Zerzan. Il crepuscolo delle macchine. Introduzione all’edizione italiana

zerzancrepuscoloNei pochi anni trascorsi dalla prima uscita de Il crepuscolo delle macchine, cominciamo con ogni probabilità ad assistere al crepuscolo effettivo del paradigma tecno-industriale, o almeno ai suoi primi segnali.
Il disastro crescente è chiaramente visibile. Ci sono le singole calamità ambientali, come i milioni di barili di petrolio zampillati per mesi dai fondali del Golfo del Messico, nel 2010; la valanga di rifiuti tossici industriali che hanno invaso città e corsi d’acqua, prima di confluire nel Danubio, in Ungheria, sempre nel 2010; il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone all’inizio del 2011, i cui danni sono stati così ingigantiti in maniera abnorme da una società urbana di massa e dall’industria nucleare. E continua, imperterrito, aumentando di frequenza.
Il contesto in cui si inserisce ogni singolo disastro è quello di un pianeta che è stato surriscaldato e avvelenato. L’altra faccia della medaglia è quanto sta accadendo nella società. La vediamo, ad esempio, nelle sparatorie nelle scuole e nei massacri familiari compiuti tra parenti. Il livello di alienazione, che si manifesta in una condizione pressoché generalizzata di ansia, depressione e stress, non può essere ignorato per sempre.
Le promesse dell’illuminismo non sono state mantenute. La modernità non solo non funziona: è un disastro in continua crescita.
L’ultima ideologia sembra essere quella della tecnologia stessa. Ma la tecnologia sta peggiorando le cose, dalle malattie resistenti agli antibiotici fino alla crescente vacuità e freddezza della tecno-cultura. Siamo tutti quanti condizionati e addomesticati da una tecnologia che continua ad avanzare. E lungo la strada spunta la verità più segreta: un’esistenza completamente mediata, protesica, non è vivere per davvero.
Ci dev’essere un’alternativa, e siamo al punto in cui non è più possibile evitare questa discussione. È sempre più facile vedere che per tutto il percorso a ritroso, fino ad arrivare alla civilizzazione/addomesticamento, abbiamo seguito un vicolo cieco. Troppe cose sono d’intralcio sulla strada del dibattito necessario (i mass media e la Sinistra, ad esempio), ma la realtà si fa più insistente, e sta bussando sempre più forte alla nostra porta.
John Zerzan 

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TOMORROW NEVER KNOWS The Beatles

Tomorrow never KnowsMentre Harrison si dedicava alla musica indiana, e McCartney alla musica classica, Lennon aveva cominciato a interessarsi all’esplorazione del suo “spazio interno” mentale per mezzo dell’LSD. Poiché in Inghilterra, nel 1966, non esisteva una “cultura dell’acido”, Lennon non disponeva di alcuna guida a questa droga, e si rivolse così a un frutto della scena americana: The Psychedelic Experience, un manuale per l’espansione della mente scritto da due psicologi apostati di Harvard, Timothy Leary e Richard Alpert.
Desiderando fornire all’imprevedibile “viaggio” con l’acido un quadro di riferimento paragonabile a quelli degli ordini mistici del Cattolicesimo e dell’Islamismo, Leasry e Alpert scelsero Il libro tibetano dei morti, una antica raccolta di testi scritti per essere sussurrati ai moribondi al fine di guidarli attraverso gli stati illusori che, secondo il buddismo tibetano, esercitano il loro dominio tra l’una e l’altra incarnazione. Leary e Alpert scelsero questo libro sacro perché credevano che l’LSD fosse un” prodotto chimico sacramentale” capace di procurare rivelazioni spirituali.
Secondo Albert Goldman, Lennon assunse LSD per la terza volta nel gennaio del 1966. Evidentemente intenzionato a compiere un importante viaggio di scoperta di sé, seguì le istruzioni fornite in The Psychedelic Experience, leggendone le parafrasi del Libro Tibetano dei morti a un registratore e riascoltandole mentre la droga faceva effetto. Il risultato fu spettacolare, e Lennon si affrettò a trasformarlo in canzone, prendendo molte delle frasi del testo direttamente dal libro di Leary e Alpert; prima di tutto l’estatica invocazione dell’ipotetica realtà oltre le apparenze: “the Void”, il Vuoto. Col titolo The Void, la canzone fu la prima ad essere registrata per Revolver. Col titolo definitivo, TOMORROW NEVER KNOWS, presentava l’LSD e la rivoluzione psichedelica di Leary ai giovani del mondo occidentale, diventando uno dei dischi più socialmente influenti mai realizzati dai Beatles.
Il panorama sonoro di TOMOROWW NEVER KNOWS è un’attraente miscela di anarchia e sgomento, con i suoi tape-loops che si incrociano in uno schema casuale di cerchi che si scontrano. Anche la registrazione della voce di Lennon avvenne con modalità senza precedenti. Nella prima metà della canzone, la voce è raddoppiata con il double-tracking automatico. Per la seconda metà, Lennon voleva che la sua voce suonasse come quelle del Dalai Lama e di migliaia di monaci tibetani salmodianti sulla vetta di una montagna. George Martin risolse il problema facendo passare la registrazione della voce attraverso l’altoparlante rotativo dell’apparecchio Leslie di un organo Hammond, con un procedimento particolare che richiedeva un inserimento fisico nella circuitazione.

