore di quella installata, mentre la Germania nel 2011, dopo i fatti di Fukushima, ha abbandonato definitivamente l’avventura atomica. Inoltre, questa energia, che richiede molta acqua dolce per garantirne il raffreddamento, è vulnerabile ai cambiamenti climatici. Il rischio poi di un grave incidente evitato per un pelo nella centrale elettrica ucraina di Zaporizhia nell’agosto 2022 ci ha ricordato l’esposizione dell’energia nucleare agli attacchi militari . La gestione di una produzione di energia così pericolosa necessita poi di un’organizzazione centralizzata e controllata al massimo. L’industria nucleare dovrà presto affrontare anche la dura prova materiale e finanziaria dello smantellamento della flotta esistente, irta di incertezze su tempi, costi, esposizione radiologica e stoccaggio dei rifiuti. La necessità di gestire le scorie e di smantellare le centrali fuori servizio (decommissioning) rappresenta un fardello non da poco per i nuclearisti di vecchia data.
Per farsi un’idea della portata del problema, si pensi che la Sogin nel 2022 doveva aver completato il decommissioning dei reattori italiani al 45%, malgrado la nostra esperienza nucleare sia terminata nel 1987 e riguardasse solo quattro unità.
Come si fa a presentare ancora una volta questa energia controversa, fragile e invecchiata come un’ancora di salvezza tecnologica?
La preoccupazione alla base di queste proposte sono il picco del petrolio e il cambiamento climatico, ma non è il problema più grande che il mondo deve affrontare. È un sintomo del problema molto più ampio del superamento del limite sostenibile delle risorse del pianeta, che sta avvenendo a causa del consumo in costante aumento di energia e delle attività industriali. Ciò significa che gli esseri umani utilizzano le risorse naturali e inquinano a ritmi superiori alla capacità del pianeta di riprendersi.
Il superamento dei limiti è più difficile da contestare rispetto al cambiamento climatico: la distruzione delle foreste pluviali, il declino della popolazione di altre specie, l’inquinamento della terra, dei fiumi e dei mari, l’acidificazione degli oceani e la perdita della pesca e delle barriere coralline. Questi non fanno parte di alcun processo naturale e l’attività umana ne è chiaramente responsabile. Le auto elettriche, i pannelli solari, le turbine eoliche, le batterie e l’energia nucleare definiti energie “sostenibili” richiedono comunque notevoli input di minerali, metalli e prodotti chimici. La prevista crescita della domanda di questi materiali eserciterà una maggiore pressione sulle risorse naturali del pianeta e richiederà un uso sostanziale di energia fossile per estrazione, trasporto, produzione e distribuzione dei medesimi. Se la crescita economica continuerà, questo si tradurrà in livelli sempre maggiori di impronta materiale della società. Ciò a sua volta suggerisce che una transizione energetica avrà un effetto netto minimo sull’impronta materiale della società sul pianeta.È improbabile che le emissioni di carbonio e il superamento dei limiti planetari diminuiscano finché il consumo di energia e il PIL mondiale continueranno ad aumentare. L’interrelazione di questi fattori con il degrado dell’ecosistema terrestre significa che non esistono soluzioni senza un cambiamento strutturale di tutti questi fattori come punto di partenza: è necessario un cambiamento di paradigma di civiltà.

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NON È SUCCESSO NIENTE – Caterpillar

Cosa è successo?
Non è successo niente, diceva un poeta.

È successo che quello che è successo
succederà ancora mentre succede adesso.

Si distrugge per fare, pur di fare
per poi ancora distruggere ogni fare.
A questo serve lo spettro della morte:
a rendere più semplice l’impossibile.
E le cose semplici impiegano sempre troppo tempo
a mostrarsi per quello che sono.
La minaccia di inferni a venire
è la luce che abbaglia il presente.

Ostinatamente si nega la sostanza,
ostinatamente ci si ostina a nasconderla.
Il triste brusio dei commerci.
Lo spreco immane dei corpi.

Intanto, si obbedisce.
Ogni volta che si obbedisce
si perde qualcosa di sé.
E questo qualcosa che obbedendo si perde,
una volta perduto, è perduto per sempre.

Così pericolosa, la vita.
Così avvinghiata al suo segreto.
Così irrimediabile e scorbutica.
Intrappolata nel sale come una statua.
Un intralcio.
Un’obsolescenza.

Più nulla ci appartiene.
Più nulla che si possa difendere.
Più nulla che si debba eccepire.
La fatica ha valore per se stessa:
non si corre per andare da qualche parte,
si corre per fare la fatica di correre.
Correre, correre, correre,
fino al giorno in cui ci spareranno in petto
un’altra diagnosi.

Intanto, ci si consegna serenamente
a un’anticamera qualsiasi.
Si guarda nei vetri delle porte
per sapere chi si deve essere
e cosa si deve fare per essere,
a cosa far succedere per succedere.

Cosa è successo?
Non è successo niente, diceva un poeta.

Per approfondire:

 

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Ciao Nondas

Ripercorrendo a memoria un’antica danza chiamata dai greci rebetiko, piena di vita e di malinconia.

Il 27 giugno viaggiarono al termine
 
Della notte più corta dell’anno
 
E aspettarono l’alba del solstizio
 
In cima al Licabetto solitario,
 
il monte che una volta era dei lupi,
 
davanti al panorama dell’Acropoli
 
e al cielo che veloce impallidiva.
 
