ARTICOLO 41 BIS

L’art. 10 della legge 663 del 10 ottobre 1986 recita: «Dopo l’art. 41 della legge 26 luglio 1975, n. 354, è inserito il seguente: Art. 41 bis: situazioni eccezionali.
1. In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro di Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.
2. L’art. 90 della legge 26 luglio 1975, n. 354 è conseguentemente abrogato. Se vi sembra di aver già sentito qualcosa del genere è perché avevate letto la formulazione dell’art. 90. Il 41 bis segue l’art. 41, che si occupa di definire i termini ed i limiti dell’Impiego della forza fisica e (dell’) uso di mezzi di coercizione”. La sua formulazione originaria lo connette strettamente a una situazione eccezionale che si verifica in un istituto carcerario e limita la sospensione dei diritti al tempo strettamente necessario a riportare l’ordine in quella sezione o quel carcere. Tuttavia la sua applicazione, come già si era visto con l’art. 90, non servirà affatto a sedare rivolte o fronteggiare emergenze di sicurezza interna all’istituzione, bensì colpirà raggruppamenti per categorie di detenuti, indipendentemente dal comportamento carcerario in senso stretto tenuto da quei detenuti. Ad essere determinanti, per essere sottoposti al regime di 41 bis, saranno di volta in volta il tipo di reato per il quale si è finiti in carcere e, successivamente, il comportamento processuale. Stupisce che l’applicazione del 41 bis abbia suscitato poco scandalo anche presso i garantisti. Ma alcune voci si sono levate e la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi. Essa ha dichiarato legittimo il 41 bis soltanto qualora vengano garantite ai detenuti in regime di 41 bis le stesse possibilità rieducative previste per gli altri detenuti. Sembra un ossimoro. (Maria Rita Prette, Sensibili alle foglie)

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La Nave dei Folli

Riflessioni, approfondimenti, contributi dall’Italia e dall’estero, letture, musiche e brani cinematografici, solcherà i mari burrascosi della realtà in cui viviamo fatta di 5G, manipolazioni genetiche, trattamenti sanitari obbligatori, centrali nucleari… e di Stati e aziende che le impongono e ci lucrano sopra; ma anche di tutte le forme di resistenza e lotta nate per opporsi a questo inevitabile naufragio e seguire fin da subito rotte radicalmente diverse.

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Lattughe Psicoattive

Le protagoniste di queste pagine non sono quasi mai le varie specie di lattughe più comuni che si coltivano a milioni di tonnellate in tutto il mondo e che si acquistano al supermercato, la catalogna, la lollo, la gentilina, il lattughino, eccetera, bensì le loro antenate, le lattughe selvatiche da cui derivano: la Lactuca serriola e la Lactuca virosa o qualche loro cugina semisconosciuta. Le lattughe selvatiche sono piante senza pretese, crescono spontaneamente sui terreni incolti e ai margini delle strade. In ambiente urbano si possono vedere tra i marciapiedi e i muri delle abitazioni in quella zona non asfaltata dove si sono insinuate un po’ di terra e semi di “erbacce”. Pochi sanno che se di quelle piante si spezzano le foglie o il fusto, il lattice che ne fuoriesce è psicoattivo, anche se fin dall’antichità la lattuga ha trovato ampio uso in medicina, dall’antico Egitto al mondo classico greco e latino, dal Medioevo al Rinascimento fino alla fitoterapia, omeopatia e farmacologia moderne. In questo contesto il preparato più noto è senz’altro il lattucario, il lattice essiccato di diverse specie di lattuga, diffusosi a partire dalla metà dell’800. Le principali proprietà analgesiche, sedative e narcotiche simil-oppiacee di diversi tipi di preparazioni a base di lattuga hanno fatto sl che queste ultime siano state e siano un valido sostituto dell’oppio, rispetto al quale presentano meno effetti collaterali. Tra le altre proprietà della lattuga ricordiamo quella stimolante-afrodisiaca, attestata nell’antico Egitto, e quella opposta, anafrodisiaca, riportata da diversi autori del mondo classico greco e latino, e successivamente durante il Medioevo e Rinascimento europeo. La lattuga era anche un ingrediente dell’unguento delle streghe europee per procurare la sensazione di volare al Sabba o di trasformarsi in animali, e altre testimonianze rimandano a un uso psicoattivo di diverse specie di lattuga in Francia, Inghilterra, Papua Nuova Guinea, Tailandia del Nord, Guyana e Africa tropicale, oltre a quelle dalla controcultura psichedelica degli anni ’70. Dal punto di vista delle leggende e credenze, la lattuga può essere considerata una “pianta del negativo”, ovvero una pianta legata a un insieme di elementi negativi quali il diavolo, la strega e la morte. L’effetto sedativo e narcotico è stato attribuito principalmente alla lattucina e lattucopicrina, mentre per quelli stimolanti-allucinatori in passato si era supposta la presenza di iosciamina, eventualmente responsabile anche dell’effetto midriatico registrato per consumo di determinate quantità di lattuga o suoi preparati. Mancano però analisi chimiche recenti per confermare o escludere questa presenza, il che permetterebbe un’interpretazione più specifica dei dati etnobotanici e soprattutto di quelli della letteratura medica. A tal proposito è in programma una serie di analisi chimiche qualitative su prodotti a base di lattuga, sia preparati a partire da specie raccolte in natura che su quelli disponibili in commercio. In definitiva, la lattuga sembra delinearsi come una tra le più comuni e diffuse piante psicoattive.