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Raoul Vaneigem. Note preliminari al progetto di costruzione di Oarystis, la città dei desideri

180px-VaneigemLa concezione della città trae la sua ispirazione dal mondo dell’infanzia e della femminilità in procinto di emanciparsi dalle sue oppressioni secolari. Accorda dunque la preminenza al piacere di giocare, alla passione di creare e a quella felicità di essere a sé che, sola, permette di essere per gli altri e di contribuire al loro benessere. Il progetto è qui presentato nel suo stato più sommario, aperto al concorso di chiunque desidera svilupparlo, illustralo, concretizzarlo.
Non si viaggia se non attraverso e nel suo corpo. La città è dunque concepita come un’unità corporea, in cui tutti gli elementi agiscono in armonia. Non c’è ordine gerarchico nella distribuzione degli organi che compongono il corpo individuale, sociale e urbanistico ma ognuno degli elementi si trova consolidato allo stesso tempo dalla sua peculiare autonomia e dalla solidarietà che esso intrattiene con l’insieme.
La città risponde al desiderio di deriva. Elabora dei luoghi adatti alla costruzione di situazioni, che privilegiano il libero esercizio dei diritti dell’essere umano, i giochi di apprendimento, la psicogeografia, in cui si disegna al capriccio delle passioni la carta mutevole del Tenero. Essa ha la forma di un labirinto, costruito su tre livelli, suscettibile di ritrovarsi modificato in modo aleatorio per un meccanismo che apre e chiude le vie, trasformando in una difficoltà un cammino liberamente tracciato, e viceversa. L’erranza e l’avventura, così sollecitate, rispondono al desiderio di facilitare per ognuno la scoperta e l’affinamento dei suoi desideri. Si approda su delle piazze pubbliche, secondo il modello di Venezia, che ricordano che a perdersi ci si ritrova ovunque. Il labirinto comprende dei diverticoli particolarmente influenzati alle variazioni di umore. Si prevederà così un circuito della malinconia, per entrare ed uscire dagli stati di afflizione.
Nulla è statico. Le case possono cambiare di forma; a secondo delle stagioni, ad esempio, e della volontà di coloro che vi abitano. Alcune hanno la possibilità di spostarsi sull’acqua, lungo i binari, per mezzo di una vite ascensionale, ecc.
Nessuna tecnologia danneggia la salute. Tutto è mosso dalla congiunzione di energie naturali (elettricità solare. Forza motrice idraulica, eoliche, metano, ecc). Dei laboratori di creazione sono a disposizione dei ricercatori, degli inventori, di coloro che sperimentano dei prototipi o semplicemente dei curiosi.
Oarystis è una città-oasi. Dei biotopi, ovunque diffusi, permettono di attirare una fauna e di sviluppare una flora presentando la più grande diversità. Si può così mantenere nel loro sito appropriato degli animali ritenuti pericolosi, di modo che soltanto chi li incontra si assume il rischio di avventurarsi sul loro territorio. Dei biotopi di maggiore portata sono destinati alle colture di legumi, fiori, cereali, così come all’allevamento di animali domestici, che forniscono uova e latte, e al mantenimento degli animali da compagnia.
Tutto obbedisce alla libertà del movimento. Gli spostamenti degli esseri e delle cose si effettuano attraverso  dei percorsi d’acqua, di terra e d’aria. Vi sono delle strade a cielo aperto e delle strade sotterranee riscaldate, le cui vetrate formano il lastricato delle strade superiori. Dei canali poco profondi propongono delle vie di circolazione, dotate di ascensori idraulici che danno accesso alle strade aeree, in cui le vetture a propulsione non inquinante circolano, lasciando la maggior parte delle strade ai pedoni. Degli ascensori permettono di passare da un livello all’altro e di accedere a dei ponti di corda posti tra un albero e l’altro. Si tratta di privilegiare una circolazione in tutti i sensi che rompe un po’ alla volta con la gerarchizzazione dello spazio e del tempo, con le sue divisioni dall’alto in basso, da sinistra e da destra, dal passato e dal futuro. Forse la spirale è la forma che meglio corrisponde allo spazio-tempo del vivente?
L’intreccio delle attività. Inoltre delle piazze pubbliche, delle strade-case, composte da corridoi e da stanze particolari sono proposte alle assemblee dei cittadini. Questo non esclude la possibilità di incontrarvisi, di dormirvi, di rifocillarsi. Il forum circondato da colonnate, è il luogo delle grandi assemblee in cui le decisioni sono dibattute collettivamente.
