Gli uomini sono solo più mediatori tra le macchine

In questa società la tecnologia — processo che riunisce scienza, tecnica, economia e politica — è la forza che presiede a ogni cambiamento; sta alla base di ogni sistema di produzione, circolazione e consumo. È il mezzo grazie al quale la produzione può essere automatizzata e delocalizzata, la natura colonizzata, le sue forze domate e le sue risorse saccheggiate; infine crea lo spazio sociale in cui la merce diventa spettacolo. La tecnologia non può essere ridotta a un insieme di macchine e di conoscenze: costituisce di per sé un sistema divenuto autonomo. L’economia è alle sue dipendenze, ed essa si è diffusa a tal punto che si può parlare di una società artificializzata o “coltivata fuori suolo”. Gli uomini si limitano a essere nient’altro che mediatori tra le macchine, vero soggetto della storia alienata: nel linguaggio dei commentatori più oscurantisti viene definita “società della conoscenza”. E quando le macchine rappresentano la principale forza produttiva questa diventa, spronata dagli imperativi della crescita, la principale forza distruttiva.
La logica tecnicista travalica gli ambiti nazionali e si impadronisce del pianeta intero: ci troviamo in una società mondializzata votata allo sviluppo, in cui le
popolazionidei paesi in via di sviluppo non sono altro che animali da laboratorio.

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Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza

Signori,
le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano. Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza, né la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono altra cosa che un’insalata di parole?
Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito umano.
E che incarcerazione! Si sa – e ancora non lo si sa abbastanza – che gli ospedali, lungi dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla prigione, al bagno penale.
Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch’essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono.
Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.
Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza. (Antonin Artaud)

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La vita è una festa, facciamo festa alla vita

Sono portato a pensare che una coscienza sveglia smuova il mondo più facilmente che lo scatenarsi dell’entusiasmo gregario. La radicalità è una radiosità attraente, una scorciatoia che interrompe i percorsi ordinari della riflessione laboriosa.
Creare la mia felicità favorendo quella degli altri è più in sintonia con la mia volontà di vivere che i lamenti della critica-critica, il cui muro ottura o perlomeno oscura i nostri orizzonti.
Vi sono fiammate d’impazienza in cui griderei volentieri “Lasciatevi andare! Sbattete nelle fogne gli adulatori del denaro! Rompete gli ormeggi del vecchio mondo, abbracciate l’unica libertà che ci rende umani, la libertà di vivere!”.
Non ignoro che fare ricorso alle parole d’ordine e alle esortazioni dà più importanza alla cappa d’inerzia che alla coscienza che la incrina e finirà per spezzarla. Tuttavia niente e nessuno m’impedirà di gioire al pensiero di non essere il solo ad auspicare un tornado festivo che ci libererà, come di una brutta colica, dei morti-viventi che ci governano. Il ritorno della gioia di vivere irride la vendetta, il regolamento di conti, i tribunali popolari. Il respiro degli individui e delle collettività va oltre le strutture corporative, sindacali, politiche, amministrative, settarie; evacua il progressismo e il conservatorismo, queste messe in scena di un egualitarismo cimiteriale che è ormai il portato delle democrazie totalitarie. Apre all’individualista, inacidito dal calcolo egoista, la via di un’autonomia in cui scoprirsi come un individuo unico, incomparabile, offre la migliore garanzia di diventare un essere umano a pieno titolo. L’individuo ascolta i consigli ma rifiuta gli ordini. Imparare a rettificare i propri errori lo dispensa dai rimproveri. L’autonomia s’iscrive nel dolce stil novo destinato a soppiantare il regno del disumano.
Lasciar marcire quel che marcisce e preparare le vendemmie. Questo è il principio alchemico che presiede alla trasmutazione della società mercantile in società vivente. Non è forse l’aspirazione a vivere superando la sopravvivenza a innescare ovunque l’insurrezione della vita quotidiana? Vi è in questo una potenza poetica di cui nessun potere può venire a capo, né con la forza né con l’astuzia. Se la coscienza tarda ad aprirsi a una tal evidenza è perché siamo abituati a mettere a fuoco le cose a rovescio, a interpretare le nostre lotte quotidiane in termini di sconfitte e vittorie senza capire che è l’anello al naso che ci conduce al macello.
Vagando tra appassimento e rinnovamento, abbiamo acquisito il diritto di schivare e abbandonare una danza macabra di cui conosciamo tutti i passi, per esplorare una vita di cui, purtroppo, abbiamo potuto conoscere soltanto dei piaceri furtivi.
La nuova innocenza della vita ritrovata non è una beatitudine né uno stato edenico. È lo sforzo costante richiesto dall’armonizzazione del vivere insieme. Spetta a noi tentare l’avventura danzando sul sepolcro dei costruttori di cimiteri. (Raoul Vaneigem, 21 aprile 2021)