Chiamato dal ronzio dei calabroni,
 
il sole greco sorse, poi brillò
 
come un doblone della Martinica:
 
allora Maša, colpita dal dardo,
 
a braccia larghe da sola ballò
 
schioccando le dita, e mormorando
 
formule antiche, quasi un esorcismo,
 
ripercorrendo a memoria un’antica
 
danza chiamata dai greci rebetiko,
 
piena di vita e di malinconia.
 
(…)

(da La cotogna di Istanbul, Ballata per tre uomini e una donna)
 

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Le origini di Comontismo

Le origini immediate di Comontismo risalgono a tutti quei gruppi che genericamente si definiscono, e furono definiti, consiliari. Genericamente, poiché i Consigli storicamente intesi e la “teoria” che ne fu l’espressione ben poco di comune ebbero con i recenti gruppi consiliari, i quali, pur indicando nei Consigli la forma organizzativa del proletariato e con ciò la possibilità pratica dell’autogestione
della società da parte dei proletari stessi, cercavano di andare al di là della semplice affermazione della tematica consiliare ed aspiravano a forme di espressione ed a contenuti più radicali e moderni. Nei fatti però l’ambiguità fu mantenuta sino alle sue conseguenze estreme, poiché venne riaffermata schematicamente la forma Consiglio, mentre si era incapaci di derivarne gli insegnamenti storici con tutte le conseguenze che essi imponevano. Perciò è necessario un chiarimento minimo su cosa fu e su cosa significò l’esperienza consiliare in sé, ancor prima che per
i suoi epigoni e quindi per noi. La nascita storica dei Consigli coincide con un preciso periodo dello sviluppo del capitale e della sua organizzazione conseguente. Infatti essi nacquero e si determinarono in rapporto al periodo di transizione, imposto dalla crisi che la riproduzione del capitale su scala allargata comportava come sua interna conseguenza. La contraddizione fondamentale del capitale (cioè quella tra processo di valorizzazione e necessariamente conseguente processo di devalorizzazione), lo spinse alla conquista di nuovi mercati, alla riorganizzazione interna del mercato ed alla ricomposizione organicamente sociale della popolazione, alla difesa armata degli interessi dei singoli capitali nazionali ed ancor più alla ristrutturazione della produttività operaia. Tutto ciò non fu sufficiente ad impedire l’estendersi e l’approfondirsi delle contraddizioni stesse, che esplosero violentemente nella prima guerra mondiale e, più tardi, nella grande crisi internazionale del 1929 che trovò la sua risposta storica nel New Deal e nella NEP, prima forma di omogenea ripartizione e riorganizzazione del mercato e dell’economia mondiali. In seguito a ciò il capitale, sino ad allora libero di svilupparsi in maniera parzialmente irrazionale ed empirica, fu costretto a porsi come soggetto dell’intero tessuto sociale e delle forme di produzione e realizzazione del valore. La democrazia, forma politica finalmente riscoperta appieno in tale processo, ne espresse, nella sua caratteristica di momento popolare, la tendenza generale (almeno sino a che le esigenze di globalizzazione non spinsero il capitale a scegliere il fascismo come sua forma necessaria per lo sviluppo ordinato ed armonico delle potenzialità produttive). Essa significò infatti il conglobamento di tutti i ceti e le classi sociali nella logica del capitale per cui il suo proprio sviluppo poteva essere spacciato per progresso generale dell’umanità ridotta a funzione economica. L’esperienza consiliare si pone all’inizio di tale processo, soprattutto come reazione alle conseguenza delle crisi interne, periodiche, estensive ed intensive della produzione e della circolazione di merci. Solo sulla base di questo sommario inquadramento storico è possibile cercare di comprendere i ritardi di un’epoca e di coloro che ne furono i protagonisti.

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Per una ripresa della coscienza sociale

Tornare in sé non è un tentativo di analisi, né una elaborazione teorica, né una apologia. È piuttosto l’intreccio di diverse voci che danno vita a un racconto collettivo di un orientamento culturale sovversivo, quello confluito nel movimento contro il Green Pass (GP). Ha senso raccogliere queste voci e pubblicarle perché chi ha fatto parte delle mobilitazioni è stato descritto in toni semplificati e derisori. La denigrazione si è spinta fino a delineare il profilo psico-patologico del no-vax sia nei media egemonici sia, di riflesso, in una parte consistente della popolazione. Le posizioni e i valori di chi si è messo di traverso rispetto alla gestione pandemica sono stati criminalizzati al punto da ritenere accettabile e in linea con i valori democratici silenziarli con la censura sui dispositivi telematici e con la rimozione nel dibattito pubblico. Queste opinioni eretiche e il patrimonio di energie sprigionate nelle mobilitazioni trovano qui lo spazio per raccontarsi nella loro complessità; gli attivisti rivelano le motivazioni e i valori che guidano le loro azioni; le implicazioni sulle scelte esistenziali; le azioni personali e collettive intraprese; le visioni del futuro e la tensione spirituale. Ciò permette di capire slogan, pratiche, contenuti e critiche elaborate dal movimento che sono state frettolosamente e comodamente dipinte come frutto di credenze antiscientifiche, ottusità, deliri. Credo che la visione dal basso degli eventi presentata in questo libro, sia in linea con il tentativo di interrompere processi di delega portato avanti da settori significativi del movimento. Mantenere l’attenzione sui militanti permette di apprezzare il protagonismo che risiede in un movimento culturale composito e variegato piuttosto che in poche personalità carismatiche che cercano di catturarlo, indirizzarlo, e a volte manipolarlo e usarlo. Ascoltare chi si è mosso in modo anonimo ha senso anche perché mentre le opinioni di alcuni trascinatori risuonano con insistenza da anni, quelle degli attivisti anonimi sono rimaste soffocate dal clamore di chi grida di più. Per tali ragioni ho evitato qualsiasi riferimento a esponenti di punta, partiti e associazioni. Le pagine che seguono vogliono raccontare la forma e le ragioni della sovversione culturale in questo esordio di terzo millennio attraverso le opinioni e la passione di chi ha scelto di esporsi, di anteporre l’ascolto della propria coscienza alla comodità del conformismo. (Stefano Boni)