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Contro la Resilienza Nazionale

Ammissione di impotenza di fronte a disastri considerati fatali, la resilienza è fondamentalmente uno strumento di diversione: dalle cause dei disastri ai loro effetti, dalla loro oggettività sociale alla soggettività della loro gestione e percezione, dalla responsabilità dei leader a quella delle vittime.                                                                 Un’arma di adattamento di massa.
La resilienza è una tecnologia del consenso. Si tratta di accettare l’inevitabilità dei disastri, in particolare di quelli tecnologici, per imparare a “convivere” con essi senza mai prendersela con le loro cause. Consenso all’allenamento, all’apprendimento e alla sperimentazione di condizioni di vita degradate dal disastro. Consenso alla partecipazione per deresponsabilizzare i decisori e colpevolizzare le vittime. Il rapporto della missione sulla resilienza nazionale è perfettamente in linea con una profilassi partecipativa che chiede ai cittadini di cogestire i disastri con pezzi di spago per non ribellarsi: “Il vostro relatore ritiene che sia essenziale che [ in Francia ] la popolazione sia messa nella posizione di attori piuttosto che di consumatori, come quando siamo stati incoraggiati a farci da soli le mascherine sanitarie. Questo coinvolgimento potrebbe, a sua volta, ridurre la sensazione di ansia o addirittura di angoscia provata.” Come dire: Non ha senso arrabbiarsi, bisogna reagire in tempo.
La resilienza è un’arma di adattamento massiccio da cui dobbiamo allontanarci perché trasforma la sfortuna in merito. È diventata una metafisica di Stato della sfortuna, che giustifica il disastro come controparte ineluttabile del progresso, fino a farne la sua fonte. Il colpo di mano eugenetico dei terapeuti resilienti, maestri nell’arte di rispondere cambiando le domande, consiste nel sostenere che la catastrofe non è ciò che accade, ma l’impreparazione individuale e collettiva a ciò che accade. Progettano una felicità palliativa di poca salute, poca vita, poca pace, poca libertà, poco rifiuto e rabbia. Perpetuano ciò che già esiste, mentre occorre evitare che i disastri avvengano. (Questo testo è tratto da Thierry Ribault, Contre la résilience)

 

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15 Dicembre 1969 – Giuseppe Pinelli

L’ultimo interrogatorio di Pinelli si svolge nella stanza di Calabresi, che sostiene di essere uscito poco prima di mezzanotte per informare dell’andamento dei colloqui i suoi superiori.
È la mezzanotte del 15 dicembre, il cronista dell’«Unità», Aldo Palumbo, ha lasciato la sala stampa della questura. È nel cortile quando sente un tonfo seguito da altri due. Qualcosa che sbatte contro i cornicioni dei vari piani. Accorre, vede un uomo per terra nell’aiuola. Corre a chiamare agenti e colleghi. È mezzanotte? Manca ancora qualche minuto? È già iniziato il 16 dicembre? Altro quesito irrisolto. L’ora esatta della caduta di Pinelli diventerà un altro tormentone in questa storia tormentata. Dalla questura è partita una richiesta di ambulanza prima che Pinelli cadesse o dopo? Mistero. Che pretende di risolvere Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza del «malore attivo», che manda tutti assolti, ma riabilita pienamente Pinelli. Scrive D’ambrosio: «Pinelli accende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». Tutto qui. D’Ambrosio non tiene in considerazione le enormi contraddizioni in cui sono caduti i poliziotti. Secondo loro Pinelli si è gettato dalla finestra gridando: «È la fine dell’anarchia ». I poliziotti accorrono per fermarlo, scossi dal suo grido. Panessa afferma di essere riuscito ad afferrare Pinelli, rimanendo con una scarpa in mano. Ma i giornalisti accorsi vicino al moribondo lo vedono con tutte e due le scarpe ai piedi.
Poco dopo l’una del 16 dicembre alcuni giornalisti bussano alla porta di casa dei Pinelli, la moglie viene informata che suo marito è caduto dalla finestra. Lei telefona a Calabresi: «Perché non mi avete avvertito?». Risposta del commissario: «Non avevamo il tempo, abbiamo molte altre cose da fare…».
Nel frattempo Pinelli è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli. Lì è arrivata la giornalista Camilla Cederna con i colleghi Corrado Stajano e Giampaolo Pansa. Cederna riesce a parlare con il medico di turno, Nazzareno Fiorenzano: «Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco».