La distribuzione. Le strade presentano una grande varietà di chioschi, di negozi, depositi dove gli agricoltori, i giardinieri, gli artigiani, gli artisti, gli inventori, i meccanici, i cuochi, i poeti e gli scrittori si compiacciono ad offrire i prodotti nati dalla loro inventività e dalla loro passione.
L’approvvigionamento. Esistono un po’ ovunque dei centri di scambio, di riconversione dei beni usati, di distribuzione dei prodotti di prima necessità. Là è ogni giorno comunicata a tutti la bilancia indicante l’offerta e la domanda dei beni di sussistenza, di modo che siano chiaramente definite le esigenze dei settori di produzione prioritaria. Ognuno è dunque in grado di poter provvedere secondo le proprie capacità al rifornimento dei prodotti e dei servizi necessari al benessere della vita. Le colture ed i giardini collettivi sono gestiti come dei centri di produzione e di consumo dell’utile e del gradevole.
Il tirocinio permanente. Le strade sono costellate da fari del sapere: vi si diffondono le informazioni sugli argomenti più diversi. Non distanti si tengono coloro che, animati dalla passione di insegnare e adatti a condividere le loro conoscenze a piccoli e grandi, trattano le informazioni raccolte, le correggono, le discutono, le strutturano e conferiscono loro le qualità richieste dal tirocinio alla vita. Qui, il bambino non è il re ma è al centro dell’attenzione, del pensiero, del tirocinio dei destini. L’idea di creare il suo proprio destino è infatti quella che dà senso alle istituzioni di mutua educazione, in cui bambini e genitori confrontano le loro esperienze.
La cultura. I musei hanno lasciato posto a delle strade lussuose in cui le opere d’arte del passato fanno parte della meraviglia quotidiana dei cittadini. Nei circhi della memoria, le visioni della storia antica e recente sono presentate, recitate, discusse. Dei giochi ad indizio sollecitano la curiosità e permettono ad ognuno di verificare lo stato delle sue conoscenze nei campi più diversi.
La creazione. La città agisce, per la gradevolezza da lei presentata, come un’incitazione a creare. Esiste una profusione di automatizzazioni, di  carillon giocattoli e giochi concepiti per il piacere di tutti. Tutti hanno il diritto di aggiungere le proprie opere.
Fine della chiusura urbana. Grandi spazi occupati da campi, giardini, parchi, boschi, fattorie aboliscono l’arcaica separazione tra città e campagna.
La gratuità dei trasporti. I mezzi di trasporti sono a libera disposizione di tutti: vetture elettriche, scale mobili, ascensori, trenini.
La cura del corpo. Delle case di cura insegnano a prevenire le malattie e garantiscono le cure necessarie a coloro che non riescono a conservarsi in salute.
Le case di appuntamento. Gli OARISTYS sono le case dell’amore tenero. I ragazzi e le ragazze vi si incontrano, tentano le loro prime avventure amorose, si iniziano ai perfezionamenti dell’esperienza sessuale, vi scoprono liberamente le affinità che li orienteranno, se lo desiderano, verso una relazione durevole e la scelta di far nascere un bambino.
La sperimentazione. È presente ovunque nella sua più grande varietà. È sottoposta alla sola condizione di rispondere o di accordarsi al progetto di miglioramento costante della vita e dell’ambiente (ciò esclude il ricorso al criterio del rendimento, del profitto, della competizione, del potere e ad ogni pratica implicante l’uso della sofferenza, del deperimento, della morte.
La città dei morti. Ai confini di Oarystis, una foresta è consacrata ai morti. Su ogni defunto viene piantato un albero, secondo i propri desideri. Dei microfoni, posti tra le fronde, rendono udibili i mormorii della foresta. Bisogna notare che i giardini ed i boschetti di cui la città è disseminata sono eretti qua e là di orecchie dove si percepiscono, amplificati, i suoni della natura circostante.
Scrivere e disegnare. I muri ciechi sono le pagine bianche in cui ognuno ha il diritto di disegnare, scrivere, incidere. Ai vecchi pannelli pubblicitari si sono sostituiti delle poesie, delle notazioni individuali, delle calligrafie, delle evocazioni oniriche. Perché tutto risponda al piacere di abitare, di decorare, di fiorire, di fare della città un’opera d’arte in cui i colori ed i suoni siano l’emanazione dei paesaggi interiori che abitano la sensibilità dell’essere umano.
Il principio di gratuità. Aspettando che l’autarchia sia effettiva, una banca gestita collettivamente, possedente la propria moneta, faciliterà le transazioni con i territori ancora sotto controllo dell’economia di mercato. Chi si troverà costretto a passare attraverso le filiere del pagamento obbedirà al principio che tutto il denaro raccolto sarà reinvestito nella produzione dei beni di utilità e divertimento. Raoul Vaneigem

