Richard Alpert. Avevo bisogno di un corpo

ram_dass8_medQualche ora dopo mi isolai per riflettere su quello che mi stava accadendo. Una calma profonda pervadeva il mio essere. Il tappeto stava strisciando e i quadri mi sorridevano, ero deliziato. Improvvisamente mi si parò davanti una figura ad un paio di metri di distanza, stava lì dove ero sicuro un momento prima non c’era nessuno. L’osservai attentamente nella penombra e vi riconobbi me stesso che indossavo il cappellino e la toga da professore universitario. Era come se una parte di me, il professore di Harvard, si fosse separata o dissociata da me.
Pensai: Guarda un po’, un’allucinazione esterna… tutto questo è interessante. Ho fatto tanto per diventare qualcuno, ma è stato tutto inutile, non ne avevo alcun bisogno”. Mi ero seduto su una poltrona, finalmente separato dal mio essere professore, quando la figura cambiò aspetto. Mi piegai ad osservarla bene. Ero ancora io, nei panni di uomo di mondo. “OK, liberiamoci anche di questo!”, pensai. Le figure continuavano a cambiare rivelando altri aspetti della mia personalità…(…)  Ad ogni mia nuova rappresentazione mi rassicuravo del fatto che nessuna di queste personalità mi era necessaria.
Ad un certo punto mi apparve il mio aspetto di Eìchard Alpertaggine, la mia identità di base, il vecchio Richard di sempre. (…)  Era attraverso quel nome che avevo sviluppato tutti gli aspetti del sé.
Cominciai a sudare. Non ero molto convinto che avrei potuto farcela senza essere Richard Alpert. Stavo soffrendo di amnesia? Era questo l’effetto della droga? Sarebbe durato per sempre? Avrei dovuto chiamare Tim? Ma che diavolo… mi decisi di mollare anche Richard Alpert. Avrei sempre potuto assumere una nuova identità. Perlomeno mi era rimasto il corpo… Ma avevo parlato troppo presto.
Mentre gettavo un sguardo alle mie gambe per riassicurarmi, l’unica cosa che riuscivo a vedere erano le ginocchiere ,poi lentamente con orrore vidi scomparire a poco a poco le membra e poi il torso, sinché tutto ciò che riuscivo a vedere con i miei occhi aperti era la poltrona su cui stavo seduto. Sentii un urlo formarsi nella mia gola. Sentivo che stavo per morire perché non c’era nulla nel mio universo che potesse indurmi a credere che, dopo aver abbandonato il corpo, potesse esserci ancora vita.
Potevo farcela senza essere un professore un amante e persino senza essere Richard Alpert, ma avevo bisogno di un corpo.
Il panico aumentava, il mio sistema nervoso era ingolfato di adrenalina, avevo la bocca secca, ma oltre a queste sensazioni iniziavo a percepirne un’altra, c’era una voce dentro (dentro a che cosa non saprei), una voce molto intima che mi stava chiedendo con molta tranquillità, con un tono che mi sembrava quasi scherzoso, considerando il mio stato di follia…: “Ehi, chi è rimasto a badare al negozio?”. Richard Alpert

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LA GELOSIA

Gelosia

La gelosia è uno degli strumenti con cui si costruisce la prigione.
La gelosia nasce soprattutto dall’umiliazione che ciascuno di noi ha subito nei primi anni della propria vita quando è stato messo in ginocchio, piangente, di fronte a una qualsiasi immagine dell’autorità. Questa stessa immagine-fantasma è l’antagonista occulto che ci accompagna, angelo custode all’aspetto di Frankestein, pronto a rinnovare la sua impresa spezzandoci nuovamente nell’umiliazione; ed ha come alleato la parte di noi che, per avere già acconsentito, sa di poter cedere nuovamente. In questo senso la vera paura celata dalla gelosia è quella del tradimento di noi stessi, non già di quello altrui. Ancora, essa nasce dall’immagine culturale, patriarcale e cristiana in particolare, della donna come proprietà da difendere e della sua (per il tutto una parte) vulva come ricettacolo passivo. In questa logica noi raffiguriamo noi stessi come i soli autorizzati allo stupro: dagli altri temiamo lo stesso stupro che noi immaginiamo di poter compiere legalmente.
Così ancora una volta si umiliano il corpo e l’amore, e si rinnega prima di tutto in sé e poi negli altri il fuoco che accende di vita il corpo e gli dona tutta la grazia della divinità.
Nella visione pornografica cristiana dello stupro e del sesso, inteso come peccato e cosa immonda, sta la chiave della nostra avarizia prima di tutto nei nostri confronti e poi in quelli degli altri.
Insomma, la gelosia umilia chi è geloso doppiamente: prima di tutto perché lo inginocchia di fronte ad un fantasma del passato, ripetendo così una esperienza traumatica infantile; e poi perché avvilisce l’oggetto d’amore così che, tradito l’amore, si trasformerà in oggetto di sisprezzo.