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Amanita Muscaria

Nella cultura popolare, l’Amanita muscaria è stata usata e si usa tuttora come insetticida, alimento e medicina. Per quanto riguarda l’uso come insetticida, esso è citato fin dal Medioevo. In tempi recenti quest’uso è stato registrato soprattutto in Europa. L’uso come alimento è perlopiù rimasto legato a situazioni di emergenza, come carestie e guerre. In passato il fungo si mangiava in diverse regioni italiane, in Francia e tra Repubblica Ceca e Germania, mentre per altri continenti citiamo il Nord America, Messico e Giappone. Nella medicina tradizionale, il fungo si impiegava come analgesico, antinfiammatorio, ansiolitico, sonnifero, stimolante e per alleviare la fatica, soprattutto in Siberia e in Europa. Per la medicina moderna, la ricerca farmacologica si è recentemente focalizzata sul muscimolo e suoi analoghi, in quanto i recettori di questo principio attivo sono coinvolti nelle nevrosi d’ansia, attacchi di panico, morbo di Parkinson, corea di Huntington, epilessia e schizofrenia, oltre che sul microdosing. Altri composti presenti nel fungo potrebbero trovare applicazione in micoterapia. Citiamo anche l’uso in omeopatia umana e veterinaria. L’Amanita muscaria è una presenza comune nelle fiabe di diversi paesi, sia antropomorfizzata in un personaggio (il quale spesso porta un cappello rosso) che come elemento dell’ambientazione, in contesti sia positivi che negativi. Il personaggio più noto associato al fungo è Cappucetto Rosso, ma citiamo anche Santa Claus (Babbo Natale), la strega delle fiabe russe Baba Yaga e il folletto giapponese Tengu, oltre a fate, elfi, folletti vari e gnomi, in associazione con la magia e il possesso di poteri particolari. Nel corso del tempo, questa ricchezza etnomicologica ha esercitato un’influenza che ritroviamo nella cultura moderna. In quest’ultima, l’ Amanita muscaria è rappresentata su biglietti e cartoline di auguri di compleanno e per il nuovo anno (eventualmente insieme ad altri simboli di fortuna come il ferro di cavallo e il quadrifoglio) e nelle decorazioni natalizie, anche associata allo spazzacamino. In fumetti e cartoni animati troviamo spesso questo fungo, così come in giochi per bambini (per esempio caleidoscopi) e videogiochi. Decorazioni per giardini riproducono la forma e i colori dell’Amanita muscaria (come vasi e gnomi), diverse ricette di cucina propongono i colori tipici del fungo, spesso associati alle uova, e anche la musica sfrutta la sua iconografia, come il genere Ps-Trance, così come la cultura psichedelica underground Le forme e i colori dell’Amanita muscaria si ritrovano anche in altri oggetti, per esempio i fuochi d’artificio, mentre in passato ricordiamo un’associazione con gli Ebrei. In tutti questi casi l’Amanita muscaria rimanda alla simpatia, buona fortuna, energia, visione del mondo modificata e astrazione dalla realtà in senso giocoso, confronto con l’effetto inebriante di altre sostanze, musica ispirata dai suoi effetti e a un significato negativo.