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METTERE LE ALI… ALLE FORBICI

Prima sono venuti i libri – una splendida bibliotecari più di mille titoli che ora sitrova a Guasilia nell’ Arkiviu Bibrioteka “Tamasu Serra” -, poi tutto il lavoro di riproposizione di testi che non erano più in commercio attraverso la realizzazione di opuscoli e libretti per diffondere l’anarchia, quindi l’uso delle immagini ingrandite su carta a colori fotocopiate in larghe tirature, e alla fine questi collage. Quasi una summa di quello che era stato il suo apprendistato da autodidatta, la sua rielaborazione e la sua passione. Perché, se Assandri, come è vero, possiede l’arte del comporre, questo è dovuto anche al suo “tirocinio” sul ciclostile. La preparazione delle pagine su un particolare formato prevedeva le colonne del testo incollate su carta e arricchite da disegni, foto, vignette.., ritagliati e a sua volta incollati, ogni pagina richiedeva la sua composizione. E Assandri di sicuro si divertiva in questo montaggio. In più, se seguiva la strada indicata da Kropotkin che ogni autore doveva farsi editore e stampatore del suo libro contro ogni divisione del lavoro… il gioco era fatto! Le sue basi erano solide. Si avvaleva anche di fonti diverse come L’anarchia di Ettore Zoccoli (Fr. Bocca, Milano che aveva in una ristampa anastatica dell’edizione del 1907) ma anche di un testo senz’altro denigratorio, I delinquenti dell’anarchia di Enrico Sernicoli (Voghera, 1899) e via discorrendo come emerge dalle sue carte. Se li guardiamo con attenzione, scopriamo in ognuno di essi, un insegnamento che collega una figura, un volto a una storia, a una vita, a un avvenimento storico che vengono celati nelle righe scritte, brevi inserti, in alcuni casi, o fondi, in altri, con cui compone le sue pagine fatte di ritagli e che contribuiscono a cercare il messaggio da comunicare, ne circoscrivono il senso da trasmettere tenuto insieme da frammenti di altre immagini, da interventi colorati con il pennarello, da rimandi anche artistici ma che con l’arte hanno ben poco a che fare. Semmai con la vita. In alcuni casi sono certamente più vicini ai détournement di un Asger Jom che alla tradizione dadaista e surrealista dei collage. La sua irriverenza non si fermava di fronte a libri illustri, a edizioni uniche, a libri archiviati e ritagliava senza remore, senza “sentirsi in colpa” per aver profanato qualcosa, senza quell’ossequio verso le reliquie del passato. Non so chi abbia visto questi suoi lavori nella versione originale, senz’altro la fedele compagna Adele, i compagni che lo andavano a trovare nella sua casa/cucina/officina e adesso noi che li abbiamo avuti in eredità. Un’eredità collettiva che ci è stata lasciata per farla ancora rivivere. Sta a noi riprendere questi pezzi ormai scollati e cercare di ricostruire un quadro che sappia ancora una volta far volare le forbici della fantasia alla ricerca di quelle figure (come Assandri), di quei momenti, di quei frammenti con cui poter di nuovo ricreare un mondo a nostra immagine e somiglianza: in un mondo sempre più povero, ritrovare quegli istanti che valga la pena di vivere ancora.

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Rifiuto di tutta la tecnologia moderna – Ted Kaczynski

I. Rifiuto di tutta la tecnologia moderna. Questo è logicamente necessario, perché la tecnologia moderna è un insieme in cui tutte le parti sono interconnesse; non si può prescindere dalle parti cattive senza prescindere anche dalle parti che sembrano buone. Come un complesso organismo vivente, il sistema tecnologico o vive o muore: non può restare mezzo vivo e mezzo morto.
II. Rifiuto della civilizzazione stessa. Anche questo è logico, perché l’attuale civilizzazione tecnologica non è che la tappa più recente del processo civilizzatore, e le civiltà precedenti contenevano i germi dei mali che oggi sono diventati così grandi e pericolosi. A parte la Rivoluzione Industriale, l’introduzione della civilizzazione è stato l’errore più grande in cui la razza umana sia mai caduta. Man mano che la civiltà avanzava, l’uomo perdeva la sua libertà.
III. Rifiuto del materialismo, che sarà sostituito da una concezione della vita che valorizzi la moderazione e l’autosufficienza e che al contempo disprezzi l’acquisizione di beni o di uno status. Il rifiuto del materialismo è una componente necessaria del rifiuto della civiltà tecnologica, perché solo la civiltà tecnologica può fornire i beni materiali ai quali l’uomo moderno è attaccato.
IV. Amore e rispetto per la natura, o perfino la sua adorazione. La natura è il contrario della civiltà tecnologica e per questo è minacciata di morte. È logico, pertanto, contrapporre la natura, come valore positivo, al valore negativo della tecnologia. Inoltre il rispetto o l’adorazione della natura può riempire il vuoto spirituale della società moderna.
V. Esaltazione della libertà. Di tutte le cose di cui ci priva la civiltà moderna, l’intimità con la natura e la libertà sono le più preziose. In effetti, da quando l’uomo si è sottomesso alla schiavitù della civilizzazione, la libertà è stata la domanda più frequente e insistente dei ribelli e dei rivoluzionari attraverso i secoli.
VI. Castigo per i responsabili della situazione attuale. Gli scienziati, gli ingegneri, i dirigenti delle multinazionali, i politici, ecc., che fomentano coscientemente e deliberatamente il progresso tecnologico e la crescita economica, sono dei criminali della peggior specie. Sono ancor più colpevoli di Stalin e Hitler, perché ciò che questi sognavano non si può avvicinare per nulla a quello che stanno facendo i tecnofili odierni. Pertanto si reclamerà la giustizia e il castigo.Il movimento di opposizione al sistema tecno-industriale dovrebbe sviluppare qualcosa di più o meno simile a questo insieme di valori; e in verità sono molti gli indizi dell’emergere di valori simili. Questi valori, è chiaro, sono completamente incompatibili con la sopravvivenza della civiltà tecnologica, così come i valori che emersero prima delle rivoluzioni francese e russa erano totalmente incompatibili con la sopravvivenza dei rispettivi vecchi regimi dei due paesi. Man mano che i disastri del sistema tecno-industriale si aggravano, c’è da supporre che i nuovi valori che gli si oppongono si espanderanno e si rafforzeranno. Se la tensione tra questi e i valori tecnologici aumenta quanto basta, e se arriva una congiuntura adatta, succederà che si scatenerà una rivoluzione.