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Crimethinc VII e conclusione. Piaceri proibiti

banneraMa basta parlare di strategia. C’era una richesta in Days of War, Nights of Love, che in nessuna forma potrebbe essere realizzata sotto il capitalismo: l’idea che la vita senza mediazioni possa diventare intensa e gioiosa. Nella nostra concezione di resistenza l’abbiamo espressa come un’avventura romantica in grado di soddisfare tutti i desideri prodotti, ma mai consumati nella società dei consumi. Nonostante tutta la tribolazione e la sofferenza degli ultimi dieci anni, questa sfida aleggia ancora come la speranza in fondo al vaso di Pandora.
Continuiamo a ribadire questa richiesta. Noi non resistiamo solo per dovere, abitudine o sete di vendetta, ma perché vogliamo vivere pienamente e far rendere al meglio il nostro potenziale illimitato. Siamo rivoluzionari anarchici, perché sembra non ci sia modo di scoprire cosa significa senza lottare almeno un po’.
Per quante difficoltà possa comportare, la nostra lotta è una ricerca della gioia; per essere più precisi, si tratta di un modo per creare nuove forme di gioia. Se perdiamo di vista questo, nessun altro si unirà a noi e nemmeno dovrebbero. Godersela non è semplicemente qualcosa che dobbiamo fare per essere strategici, per attirare simpatizzanti: è un segno infallibile per capire se abbiamo o no qualcosa da offrire.
Man mano che l’austerità diventa la parola d’ordine dei nostri governanti, i piaceri disponibili sul mercato saranno sempre più dei surrogati. L’interesse per la realtà virtuale vuol dire praticamente ammettere che la vita reale non è, non può essere appagante. Dobbiamo dimostrare il contrario, scoprendo i piaceri proibiti che indicano la strada per un altro mondo.
Ironia della sorte, dieci anni fa questa domanda sensata è stata l’aspetto più controverso del nostro programma. Nulla mette le persone più sulla difensiva che il suggerimento che possono e devono divertirsi: innesca tutta la vergogna dell’incapacità di farlo, tutto il risentimento verso quelli che sentono come i monopolizzatori del piacere, e una gran quantità di puritanesimo persistente.
In Frammenti di un antropologia anarchica, David Graeber ipotizza che:”se si vuole ispirare odio etnico, il modo più semplice per farlo è concentrarsi sui modi bizzarri, perversi, in cui l’altro gruppo avversario persegue il piacere. Se si vuole sottolineare comunanza, il modo più semplice sta nel sottolineare che anche loro provano dolore”.
Questa formula è tragicamente familiare a chi abbia visto i radicali sfottersi a vicenda. Dichiarare di aver provato un piacere celestiale – soprattutto per qualcosa che viola di fatto il regime di controllo, come il taccheggio o gli scontri con la polizia –  è un invito a farsi rovesciare addosso disprezzo. E forse questa formula spiega anche perché gli anarchici possono trovarsi quando lo stato uccide Brad Will o Alexis Grigoropoulos, ma non riescano a mettere da parte le loro differenze per combattere altrettanto ferocemente per i vivi.
La morte ci mobilita, ci catalizza. La memoria della nostra mortalità ci libera, ci permette di agire senza paura; nulla è più terrificante della possibilità che si possano vivere i nostri sogni, che qualcosa è veramente in gioco nella nostra vita. Se solo sapessimo che il mondo sta finendo, si sarebbe finalmente in grado di rischiare tutto, non solo perché non avremmo niente da perdere, ma perché non si avrebbe più nulla da vincere.
Ma se vogliamo essere anarchici, dobbiamo abbracciare la possibilità che i nostri sogni possano divenire realtà, e lottare di conseguenza. Per una volta dovremo scegliere la vita invece della morte, il piacere invece del dolore. Dovremo cominciare ad iniziare.