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CONTRO IL 41BIS CONTRO LA REPRESSIONE ANTIANARCHICA PER UNA SOCIETÀ SENZA GALERE

Il carcere è un’istituzione totale prodotto di una società basata sul dominio e sullo sfruttamento. Lungi dall’essere una soluzione ai problemi sociali, rappresenta una delle tante facce della violenza degli stati.
In Italia le condizioni di detenzione nelle carceri sono in costante peggioramento da anni: sovraffollamento e abusi fisici e psicologici sono la “normalità” di una situazione sempre più intollerabile, e di questo ne fanno fede i sempre più numerosi suicidi.
Le condizioni di esistenza di chi si trova in regime di 41bis o di Alta Sorveglianza risultano ancora più inaccettabili. In questi casi si può parlare di vera e propria tortura psicofisica per le pesantissime condizioni di isolamento e deprivazione.
L’ergastolo così come l’articolo 41 bis sono orrore istituzionalizzato, indegno di qualsiasi società. Al di là dei proclami pelosi sulla necessità di ‘recupero’ del detenuto e della detenuta alla normale vita sociale, queste pene inflitte palesano in che considerazione le classi dominanti tengano coloro che incappano nelle reti della loro ‘giustizia’: rifiuti da isolare in quella discarica sociale che sono le carceri. Perfino la Corte Costituzionale se ne è accorta, dichiarando queste misure incostituzionali già da 2021. Il nuovo Governo, continuando la prassi dei precedenti, ha invece ribadito l’applicazione dell’ergastolo ostativo. Da anni assistiamo all’accanimento particolare delle istituzioni repressive contro il movimento anarchico con teoremi giudiziari sempre più fantasiosi e condanne sempre più pesanti anche per episodi di normale conflitto sociale. Di fatto nei confronti del movimento anarchico viene applicato quel “diritto penale del nemico” sulla base del quale si viene giudicati non tanto per le azioni commesse ma quanto per le proprie idee. Questo accanimento si riverbera anche contro i detenuti e le detenute che rivendicano il loro ideale anarchico e che, sempre più spesso, vengono sottoposti/e ai regimi carcerari più duri, da ultimo il 41bis.
Da settimane Alfredo Cospito ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza per essere tolto dal regime del 41Bis, mentre altri detenuti hanno a loro volta iniziato uno sciopero della fame in solidarietà. Sosteniamo la loro lotta così come tutte le lotte portate avanti dai
detenuti e dalle detenute in tutte le carceri per rivendicare condizioni di esistenza meno opprimenti, per la chiusura definitiva del 41bis e degli altri regimi di carcerazione speciale.
Nella nostra storia abbiamo conosciuto la barbarie delle leggi scellerate, il confino, l’esilio, l’eliminazione fisica; non sono mai riusciti nel loro intento: la fame di libertà e di giustizia sociale è più forte di ogni cosa.
Federazione Anarchica Italiana (Commissione di Corrispondenza)

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Che ci fa un ragazzino con una pistola?

SPUTI, BOTTE, QUATTORDICI PUGNALATE ED UN COLPO DI PISTOLA: COSÌ MORIVA ANTEO ZAMBONI, IL RAGAZZINO QUINDICENNE CHE PROVÒ AD UCCIDERE MUSSOLINI
Che ci fa un ragazzino con una pistola? La guarda, la osserva, se la passa tra le mani. È pesante una pistola, più di quello che si possa immaginare, specie per un ragazzino magrolino come Anteo. La apre, carica i proiettili, la osserva di nuovo. Col piombo dentro è ancora più pesante. Fa quasi fatica a maneggiarla. Con il colpo in canna quell’oggetto ora può uccidere o far male. Ma a chi, o a cosa?
Cosa ci fa un ragazzino con una pistola?
“Con quest’arma ammazzo il duce”.
Anteo Zamboni era nato a Bologna in una famiglia di anarchici, di professione tipografi. Pare che il padre, per ragioni economiche, si fosse “convertito” al fascismo dopo la salita al potere di Mussolini. Del resto si sa molto poco della sua vita, eccetto per quanto accadde quel 31 ottobre del 1926.
Mussolini si era recato a Bologna per inaugurare lo stadio Littoriale. Nel pomeriggio stava rientrando verso la stazione a bordo di un’automobile quando dall’angolo spuntò un ragazzino, pistola in mano, il quale esplose un colpo in direzione del duce. Un maresciallo dei carabinieri lì presente colpì all’ultimo istante il braccio del ragazzo. Il proiettile sfiorò Mussolini e si infilò nella portiera dell’auto.
“Pochi centimetri. Per una manciata di centimetri non ho ammazzato il duce”.
Anteo tentò la fuga, ma venne bloccato da un militare, tale Carlo Alberto Pasolini, il padre di Pier Paolo. Non lo tenne in custodia a lungo. Due squadristi si impadronirono ben presto del giovane, al quale riservarono un destino crudele. Sputi e insulti durarono poco. Passarono presto alle botte. Poi le coltellate, quattordici.
“Muoio”.
Seguì un colpo di pistola, secco. Anteo Zamboni morì così.
Al suo attentato seguì una repressione ancora più violenta da parte del regime. Vennero ufficialmente dichiarati decaduti i deputati non fascisti. Venne ripristinata la pena di morte e il confino per i dissidenti. La pistola di Anteo era risultata ancora più pesante del previsto.
“Un attimo prima. Se solo avessi sparato un attimo prima”. (Cronache Ribelli)
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Artaud e l’antipsichiatria