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PROGETTO CRITICA RADICALE – L’avventura continua

Buona parte dei prodotti culturali che ci circondano trae la propria forza dal rimpianto … La nostalgia viene dai media, esiste grazie ai media e per i media. Le generazioni nate dagli anni Sessanta in poi hanno infatti cominciato a sperimentare forme nuove di autopercezione e autodefinizione (…) a partire dalle proprie memorie di consumatori di merci e di spettatori. (Emiliano Morreale)

Non è forse vero che la lotta degli uomini contro il potere è anche la lotta della memoria contro l’oblio? (Primo Moroni)

Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve per un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo arrivare. (Marguerite Yourcenar)
La più grande attrazione di ognuno di noi è verso il passato, perché è l’unica cosa che noi conosciamo e amiamo veramente. (Pier Paolo Pasolini)

Afferma Edoardo Pérsico che ogni parola trascina con sé la propria memoria. Quella memoria che, come ci ha svelato Giorgio Cesarano, ha come autentica vocazione il dimenticare, non il ricordare. Quindi, accingendoci a questo progetto, il primo interrogativo che abbiamo dovuto fronteggiare è stato: raccogliamo questi documenti per non dimenticare, battendoci, come Don Chisciotte contro i mulini a vento dell’oblio, o non piuttosto per poter dimenticare permettendoci così possibile il passare oltre? Secondo Roi Ferreiro l’oblio è il castigo che ci viene impartito dalla locomotiva della storia. Ma Walter Benjamin si interroga: «(…) Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno.» E Chesterton completa la riflessione: 2 « (…) se cominciassimo a pensare seriamente all’idea di uscire dai binari, scopriremmo che ciò che vale per il treno vale anche per la verità. (…) la rapidità è rigidità, che il fatto stesso che alcuni movimenti sociali, politici o artistici vadano sempre più veloce significa che meno persone hanno il coraggio di muoversi in senso opposto (…)». Questo mi pare il segno distintivo di ciò che nel mondo moderno chiamano “pensiero progressista”. Esso è limitato nel senso più esatto del termine. È tutto in una dimensione. È tutto in una direzione. È limitato dal suo progredire. È limitato dalla sua velocità. Ma, se è così, noi rispetto a quel treno siamo macchinisti, o semplici passeggeri, o non ci stiamo piuttosto sdraiando traverso le rotaie per costringerlo a fermarsi? Finiremo travolti o fileremo via lontano nelle pianure sterminate del futuro? Ci sarà possibile scegliere quale bagaglio abbandonare e quale invece portare con noi? Raccogliere documenti scritti, proponendoli per una riflessione comune, costituisce uno degli strumenti canonici con cui ci si sforza di inquadrare, indagare e definire (potremmo dire: incasellare) eventi storici recenti o remoti. Nella malcelata speranza che siano gli attori medesimi a presentarci sé stessi, esimendoci, in tal modo, dalle responsabilità del giudizio. L’hanno detto loro, l’hanno fatto loro, sta scritto qui, in fin dei conti che cosa ci possiamo fare? Non pigliatevela con noi: noi ci siamo limitati a riprodurre, a riferire. Archivista non porta pena.

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Carcere: il coraggio necessario per la sua abolizione – Riccardo d’Este