Il testo completo:    CRIMETHINC. LOTTANDO SU UN NUOVO TERRENO.
Cos’è cambiato dal XX secolo

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Tom Robbins: con l’amanita avevo la sensazione che io fossi l’universo.

DownloadedFileHo mangiato l’amanita tre volte. La seconda non ho provato nient’altro che una leggera nausea. Le altre volte mi sono rltrovato sbronzo, in un modo glorioso e colossale. Dico sbronzo invece che stonato perché non ho provato l’esperienza di venire illuminato da una dolce elettricltà oceanica, a cui avevo li privilegio di fare da conduttore dopo aver ingoiato mescalina o LSD-25. In acido provavo la sensazione di essere parte integrante dell’universo. Sotto l’effetto dell’amanita avevo la sensazione che io fossi l’universo.
Non c’era un senso di perdita dell’ego: giusto l’opposto, io ero un supereroe in grado di battere qualsiasi arcangelo si fosse presentato in città, lui e tutto il ferrugginoso carro merci con cui era arrivato. Cercate di capirmi, non ero ostile ma mi sentivo forte, invincibile e perfettamente in grado di dare una lezione al mobilio che stava andando a pezzi e sciogliendosi ai miei piedi in rigagnoli di colore. Sebbene i miei bicipiti siano più simili a limoni che a pompelmi io avrei potuto accettare una sfida da parte di Muhammad Alì (come Cassius Clay è conosciuto da quando ha abbracciato quell’antico culto dei fungo), e sono sicuro ancora oggi, alla luce sobria di due anni dopo, che avrei potuto metterio al tappeto. (Gli scienziati stanno vagliando la possibilità che la muscaria possa accrescere le capacità fisiche dell’uomo. Che pillola vigorosa sarebbe per il mondo gasato dello sport!)
Un’energia euforica mi riempiva, ma all’inizio e verso la fine dell’intossicazione provavo sonnolenza a sbalzi. Pare che le mie reazioni siano tipiche. Periodi di mugghiante iperattività intercalate da momenti di torpore sembrano essere i sintomi dell’avvelenamento da Amanita Muscaria. Una volta ho visto una studentessa di una scuola d’arte di Seattie dormire per 28 ore di fila dopo aver consumato un fungo intero di misura media. Si svegliò in perfetta forma, ma non si ricordava nulla del vecchio tuono rosso che l’aveva scaraventata nel sonno. Questo è un caso di overdose, (incidentalmente, la parola sonnambulismo, il camminare dormendo, deriva dal sancrito Soma. il vecchio voi -sapete-cosa).
(…) Non fu solamente la volubilità psichedelica a consigliare agli antichi Greci ed ai Messicani di lasciar perdere l’amanita muscaria quando scoprirono che la piccola Psilocybe dall’apparenza innocua poteva supplire con grazia alle esagerazioni dell’altra. Tom Robbins: Il fungo magico, 1978.

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CHI SONO I CAPELLONI?

articoli su mondo beat

Beatniks, provos, ragazzi dell’Onda verde, capelloni e via di seguito.
Intanto, beat è un’etichetta con cui si vuole definire un fenomeno che vuole invece essere multiforme, indefinibile. Perché se una cosa vogliono questi ragazzi dai capelli lunghi, la barba incolta e l’aspetto trasandato, è di non essere definiti, catalogati. La società è così com’è, e loro vogliono far capire alla gente, al di là delle differenziazioni politiche e morali, che può essere concepita anche in un altro modo, quello ad esempio, della donna non necessariamente vergine al matrimonio, della bicicletta come alternativa all’automobile, delle scarpe anche un po’ sporche e non lucide, ed anche della reciproca fiducia, le case aperte senza preoccupazioni, la moglie libera senza timori, il lavoro sereno senza sfiducia.
Chiamateli come volete, ma sono giovani che sentono un problema di coscienza, sentono che la società così com’è è ingiusta, che da una parte del mondo non si può tranquillamente gettare bombe e seminare morte e da un’altra parte divertirsi per il sabato grasso. Non si sentono a loro agio nel mondo attuale, perché conformista, beghino, che offre possibilità di un lavoro disumanizzante. E sono giovani che pensano. Pensano ad esempio perché devono fare un lavoro che non gli piace, mentre potrebbero girare il mondo senza l’intralcio delle carte bollate, dei permessi, dei visti, degli stati di cittadinanza mentre si sentono solo persone, e cittadini del mondo. Pensano che non sia necessario andare in giro con la camicia bianca e usare giri di parole per definire un sostantivo che si può trovare su ogni dizionario.
Non hanno ideologia, non propongono alternative, si sentono solo disadattati, la loro matrice comune è l’insoddisfazione del modo attuale di vita, che loro concepiscono come non esclusivo. E vogliono far capire che si può concepire la vita partendo anche da altri punti, seguendo altri schemi, magari quello delle chitarre e dei vocaboli osceni. Ma non hanno la pretesa che il loro sistema sia l’unico, a loro basta far capire all’impiegato, all’operaio, al funzionario, al professionista, la necessità di porre in discussione l’attuale sistema, di sconfessarne i dogmi, i miti, come quello del denaro.
Sono ragazzi coraggiosi. Perché, se ci pensate bene, ci vuole molto coraggio a dire di no alle allettanti offerte dell’attuale società, al piatto di pastasciutta a mezzogiorno, alla seicento fuori dall’ufficio, alle serate davanti alla TV, alla moglie calda in un letto comodo sì, ma con tanti pregiudizi e falsi pudori. (Mondo beat N°1)