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La vita tra i resti

Innanzitutto, cosa resta da salvare? L’impero della distruzione ha continuato a espandersi fin dal Neolitico,2 rafforzando costantemente le basi scientifiche e materiali (industriali) della sua potenza per lanciarsi, agli albori del XIX secolo, in un’offensiva generale (finale?) contro il vivente. Quella che da Chaptal, il chimico e imprenditore ministro di Napoleone I, viene per analogia chiamata “la rivoluzione industriale”, quando invece fu un’accelerazione verticale, ininterrotta e forse esponenziale, iniziata nel Medioevo, e anche prima. Da allora, tutti gli indicatori statistici (economici, demografici, di crescita, produzione, consumo, traffico, comunicazioni, inquinamento, distruzione, ecc.) hanno un andamento che assomiglia alla traiettoria di un missile che punta sempre più velocemente allo zenit. Molti ne sono entusiasti e lo chiamano progresso.
Gran parte dell’attività scientifica consiste nel fare l’inventario di queste distruzioni e delle loro autopsie, e nel tenere un registro di quelle in corso. Avremo così la soddisfazione di sapere che la nostra stessa scomparsa è in gran parte il risultato di un suicidio; e questo suicidio è il risultato dell’istinto di morte, teorizzato da Freud..’ Vale a dire una volontà infantile di onnipotenza che finisce per volgersi
contro se stessa, poiché il potere crescente dei mezzi acquisiti supera la saggezza di chi li detiene.

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Debord e la geografia urbana

Di tante storie a cui partecipiamo, con più o meno interesse, la ricerca frammentaria di un nuovo stile di vita resta il solo aspetto interessante. Va da sé il più grande distacco nei confronti di alcune discipline, estetiche o altre, la cui insufficienza a questo riguardo è prontamente verificabile. Occorrerebbe dunque definire alcuni terreni d’osservazione provvisori. E, fra essi, l’osservazione di certi processi del casuale e del prevedibile nelle strade. Il termine psicogeografia, proposto da un cabilo illetterato per indicare l’insieme dei fenomeni che preoccupavano alcuni di noi verso l’estate del 1953. non è ingiustificato. Non esce dalla prospettiva materialista del condizionamento della vita e del pensiero da parte della natura oggettiva. La geografia, per esempio, rende conto dell’azione determinante di forze naturali generali, come la composizione dei suoli o i regimi climatici, sulle formazioni economiche di una società e, per questa via, sulla concezione che essa può farsi del mondo. La psicogeografia si proporrebbe lo studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, coscientemente organizzato o meno, in quanto agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui. L’aggettivo psicogeografico, conservando una vaghezza assai simpatica, può dunque applicarsi ai dati accertati da questo genere di investigazioni, ai risultati del loro influsso sui sentimenti umani, e anche più in generale a ogni situazione o ogni comportamento che sembrano partecipare allo stesso spirito di scoperta. (Guy Debord settembre 1955)

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Essere simbolico alternativo

James Shreeve, alla fine del suo Neanderthal Enigma, fornisce una bella illustrazione di un essere simbolico alternativo. Meditando su come avrebbe potuto essere una coscienza originaria, non-simbolica, ci presenta possibilità e differenze significative:
… gli dei del moderno abitano la terra, il bufalo, o il filo d’erba. Lo spirito di Neanderthal era l’animale o il filo d’erba, era la cosa e la sua anima percepite come una singola forza vitale, senza alcun bisogno di distinguerli con nomi diversi. Analogamente, l’assenza di espressioni artistiche non preclude la comprensione degli aspetti estetici del mondo. I Neanderthal non dipingevano sulle loro caverne immagini di animali, ma forse non avevano alcun bisogno di distillare la vita in rappresentazioni, perché le sue essenze erano già rivelate ai loro sensi. La vista di una mandria in corsa era sufficiente a ispirare un improvviso senso di bellezza. Non avevano tamburi né flauti di osso, ma erano in grado di ascoltare i ritmi esplosivi del vento, della terra e dei battiti del cuore degli altri, e di esserne coinvolti.