«Un, due, tre… liberi tutti!» (formula rituale di un gioco, il «nascondino»)
Il proposito di abolire il carcere, nonché ogni forma di prigionia, è senza dubbio saggio, nobile, ammirevole e, soprattutto, radicalmente umano. Personalmente, posso e voglio definirmi un abolizionista e senza ombra di dubbio. Purtroppo, però, quando ci si addentra nella questione nei suoi aspetti teorici e, com’è necessario, in quelli pratici e propositivi, ci si accorge di aver messo la mano in un nido di vipere, tutte altrettanto seppure diversamente mordaci, o, se proprio va bene, di avere di fronte un gioco di scatole cinesi. Un problema rimanda a un altro, un’ipotetica soluzione ne azzanna un’altra, tuttavia non meno ipotetica, e via andando. Non è un caso che: 1) le ipotesi abolizioniste (del carcere) siano state a lungo estranee alla teoria, spesso scaduta in ideologia, che si è pretesa rivoluzionaria; per limitarci all’Italia, la frazione sedicente rivoluzionaria, comunista o anarchica che si definisse, ha sempre preferito aggirare la questione attraverso formule tutto sommato sloganistiche (dall’immondo «Fuori i compagni dalle galere, dentro i padroni e le camicie nere», che riproponeva, anzi esaltava, la natura della segregazione carceraria, limitandosi a cambiarne il segno meramente politico, al più generoso «Da San Vittore all’Ucciardone, un solo grido: evasione», mentre sappiamo che di evasioni ce ne sono state assai poche e in congiunture particolari e che comunque non poteva essere, questa, una soluzione che aspirasse alla necessaria generalità, passando attraverso al «… tutte le carceri salteranno in aria», quando, in verità, le poche – in costruzione – che sono saltate parzialmente in aria sono state tutte condotte a termine, con enormi vantaggi per gli appaltatori e nessuno per i detenuti); 2) all’interno del movimento abolizionista, pur assai esiguo e in specie in Italia, ci siano delle differenze di sostanza che coprono quasi l’intero arco delle opinioni: da chi ritrova disutile il carcere per le nostre società (magari parzialmente e dunque deputandolo solo come luogo di contenimento dello «zoccolo duro» della devianza, comune o politica che sia) a chi lo riprova per ragioni essenzialmente etiche, umanitarie, da chi propone e si propone soluzioni «alternative» maggiormente compatibili con le culture e le società moderne, a chi esalta, diremmo stirnerianamente, solo l’individuo (anzi, bisognerebbe scrivere l’Individuo) sottolineandone l’u/Unicità e, dunque, abolendo società e comunità – almeno nei concetti, visto che in pratica è ben altro affare; 3) le ipotesi abolizioniste, e i movimenti che ne sono conseguiti, siano state per lo più – tranne casi eccezionali – avanzate da «esperti», «specialisti» del settore; il che, è ovvio, non le squalifica di per sé, ma ci dà in certo modo la temperatura della discussione: come quasi sempre avviene per la malattia, di essa si occupano soprattutto i malati medesimi e chi se ne interessa «professionalmente» o «scientificamente»; acutamente T.W. Adorno notava, in Minima moralia, come i malati non sappiano parlar d’altro che delle loro malattie; possiamo aggiungere che i professionisti non sanno parlar d’altro che delle loro professioni. Tutto ciò detto per amor di verità, bisogna comunque tentare di cacciare la mano in questo nido di vipere o, se si preferisce, dissacrare l’apparente magia delle scatole cinesi. La prima questione che si pone è la seguente: è possibile, oppure no, abolire il carcere? Immediatamente ne segue una sorta di schieramento. Per un «radicale», se è possibile, allora significa che questa abolizione è nell’interesse della società presente, che peraltro egli vuole combattere, cambiare o distruggere, e dunque non val troppo la pena di occuparsene; lo faranno comunque altri e, in ogni caso, questa «abolizione» sarebbe soltanto spettacolare, mentre verrebbero rinnovate e rimodernate le forme di controllo sociale e perciò di prigionia in senso ampio. Per un «riformista», se è veramente impossibile, è piuttosto utile mettere mano a delle modificazioni che, da un lato, lascino fuori dal carcere quanti più possibili e, dall’altro, «ammorbidiscano» le condizioni di quanti dentro ci restano. Il «radicale» rischia di disinteressarsene, se non attraverso vaghe e fumose dichiarazioni di principio, affaccendandosi, nel frattempo, in altre faccende e lasciando mano libera ai professionisti del «problema», aspettando un momento catartico x o y o z, in cui tutto si risolverà e che, onestamente, pare del tutto improbabile, almeno sotto questa formulazione. Il «riformista», quale che sia la sua indole e natura, rischia di contribuire alla perpetuazione ad aeternum di carceri, leggi ecc., attraverso il loro addolcimento, la loro modernizzazione, e soprattutto di accettare quella che per molti versi sembra essere una tendenza sociale: da un lato, le «misure alternative», per chi ha commesso reati lievi o è stato condannato a pene spropositate (com’è stato in Italia nel periodo della cosiddetta emergenza, che peraltro si rinnova costantemente, con sempre nuovi soggetti/oggetti) e ha già scontato una parte sufficiente (?) della pena o per chi si è ravveduto e corretto o, infine, per quelli che non sono ritenuti socialmente pericolosi (l’omicida della moglie/marito ha incommensurabilmente più possibilità di ottenere dei «benefici» che non il rapinatore/trice; va da sé non è che uno si sposi tutti i giorni e pochi giorni dopo si liquidi il coniuge, mentre il rapinatore può averci preso gusto, aver constatato che in cinque minuti poteva passare da una condizione di miseria a una di relativa abbondanza e, dunque, essersi preso il vizietto); dall’altro lato, il «bagno penale» per chi, per una qualche ragione, viene considerato irrecuperabile, a cui, sostanzialmente, viene applicata una pena di morte differita; non paia strano questo concetto di bagno penale, di Cayenna moderna, perché questo già avviene, nelle carceri speciali di tutti i paesi (non soltanto nell’Italia convulsa e percorsa da molti fremiti sociali, ma altrettanto nell’ordinata e tranquilla Svezia) e soprattutto perché questo, e da anni, è stato