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Marco Camenisch. A chi continua a lottare contro il nucleare

47087[1]Apparteniamo tutte e tutti alla resistenza contro l’unità inscindibile tra bomba atomica e centrali atomiche e molte persone tra di voi appartengono al rinascimento di questa resistenza. Dunque ci siamo, è vero e reale, non abbiamo alcuna ragione di scoraggiamento e di rassegnazione.
Resistere è un dovere, passività e rassegnazione è complicità.
Questo a maggior ragione in questi tempi di crisi generale sempre più acuta della vita e della sopravvivenza sul nostro pianeta, addirittura del pianeta stesso. Una delle espressioni importanti è la crisi del capitale sempre più acuta ed irrimediabile. Non crediamo al pathos e allo sbracciarsi delle teste d’uovo delle economie imperialiste che sostengono “non é la fine del capitalismo”. Non crediamo a questa ridicola cortina di nebbia dei capitalisti Svizzeri e del loro teatrino democratico mediatico e politico, che i Bonus e gli stipendi “esagerati” di certi manager, queste minuscole bricioline delle casse per le spesucce delle imprese, siano colpevoli di quello che con ostinazione, e ancora mentendo, definiscono solo come “crisi finanziaria”.
Come non dobbiamo credere alle menzogne imbecilli e ciniche della mafia dell’atomo che la tecnologia atomica sarebbe “pulita” e parte della soluzione alla crisi e distruzione ecologica. Grazie ai capitalisti dominanti ed al sistema esistente, per la prima volta sulla terra negli ultimi sessanta anni esiste una forma di vita capace di distruggere totalmente se stessa e il resto. E lo sta anche facendo in modo risoluto. Ed è già molto progredita su questa via. Grazie alla tecnologia atomica! Ma non solo!
Perciò, dobbiamo affrontare anche tutto il resto, con urgenza e serietà. Domandarci se essere contro l’atomico serva a qualcosa senza essere, per esempio, anche contro biotecnologie e nanotecnologie, oppure la follia della mobilità. Se essere contro l’atomico serva effettivamente a qualcosa, senza essere anche contro questo sistema di crisi. Siamo coscienti che nanotecnologie, biotecnologie – ma anche l’illusione delle “energie alternative” – servirebbero, in effetti, solo al mantenimento, al prolungamento della vita di questo sistema che di per sé esclude la possibilità della sostenibilità? Può diventare alternativo quanto vuole ma questo sistema deve in ogni modo nutrirsi di tutto ciò che è alla sua portata ed è costretto a sacrificare sull’altare del progresso economico tutte le forme di vita ed il pianeta stesso, anche senza tecnologia atomica. Allora, se per esempio parliamo di energie alternative, dovremmo promuoverle solo ed esclusivamente come mezzo e via per smorzare le coazioni e le dipendenze sistemiche economiche, tecnologiche, sociali e politiche per evitare, per quanto possibile, o almeno lenire i tagli catastrofici prodotti da una repentina assenza di tutte le cose e strutture mortifere che ci hanno costretto alla loro dipendenza. Allora, se parliamo di superamento della tecnologia atomica, dovremmo parlare anche del superamento di questo sistema. Poiché, anche se suona semplicisticamente, la semplice verità è:
Questo sistema non ha errori, è l’errore! Il capitalismo non ha errori, è l’errore!
Si, il clima cambia – la guerra resta. Resta e diventa sempre più acuta. La sua espressione repressiva diventa sempre più acuta. Si acutizza con la crisi e ne precede l’acutizzazione, come contro-insurrezione preventiva interna, anche sotto forma dello Stato atomico.
Le soluzioni, cari compagni ed amici, care compagne ed amiche nella lotta, cara gente che resistete, non le troviamo all’interno del contesto assassino dello Stato e del capitale, all’interno delle sue istituzioni, dei suoi coinvolgimenti e sviluppi, ma altrove: nel superamento dello Stato e del capitale, nell’opposizione contro l’atomo e le altre tecnologie, un’opposizione che faccia parte di una tendenza verso un cambio sociale, una tendenza verso la sovversione del sistema di dominio esistente, con ogni esperienza, mezzo e metodo necessario.
Non assassino, non terrorista, assassino e terrorista è lo Stato atomico ed il capitale!!!
Per la lotta di classe e la rivoluzione integrale, libertà e giustizia – solidarietà internazionale!!!
Distruzione di tutte le galere!!!
Marco Camenisch, prigioniero anarchico.Liberamente tratto da un comunicato scritto dal carcere di Regensdorf, Zurigo, 9 novembre 2008
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Crimethic VI. Destabilizzare la società: lascia o raddoppia