Signori,
le leggi e il costume vi concedono il diritto di valutare lo spirito umano. Questa giurisdizione sovrana e indiscutibile voi l’esercitate a vostra discrezione. Lasciate che ne ridiamo. La credulità dei popoli civili, dei sapienti, dei governanti dota la psichiatria di non si sa quali lumi sovrannaturali. Il processo alla vostra professione ottiene il verdetto anzitempo. Noi non intendiamo qui discutere il valore della vostra scienza, né la dubbia esistenza delle malattie mentali. Ma per ogni cento classificazioni, le più vaghe delle quali sono ancora le sole ad essere utilizzabili, quanti nobili tentativi sono stati compiuti per accostare il mondo cerebrale in cui vivono tanti dei vostri prigionieri? Per quanti di voi, ad esempio, il sogno del demente precoce, le immagini delle quali è preda, sono altra cosa che un’insalata di parole?
Noi non ci meravigliamo di trovarvi inferiori rispetto ad un compito per il quale non ci sono che pochi predestinati. Ma ci leviamo, invece, contro il diritto attribuito a uomini di vedute più o meno ristrette di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito umano.
E che incarcerazione! Si sa – e ancora non lo si sa abbastanza – che gli ospedali, lungi dall’essere degli ospedali, sono delle spaventevoli prigioni, nelle quali i detenuti forniscono la loro manodopera gratuita e utile, nelle quali le sevizie sono la regola, e questo voi lo tollerate. L’istituto per alienati, sotto la copertura della scienza e della giustizia, è paragonabile alla caserma, alla prigione, al bagno penale.
Non staremo qui a sollevare la questione degli internamenti arbitrari, per evitarvi il penoso compito di facili negazioni. Noi affermiamo che un gran numero dei vostri ricoverati, perfettamente folli secondo la definizione ufficiale, sono, anch’essi, internati arbitrariamente. Non ammettiamo che si interferisca con il libero sviluppo di un delirio, altrettanto legittimo, altrettanto logico che qualsiasi altra successione di idee o di azioni umane. La repressione delle reazioni antisociali è per principio tanto chimerica quanto inaccettabile. Tutti gli atti individuali sono antisociali. I pazzi sono le vittime individuali per eccellenza della dittatura sociale; in nome di questa individualità, che è propria dell’uomo, noi reclamiamo la liberazione di questi prigionieri forzati della sensibilità, perchè è pur vero che non è nel potere delle leggi di rinchiudere tutti gli uomini che pensano e agiscono. Senza stare ad insistere sul carattere di perfetta genialità delle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo in grado di apprezzarle, affermiamo la assoluta legittimità della loro concezione della realtà, e di tutte le azioni che da essa derivano.
Possiate ricordarvene domattina, all’ora in cui visitate, quando tenterete, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, dovete riconoscerlo, non avete altro vantaggio che quello della forza. (Antonin Artaud)

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La rimozione della morte

Nella nostra lingua umano viene da humus, che sono quei pochi centimetri di terra, i più fertili, in cui da sempre la morte si rinnova in vita e la vita in morte. Humus è anche il termine latino con cui è stata tradotta la parola greca Chton, che indica la parte infera della terra, regno dei morti, e humare significa infatti seppellire.” In moltissime culture, gli umani, sono un impasto di acqua e terra, nascono dalla terra e alla terra ritornano da morti, come un ritorno alla casa, alla madre. È l’impasto stesso di cui è fatto l’umano che viene oggi messo in questione: all’acqua e alla terra si vogliono sostituire le nanotecnologie. Ed è il legame indissolubile, il passaggio continuo di vita e morte attraverso la terra che viene oggi messo in questione. Riteniamo dunque sia proprio attorno al grande nodo della morte e del morire che si giochi quella partita cui stiamo assistendo tra il potere e la natura umana. Ed è con l’intento di provare a ricucire la frattura tra noi e il nostro morire, origine di tante sciagure, che abbiamo intrapreso questa ricerca, convinti profondamente che la “meditazione della morte” sia “meditazione della libertà”.

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