paventato da lucidi «democratici sinceri» (a ciascuno il suo) che, proprio per essere rotelle dell’ingranaggio, si sono resi conto di dove la macchina tende ad andare; non deliri estremistici, quindi, né paranoie di detenuti in vena di protagonismo, ma franche osservazioni di «operatori» non del tutto ottenebrati dal mestiere. Come sempre, tra due errori non se ne può scegliere uno e privilegiarlo, benché, per quanto a me attiene, veda con occhio assai più sospettoso, data la mia indole selvatica, l’attività del preteso riformatore che non la passività del sedicente radicale. Ma senza troppe ciance, è realistico o irrealistico ipotizzare l’abolizione delle carceri?Per il momento, lasciamo la domanda in sospeso, affermando però che è un gran bene che si cominci a interrogarsi su questa possibilità (e, d’altronde, il comunismo è possibile, fuori e contro gli squallidi esempi del cosiddetto socialismo reale? E l’anarchia, al di là delle chiacchiere,e a dispetto di esse, di coloro che si chiamano anarchici? E l’acrazia, di cui i più non conoscono neppure il significato terminologico?). Non solo. È essenziale che si formi una cultura – nemica di tutte le culture stereotipe – che ponga come uno dei suoi centri, dei suoi «soli», il progetto dell’abolizione di ogni carcere. Di corsa, quasi trafelato, arriva il secondo problema: è possibile l’abolizione del carcere senza il parallelo e contemporaneo disuso delle leggi, dei codici, delle sanzioni? È evidente che è il carcere a spiegare i codici e non viceversa. Salta agli occhi che un corpus giuridico che non avesse alcuna applicazione pratica, sarebbe un mero esercizio ideologico o letterario. L’articolo di legge vale perché presuppone una pena, e la pena vale perché vi sono delle concrete forme di sua attuazione. Al ladro si può mozzare la mano o lo si può incarcerare per un certo tempo, ma, in qualsiasi società, non si può affermare che il ladrocinio è reato ed è immorale e non prescrivere alcuna sanzione per chi, alla faccia dei consigli morali, lo compia allegramente e, per giunta e disgrazia, si faccia acchiappare. Il carcere è sicuramente un fenomeno storicamente determinato e, dunque, in quanto tale, soggiace alle leggi della storia: può anche scomparire, ma non può eclissarsi la sanzione – non il suo mero concetto, bensì la sua concreta pratica – e, pertanto, senza dubbio siamo obbligati ad affrontare la grande questione: che senso ha qualsiasi legge che autorizzi o vieti checchessia? Un pensiero abolizionista coerente non può limitarsi a preconizzare l’abolizione di ogni carcere «formale» (diremmo murario) ma deve proporsi anche la soppressione di quelle forme di carcere immateriale, diffuso, che comunque rimandano alla prigionia e al controllo sociale; affinché ciò sia realistico, vanno dismessi il concetto di sanzione penale e soprattutto la sua materializzazione pratica. L’abolizione di ogni codice penale sembra, quindi, essere nel contempo la premessa e la conclusione di un’ipotesi abolizionista del carcere. Ma tutto ciò è realmente proponibile, vale a dire ci si può «seriamente» lavorare sopra? Voglio dire: al di là dei vagheggiamenti collettivi o soggettivi, il cui massimo esempio resta tuttora l’appello di Sade, «Francesi, ancora uno sforzo…», contenuto in La philosophie dans le boudoir, che rimane un testo effettivamente scandaloso non per i multipli e molteplici accoppiamenti sessuali e orgiastici, quanto piuttosto per questa invettiva e per la filosofia che vi è sottesa. In altre parole, oltre le utopie, di cui «abbiamo bisogno» ma che del pari risultano «ripugnanti» perché smascherano il totalitarista che è in noi, per la ragione semplice e sufficiente in sé che, quale che sia il sistema di governo che regge l’utopia in questione, esso è sempre presieduto da un dittatore assoluto: l’«autore», come scrive pregnantemente T.M. Disch, nella società storicamente determinata – l’attuale, compresi i suoi potenziali sviluppi – ha senso l’ipotesi di abolire non solo le carceri, ma ogni forma di prigionia, non solo tutte le prigionie ma le sanzioni penali che le determinano, non solo le sanzioni penali ma le leggi da cui necessariamente discendono?La risposta non è affatto scontata. Infatti si può tranquillamente asserire che no, non è molto probabile e forse nemmanco possibile. Ma, con altrettanta tranquillità, si può sostenere che sarebbe necessario. E, ciò che è necessario, quando assume la coscienza della sua necessità, diventa possibile, addirittura probabile. Ma una simile questione ci porta ancora più lontano. E, come sempre, si creano gli schieramenti. Da quello gradualista («iniziamo a eliminare gli effetti più nefasti di questo sistema») a quello estremista («non si possono modificare degliaspetti di questa società senza rovesciarla completamente»), da quello «neoilluminista» («è necessario che la società nel suo complesso si renda conto del disastro mentale, sociale ed ecologico a cui va incontro, e si fornisca degli antidoti») a quello «ipersoggettivista», che sussume neoleninismi, neobakuninismi e neostirnerismi secondo queste varianti: «va imposta la ragione della Storia, da parte di alcuni organizzati in nome di tutti»; «è solo la collettività che può decidere, ma essa va indirizzata da chi si è reso conto delle esigenze generali»; «è solo l’individuo che deve prendere coscienza dellasua singolarità e, con ciò stesso, non sottomettersi più ad alcun ordinamento costituito, comunque alienante». A mio personale avviso, c’è del vero e del falso, sia pure in mescolanze diverse, in tutte queste proposizioni. Ma nessuna mi soddisfa. Così, se è evidente che solo una trasformazione radicale della società può consentire una trasformazione radicale del Diritto, non è altrettanto evidente quale sia la società realmente umana a cui aspirare né quale Diritto essa debba concepire e assumere, e neppure che una società, storicamente intesa, sia necessaria e, quindi, che sia necessario un Diritto. D’altronde è assai arduo, anche teoreticamente, ipotizzare una società che sia del pari una a-società, una comunità, quale che sia, che non si dia delle leggi o delle regole per la convivenza dei molti