banneraNegli anni ‘90 il capitalismo appariva per lo più stabile e inattaccabile. Gli anarchici fantasticavano di rivolte, catastrofi e del collasso industriale proprio perché sembrava impossibile che non avvenissero e perché, in loro assenza, sembrava non potessero che essere una buona cosa.
Tutto ciò cambiò a partire dal settembre 2001. Un decennio più tardi, le crisi e le catastrofi ci sono fin troppo familiari. L’idea che il mondo stia volgendo al termine è diventata sostanzialmente una banalità: chi non ha letto una relazione sul riscaldamento globale e poi fatto spallucce? L’impero capitalista è ovviamente troppo vasto e in pochi credono ancora che sia destinato a durare per sempre. Per ora, tuttavia, pare essere in grado di utilizzare queste catastrofi per consolidare il controllo, distribuendone i costi agli oppressi.
Via via che la globalizzazione intensifica la distanza tra le classi, alcune disparità tra le nazioni sembrano livellarsi. In Europa e negli Stati Uniti le strutture di sostegno sociale vengono smantellate proprio quando la crescita economica si sposta in Cina e in India, e uomini della Guardia Nazionale, che avevano combattuto in Iraq, sono stati impiegati negli Stati Uniti per mantenere l’ordine durante le proteste ai summit e nelle catastrofi naturali. Tutto questo è in linea con la tendenza generale ad allontanarsi da modelli gerarchici statici e territorializzati, tendenza che si dirige verso modelli dinamici e mezzi decentrati per mantenere le disuguaglianze. In questo nuovo contesto, i concetti del Ventesimo secolo sul privilegio e l’identità diventano sempre più semplicistici.
In tempi di globalizzazione e di decentramento, i nostri nemici della destra hanno già mobilitato la loro reazione. Lo vediamo col Tea Party negli Stati Uniti, nei movimenti nazionalisti in tutta Europa e, globalmente, nel fondamentalismo religioso. Mentre l’Europa occidentale si è agglomerata nell’Unione europea, la parte orientale è stata balcanizzata in decine di stati-nazione brulicanti di fascisti desiderosi di capitalizzare il malcontento popolare. Il fondamentalismo religioso è un fenomeno relativamente recente in Medio Oriente, che ha preso piede in seguito alle fallite “liberazioni nazionali” laiche e viene visto dall’imperialismo culturale occidentale come una reazione esagerata. Se permetteremo ai sostenitori della gerarchia di monopolizzare l’opposizione all’ordine dominante, gli anarchici scompariranno semplicemente dalla scena della storia.
In questa fase altri stanno già scomparendo. Mentre in Europa la classe media si assottiglia, muoiono con lei i partiti tradizionali della sinistra, e i partiti di estrema destra stanno prendendo il terreno lasciato libero.
Se la sinistra continua a recedere verso l’estinzione, a sinistra, per i radicali delle città, l’anarchismo sarà l’unica carta giocabile. Si aprirà uno spazio in cui potremmo essere in grado di proporre le nostre idee a tutti coloro che hanno perso la fiducia nei partiti politici. Ma siamo disposti a combattere contro il capitalismo globale da soli, senza alleati? L’escalation del conflitto è una scommessa: non appena ci attireremo l’attenzione dello Stato, dovremo raddoppiare la posta, cercando di mobilitare un sufficiente sostegno popolare per aggirare l’inevitabile contrattacco, oppure non farne nulla. Ogni rivolta deve essere seguita da una campagna di sensibilizzazione ancor più ampia, non essere un rifugio nell’ombra; un compito arduo di fronte alla reazione e alla repressione.
Forse sarebbe meglio se la storia si muovesse tanto lentamente da permetterci di avere il tempo di costruire un movimento popolare di massa. Purtroppo non ci può essere, in materia, una scelta. Pronti o no, l’instabilità che abbiamo desiderata è qui; provvederemo a cambiare il mondo o periremo con lui.
Quindi è giunto il momento di rinunciare a strategie fondate sulla stasi dello status quo. Allo stesso tempo, la crisi ci mantiene bloccati in un perpetuo presente, facendoci reagire a stimoli contingenti anziché agire strategicamente. Con le nostre capacità attuali, si può fare ben poco per attenuare gli effetti delle catastrofi capitalistiche. Il nostro compito è piuttosto quello di provocare reazioni di rivolta a catena; dobbiamo valutare tutto ciò che intraprendiamo in questa luce.
In questo contesto, è più importante che mai vedere noi stessi come protagonisti dell’insurrezione. Il corpo sociale anarchico attualmente esistente negli Stati Uniti è abbastanza numeroso per catalizzare sconvolgimenti sociali, ma non così corposo da realizzarli. Come uno dei compagni di Void Network non si stanca di ripetere: “Noi non facciamo l’insurrezione. Facciamo solo un po ‘di organizzazione: ognuno fa l’insurrezione”.
Ciò richiederà molto da ciascuno di noi. Diecimila anarchici disposti a mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di Enric Duran, santo patrono dei debitori morosi, potrebbero costituire una forza reale, raccogliendo le risorse con cui costruire infrastrutture alternative e dando un esempio di disobbedienza pubblica che potrebbe diffondersi in lungo e in largo. Quella è una cosa che potrebbe aggiornare il “dropping out” per questa nuova epoca. E’ terrificante immaginare di arrivare a punti del genere, ma in un mondo al collasso il terrore ci aspetta comunque, che ci vada bene o meno.
Tutti quelli che hanno partecipato ad un black block sanno che è più sicuro stare davanti.
Lascia o raddoppia. segue