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Gordon Wasson: io sono il responsabile

Mai María Sabina mi ha rimproverato di aver fatto conoscere al mondo i funghi e le sue qualità di «Sabia». Ma non senza dispiacere leggo le sue parole: «Prima di Wasson, io sentivo che i niños santos mi innalzavano. Ora non ho più questa sensazione… Se Cayetano non avesse fatto venire gli stranieri, i niños santos conserverebbero ancora i loro poteri… Da quando sono arrivati gli stranieri… i niños santos: hanno perso la loro purezza. Hanno perso la loro forza; li hanno corrotti. D’ora in poi non serviranno più. Non c’è più niente da fare».
Queste parole mi fanno rabbrividire: io, Gordon Wasson sono il responsabile della fine in Mesoamerica di una pratica religiosa che risale a qualche millennio. «I piccoli funghi ormai non servono più. Non c”è più niente da fare». Temo che dica la verità, nella sua saggezza. Una pratica celebrata in segreto per secoli è stata portata alla luce, e la luce ne annuncia la fine.
Nel 1955, quando ho fatto la mia prima veglia con María Sabina, ho dovuto fare una scelta difficile: non divulgare la mia esperienza o presentarla degnamente al mondo. Non ho avuto un attimo di dubbio: i funghi sacri e il sentimento religioso di cui erano il fulcro nelle catene montuose del Messico meridionale dovevano essere fatti conoscere al mondo. Nel modo dovuto, senza tener conto di quanto mi sarebbe costato. Se non lo avessi fatto io, la «consultazione del fungo» sarebbe durata ancora per alcuni anni ma era tuttavia destinata a scomparire perché era inevitabile. In questo caso, il mondo avrebbe vagamente conosciuto l`esistenza di questo tipo di pratica religiosa, ma non l’importanza del suo ruolo. D’altro canto, divulgata nel modo giusto, il suo prestigio e quello di María Sabina dureranno a lungo. R. Gordon Wasson