e che, dunque, non presupponga, almeno concettualmente, dei trasgressori, ed è assolutamente ridicolo costruire un castello ideologico fondato su idee del tutto improbabili come quello della «bontà intrinseca dell’uomo» (quando sappiamo che ogni uomo è il precipitato di determinate composizioni sociali) o della «forza della Natura e della sua capacità di autoregolamentarsi», quando, se vogliamo essere onesti, manco sappiamo più cosa voglia dire natura, al di là delle elegie nostalgiche, però assai moderne e amministrative, tinte di verdognolo. Credo chequesta società vada scossa dalle sue fondamenta – economiche, sociali, ambientali, mentali, strutturali – e che questa trasformazione radicale la si possa metaforizzare come non il rovesciamento di un guanto (comunque protezione da qualcosa, seppure con il segno rovesciato). Credo, peraltro, che un’associazione societaria, come si è storicamente determinata, non sia inevitabile, mentre è impossibile prescindere, anche in via ipotetica, da comunità umane, di soggetti, in qualche modo in rapporto tra di loro o «federate». Credo, infine, che queste comunità possano fare ameno di leggi nella misura in cui esprimono una effettiva dialettica tra le diversità. Ma tutto questo è di là da venire e la vecchia talpa sembra stanca di scavare. Eppure il carcere materialmente esiste. Ed è un problema non dappoco per chi vi è rinchiuso, per chi si guadagna il salario della vergogna amministrandolo, per chi lo teme e anche soltanto per ogni persona sensata, umana e di buon gusto.Perciò si ha da intervenire concretamente, ciascuno secondo le sue conoscenze e possibilità. In quanto a me, so per esperienza diretta e certa che un carcere dove si torturi è peggio di un carcere speciale, che questo è peggiore di un carcere normale, che tra le carceri normali ci sono vari gradi di sopportabilità, che gli arresti domiciliari o la semilibertà ecc. sono meno peggio del migliore carcere normale, e via dicendo. La considerazione, peraltro assai fondata, che siamo tutti sottoposti al controllo sociale ed espropriati di gran parte di noi stessi o che viviamo in una sorta di megaprigionesociale, con comportamenti e percorsi autorizzati o vietati, non toglie nulla alla materialità dei fatti. Né si può attendere la fatale rivoluzione o la presa di coscienza singola, ma generale, degli individui, né sperare che le istituzioni si spoglino, per merito di consiglieri acuti e umanitari, delle loro funzioni, prima tra tutte quella della regolamentazione sociale e della sanzione. Vanno invece individuate delle forme per battagliare a tutto campo. In una battaglia di tale respiro storico e concettuale, un movimento che si pretenda abolizionista deve saper coniugare le schermaglie giornaliere con l’obiettivo di fondo (vincere la guerra). Se mi batto per la concreta abolizione delle carceri speciali, devo esercitare la massima attenzione affinché questo non si trasformi in una esaltazione delle carceri normali, più «morbide». Se lotto per un’estensione il più possibile progressiva ed egualitaria dei «benefici» (dagli arresti domiciliari alla semilibertà ecc.), non devo mai perdere di vista il mio obiettivo, che è l’abolizione della prigionia e del controllo sociali e della sanzione penale che vi sta a monte. Insomma, dobbiamo reimpadronirci nel sociale e nel culturale di quell’arte della guerra che ha avuto in Sun-Tse e in von Clausewitz i massimi espositori. Sia il «riformismo» che l’«estremismo» non vanno da nessuna parte. L’uno perché diventa ancilla regni o, più volgarmente, ruota di scorta dell’esistente; l’altro perché gode nel condannarsi all’impotenza, dentro uno spirito sacrificale (di sé e di terzi) di cui non è difficile rintracciare la matrice socraticocristiana. (Socrate rifiutò di fuggire dal carcere per non violare delle leggi che peraltro riteneva ingiuste, in quanto assumeva la necessità delle leggi in quanto tali; l’imbonitore di Nazareth pretese che fosse dato a Cesare quel che, apparentemente, era di Cesare e a Dio quel che era, suppostamente, di Dio, scegliendo la testimonianza sulla croce alla ribellione aperta; questi sono due fondamenti della nostra cultura, che vanno radicalmente rimessi in discussione in tutte le loro sfumature, anche quando appaiono lontane dall’origine, ma, in realtà, non hanno rotto l’obbrobrioso cordone ombelicale con loro). Terra terra, là dove siamo e non abbiamo mai smesso di essere, è importante praticare una cultura abolizionista, esprimere ovunque l’importanza della libertà, battersi contro ogni forma di sopraffazione, di negazione, di morte annunciata e differita, nell’universale quanto nel particolare, e viceversa. Io diffido di chi vuole abolire le galere ma, intanto, non fa niente affinché chi ci sta dentro non ne sia strangolato o asfissiato: lì vedo avvoltoi alla ricerca di cadaveri da esibire come ridicoli simboli e poveri stendardi. Il movimento abolizionista (Abolire il carcere) ha da essere capace di pratica quanto di teoria, e all’inverso, dialetticamente. Mai mi si sentirà dire che, in Italia, la legge di riforma detta Gozzini sia giusta e bella, anzi sempre da me si sentiranno delle critiche radicali. Nello stesso tempo faccio quel poco che posso affinché tutti i detenuti ne usufruiscano il più possibile e, se vi sono spazi effettivi, essa venga «migliorata», il che vuol dire s/peggiorata. Mai nessuno mi vedrà in campo a favore delle «riforme», ma sempre mi si vedrà in azione affinché le «riforme» già promulgate vengano estese al massimo. Abolire il carcere è un processo, nel quale l’astuzia, l’intelligenza, il realismo e l’utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un vero cocktail esplosivo. Per concludere non posso che citare Jonathan Swift (I viaggi di Gulliver) verso il quale ho un perenne debito di intelligenza e di piacere. «Sempre era in me il presentimento che un giorno o l’altro avrei recuperato la mia libertà, sebbene mi fosse impossibile immaginare in che modo né far progetti con la minima speranza di successo». (Questo scritto di Riccardo d’Este è stato pubblicato in: Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi, Nautilus, Torino 1990)