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Rebetiko. Una musica per l’hashish

rebe-simboliIn Italia il rebetiko, (una musica greca nata agli inizi del XX secolo),  e la sua storia sono praticamente sconosciute. La cosa più semplice che si si può dire su questo tipo di musica è che è possibile paragonarla al blues. Sono canzoni altrettanto belle, altrettanto profonde ed emozionanti dei più bei blues con i quali  presentano così tante somiglianze. L’unica, la sola grande differenza è che le origini del blues sono rurali mentre il rebetiko da sempre è stato la musica della città e della notte. I principali compositori popolari greci dei rebetika – Tsitsanis, Vamvakàris, Daskalàkis, Mitsàkis, Papaioànnu, Màthesis, Bàtis – sono sullo stesso livello dei più grandi compositori blues come Armstrong, Fals Waller e Sidney Bechet. Sfortunatamente, il rebetiko si è evoluto molto più velocemente del blues principalmente a causa dell’influenza del turismo, che in pochi anni ha modificato i luoghi, l’ispirazione e il modo di orchestrazione di queste melodie, così che il suo periodo autentico, quello in cui sgorga da solo dalle bocche e dalle dita dei compositori popolari, non dura più di mezzo secolo. Diciamo che i primi rebetika, con ritmi, atmosfere ed esecuzioni definite che non cambieranno successivamente, sono del 1920 circa. E’ una musica che si suona essenzialmente con il buzuki e il baglamas e i cui testi ruotano intorno alla taverna, il vino, la miseria, la notte, la morte, la prigione, i porti, l’hashish, il narghilè. Canta il  Rebetis cioè  un uomo dei bassifondi, un uomo del “milieu” o semplicemente del sottoproletariato urbano: un uomo povero ed emarginato, un uomo dello strato infimo della società, nel significato e nel valore borghese del termine.
Il rebetiko rivalorizza il termine ipocosmos vale a dire il vero mondo, il mondo dove c’è vita, sofferenza, realtà, in contrasto con il mondo convenzionale e falso della borghesia e dell’intellighenzia.