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Falli e mummie – Joyce Mansour

TRA IL SOGNO E LA RIVOLTA LA RAGIONE VACILLA
Una frase attraversa la testa assopita
Bisogna eludere le torri della cattedrale
Giri di sangue nel vento capogiro
Luccicanti girini
Organi inesplorati
Ascesso di fissazione per acrobati verbosi
Il ragno appeso alle ciglia
Spia la propria immagine nell’iris del cielo
Un capello finto ne sostituisce un altro nella
zuppiera
Il cervello respira male sotto il globo del ricordo
L’occhio del cavallo
Non sapendo dove posarsi
Torna alla carica
Esplosione del flusso di vita
Fissi gli occhi Gonfie le palpebre
Pesanti i miasmi nel campo dei carnivori
Una frase una sola frase sul muro cavo dello spa-
vento
L’allume chiarifica le acque
I notabili del popolo stercorario
portano fieramente la loro croce di carne
sulle spalle della propria insonnia
Ebbri bisogna vivere ebbri
Nauseante equazione del giusto mezzo
Tra le cosce tiepide dello smidollato
Vive un topo
Che vomita
Triste fine per un letterato

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Autogestione generalizzata contro il totalitarismo di Stato

Finalmente, le primizie del progetto di un’autogestione generalizzata della vita quotidiana cominciano a essere esplorate da gruppi di affinità comunali federati nelle situazioni locali, ma destinati a diffondere fino al planetario il loro rifiuto del totalitarismo di Stato, della dittatura del Mercato e della disumanità mondializzata che ne consegue e che sta distruggendo la vita in nome dell’economia politica e dell’industrialismo tecnocratico di una società artificiale. Finalmente, due mondi da sempre in opposizione radicale appaiono nella loro irriducibile incompatibilità: quello gerarchico, suprematista e predatore o quello dell’aiuto reciproco e della solidarietà egualitaria. Il disumano contro l’umano: ecco il nuovo “rapporto di classe” del conflitto sociale. Della storia dove la coscienza di classe passa il testimone alla coscienza di specie. Pur se ancora parzialmente ideologica, la coscienza di classe ha avuto il merito di preservare l’umano nei tempi barbari dell’Antropocene trionfante, preparando il proprio superamento storico per il quale è cruciale liberarsi di ogni fascismo suprematista e di tutte le illusioni ideologiche di destra e di sinistra. Si tratta di accedere, per la prima volta nella storia dell’umanità, direttamente a una coscienza collettiva comune senza particolarismi di sorta. Si tratta di costruire un mondo nuovo sulle rovine del vecchio che si sta distruggendo da solo. Siamo al bivio tra un mondo che nasce e un altro che muore. La scelta non può essere più chiara, ma si tratta di farla e non soltanto di parlarne, perché il tempo stringe. (Tratto da “Storia e coscienza di classe” di Sergio Ghirardi, xxmilaleghe sotto n.13, 2021)

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GLI AEROPLANI SONO MADRI BRONTOLONE – Jim Morrison

Gli aeroplani sono madri brontolone
Nelle nostre labili guerre da insetti.

Profilattici di nylon le sventolano dietro Guerrieri
Troiani nel loro orrido volo ritorto.

Lanciati fuori, aspirati via
dal suo ventre di metallo,
solo un sottile laccio resta a profezia di un ritorno,
saltano liberi.

Inghiottendo aria per il secondo canale.
Il terreno che salta su come i cani
per mordere, il campo, & rotolando dolore.

Paludi, campi di riso, pericolo.
Abbattuti, più di dieci di loro
in lotta c/la placenta bagnata

Mentre qualcuno atterra più in la negli oceani.
Sommozzatori a galla, liberamente a galla,
nell’utero.

Il mare è una Vagina che
può essere penetrata a ogni punto.

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La Canzone di ZERO IN CONDOTTA


PRIMA STROFA

In una scuola ragazzini dal bel viso
Se ne vanno a cercar dei grani
Se ne vanno a raccogliere pani
Pani d’anice e la colla ch’è del riso
E piselli pisellini e patatone (bis)

Son fuggiti verso la città grande
Con ali da bei maggiolini
Hanno incontrato certi moscerini
E fu la guerra, guerra per bande (bis).

RITORNELLO

Dei nostri piedi mica per niente
Noi ce ne serviremo
Marciare marceremo
Nuotare nuoteremo
Volare voleremo
Le mani non voglion dir niente
E allor le taglieremo
Con un coltello grande grande
Come dagli Appennini sino alle Ande
Con un coltello grande grande

SECONDA STROFA

Il loro bello stendardo in battaglia
Volò lungo tutti i quattro canti
Han ricevuto colpi di mitraglia
Di dietro e anche davanti
Con dei duri pallini da elefante (bis)
Sono quelli della scuola nostra
Che alla fine la vittoria han conseguito
Ed ecco che il gruppo già è ripartito.
Forza ragazzi! A ciascuno la sua
giostra (bis).

RITORNELLO

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