 

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Abitare un atro mondo

La teoria delle catastrofi ci insegna che i grandi cambiamenti avvengono a salti, in modo discontinuo e imprevedibile; nel Diciannovesimo secolo la scoperta della geometria sferica da parte di Bernhard Riemann ci ha aperto porte prima inimmaginabili nel percorso della conoscenza. Un evento che rivoluzionò la matematica e la topologia e che sarebbe diventato la chiave per la formalizzazione della struttura stessa dell’Universo. Ancora più indietro nel tempo, secoli prima la scoperta della geometria sferica, l’uomo si accorse della curvatura della Terra; due eventi correlati che ci hanno permesso di avere nuovi strumenti, e protesi concettuali per scoprire le nostre nuove Indie; dalla concezione della cosmografia mesopotamica, dove il mondo era descritto come un disco piatto galleggiante nell’oceano, fino alle nostre mappe, il salto non ha riguardato tanto il dettaglio sempre più fine della rappresentazione, quanto piuttosto il passaggio dal bidimensionale al tridimensionale. Un modello a tre dimensioni contiene un numero maggiore di informazioni rispetto ad un modello a due dimensioni. Mappe del reale estremamente dettagliate ma che non avrebbero mai oltrepassato quel tenue ma resistente confine fra realtà fisica e realtà della mente. Un surplus di informazioni che poco aveva a che fare con i vasti paesaggi mentali che fin dalle origini dell’uomo hanno dato vita a quel motore interno capace di generare mondi.
I salti avvengono spesso casualmente: il 16 novembre del 1938, il chimico svizzero Albert Hofmann sintetizza per la prima volta l’LSD-25. L’esperimento di sintesi viene archiviato nei laboratori della Sandoz, quasi dimenticato. Cinque anni dopo Hofmann decide di studiare a fondo questa strana molecola e, durante la sintesi, per errore ne entra in contatto, un incidente che lo costrinse a interrompere il lavoro di laboratorio a causa di insolite sensazioni. Ne scriverà poi un rapporto interno: “Venerdì scorso, 16 aprile 1943, a pomeriggio inoltrato ho dovuto interrompere il lavoro in laboratorio e far ritorno a casa. Ero affetto da una profonda irrequietezza, accompagnata da leggere vertigini. Mi sono sdraiato e sono sprofondato in uno stato di intossicazione niente affatto spiacevole, marcato da un’immaginazione particolarmente vivida. In una condizione simile al sogno, a occhi chiusi (la luce del giorno era abbagliante e fastidiosa), riuscivo a scorgere un flusso ininterrotto di figure fantastiche, di forme straordinarie che rivelavano intensi giochi caleidoscopici di colore”.1 Responsabile dell’inaspettato spettacolo interiore fu una molecola apparentemente anonima (la dietilammide-25), la sua struttura spaziale non è particolarmente complessa eppure se ne assume un modesto quantitativo – ne bastano appena 25 ?g – qualcosa si impossessa della nostra mente per condurci verso un’intensa esperienza psichedelica, collegamenti inattesi che scaturiscono dalla deformazione percettiva dello spazio e del tempo; come la luce, che attraversando la pellicola cinematografica proietta delle immagini in movimento, così la molecola ci rende protagonisti di un film interiore utilizzando l’hardware del nostro cervello. Molteplici universi prendono vita simultaneamente a più livelli, e ad ognuno di essi è data la nitidezza della realtà. I contenuti nascosti della psiche si riversano nel mondo fisico. Il muro è abbattuto e le convinzioni riguardanti la natura della realtà si sfaldano sotto i colpi dell’inaudito e dell’ineffabile.
Il mondo interiore non sembra più così illusorio come si era ritenuto in piena epoca meccanicista e, secondo lo storico e orientalista francese Henry Corbin, le visioni interiori nascendo dal mondo immaginale, possono essere intese come un’interfaccia, una mediazione tra il mondo delle essenze e quello della percezione; l’immagine interiore, diventa pienamente “reale”, nel senso che può essere considerata come trasformatrice del mondo. L’esplorazione del mondo interiore ha bisogno di nuovi mezzi; i recessi della mente rivelano bellezze inimmaginabili che possono essere emulate dall’arte che non può più essere descrittiva né tantomeno impressionistica, d’ora in poi l’arte dovrà essere interattiva a un livello più profondo e interagire con la mente in una sorta di organizzazione auto-poietica, consentendo allo spazio della mente di sovrapporsi allo spazio reale. (Claudio Catalano)

Se vuoi approfondire:

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