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Il lavoro come omicidio

Possiamo affermare, che il lavoro è un rischio per la salute. Infatti il lavoro è un assassinio di massa, cioè un genocidio. Direttamente o indirettamente il lavoro, uccide migliaia di lavoratori ogni anno, senza contare tutti quelli che rimangono invalidi. Quello che le statistiche non lasciano trapelare è il fatto che il lavoro abbrevia il tempo di vita a milioni di persone, ciò che, d’altra parte, è il significato proprio del termine omicidio.. ci riferiamo a quelle persone che si ammazzano di lavoro all’età di 50 anni, ci riferiamo a tutti i lavoro-dipendenti.
Anche se non si rimane uccisi o mutilati mentre si è effettivamente al lavoro, ciò può tranquillamente accadere mentre ci rechiamo al lavoro, o stiamo tornando dal lavoro, oppure mentre lo stiamo cercando, o tentiamo di dimenticarlo. La maggior parte delle vittime di incidenti d’auto stavano svolgendo una di queste attività legate al lavoro, oppure vennero travolte da qualcuno impegnato in esse. A questo computo di cadaveri, pur così ampliato, occorre aggiungere le vittime dell’inquinamento industriale, del traffico automobilistico, dell’alcolismo indotto dal lavoro e del consumo di droga. Anche il cancro e le malattie cardiocircolatorie sono mali moderni, e normalmente sono attribuibili, direttamente o indirettamente al lavoro.
Il lavoro, dunque, istituzionalizza l’omicidio come modo di vita.
Noi sterminiamo la gente in ecatombi esprimibili in numeri di 6 cifre per vendere automobili ai superstiti. I nostri morti che registriamo annualmente sulle nostre autostrade, fabbriche e scuole sono vittime, non martiri. Muoiono per nulla, o piuttosto, muoiono per il lavoro. Ma il lavoro è nulla, e non vale la pena morire per nulla.

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blackabo

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Virola: una rapida ebrezza

bulletin_1969-01-01_4_page004_img006_largeL’intossicazione con la polvere da fiuto preparata con la resina della corteccia della Virola theiodora o altre specie correlate, oppure con i semi della Anadenànthera peregrina, è molto rapida e potente. La tecnica del fiuto degli Indiani contadini era piuttosto complessa già ai tempi del loro passato preeuropeo, e lo è ancora oggi; nelle collezioni etnografiche e in quelle archeologiche, abbondano tutti i tipi di pipe da fiuto decorate e non decorate, lunghe canne, mortai, contenitori e tavolette. La tecnica da fiuto in uso presso i Waika è molto più semplice, come del resto è povera tutta la loro tecnologia. I Waika, che ancora oggi sono essenzialmente dei cacciatori con un sistema di coltivazione primitivo, fiutano la polvere attraverso dei lunghi tubi di bambù, e un uomo soffia la polvere dentro le narici di un altro. Quasi subito vengono attivate le mucose del naso, la saliva diventa molto abbondante e il naso comincia a gocciolare. Si prova anche un intenso pizzicore e prurito al cuoio capelluto, al quale gli indiani reagiscono grattandosi furiosamente. Schultes da parte sua, l’ha sperimentato e non ha avuto sensazioni allucinanti né visive né auditive, ma per gli Indiani invece, queste hanno luogo pochi minuti dopo aver ispirato la loro dose di ebene e sono interpretate come comunicazioni dirette con gli spiriti degli animali, delle piante, dei parenti morti e delle forze sovrannaturali. C’è una grande variazione nel sistema di controllo motorio da persona a persona, e gli sciamani allenati sono apparentemente molto più capaci di altri di esercitare un controllo sui propri movimenti. Cambia molto anche l’intensità della trance estatica; di solito questa esperienza è di breve durata comunque, e durante il rituale (e oggi tra alcuni Waika più acculturati anche a fini edonistici) è consuetudine dei partecipanti inalare più volte la polvere da fiuto inebriante. Furst P.T., 1976

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