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L’orologio ovvero il tempo uguale denaro

Nell’esatto momento in cui la rivoluzione industriale ha richiesto una maggiore sincronizzazione del lavoro, nasce l’esigenza dell’orologio. Il piccolo congegno che regola i nuovi ritmi della vita industriale rappresenta allo stesso tempo uno dei bisogni più urgenti tra quelli indotti dal capitalismo per stimolare il proprio progresso.
Così scopriamo, il senso del tempo nel suo condizionamento tecnologico e con il calcolo del tempo, il mezzo di sfruttamento del lavoro. Con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe , le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi, vengono plasmate le nuove abitudini di lavoro e viene imposta la nuova disciplina del tempo. E allorché viene imposta la nuova “disciplina del tempo”, gli operai iniziano a combattere non contro il tempo, ma intorno ad esso. La prima generazione di operai di fabbrica viene istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione forma le commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione sciopera per lo straordinario come tempo retribuito in modo maggiorato del 50 per cento. Gli operai hanno accettato le categorie dei propri padroni e hanno imparato a lottare all’interno di esse. Hanno appreso la lezione: “il tempo è denaro”.

 

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Che sei venuto a fare, qui a casa mia? Tra il mio popolo?

Per capire, seppur alla lontana, che cos’è il Peyote per un indiano Huichol, bisogna proprio andare nel deserto a nord di San Luis Potosíz là, al freddo, bisogna mangiare questo piccolo cactus, che i botanici chiamano pomposamente Lophophora williamsii, sentirlo gonfiarsi nel petto per poter capire perché questo popolo triste e bistrattato sia così gelosamente attaccato alla piccola pianta grassa. Le visioni indotte dal Peyote sono di tipo percettivo ed emotivo allo stesso tempo; non per niente contiene mescalina, forse tra gli allucinogeni quello con più marcato effetto sulla percezione visiva. E così mentre caleidoscopi geometrici perfettamente simmetrici ti danzano tutt’intorno, mentre quella landa desolata e immobile che è il deserto ti appare di un’armonia soprannaturale e per la prima volta ti senti perfettamente a casa, puoi avvertire tutta la tristezza di un popolo per il quale i propri sacramenti religiosi non bastano più.

Un popolo semplice, abituato ai silenzi e ai grandi spazi della Sierra, si trova progressivamente spogliato delle proprie risorse economiche e delle tradizioni nel nome di un’integrazione che ha sempre più il sapore di un genocidio culturale. È allora che lo spirito del piccolo cactus ti sussurra al cuore una domanda che ha il sapore di un’accusa: che sei venuto a fare uomo bianco, qui a casa mia? Tra il mio popolo? Antonio Bianchi

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L’eco-dittatura che verrà

C’è chi resiste ad accettare la convenienza della Catastrofe; e, non potendo credere nella capacità di ammenda del capitalismo —capacità di porsi dei limiti, di porre il freno, di “smettere di essere sé stesso”—, appoggia una “eco-tirannia”, una “eco-dittatura”: obbligare gli uomini a comportarsi bene, nella loro relazione con l’ambiente, come devono comportarsi per assicurare semplicemente la sussistenza della specie umana; obbligarli a vivere come è necessario per schivare quella catastrofe. Si tratterebbe, senz’altro, della più filantropica delle dittature, una tirannia veramente “umanitaria”. A questa “eco-dittatura” si riferiva Hans Jonas quando aggiungeva che, se deve esistere un’umanità sulla Terra, bisognerà rinunciare ai lussi della libertà; e, tra altri, le ha dedicato molte pagine Rudolf Bahro, nella sua Logica della Salvazione. Secondo quest’autore, «il governo della salvazione sarà totalitario, o eco-dittatoriale, o come si voglia chiamarlo, fino a quando gli individui non avranno il minimo proposito di porsi per convinzione propria all’altezza della sfida storica: assicurare la sussistenza della specie umana sulla Terra, per il quale scopo porre termine agli orientamenti economici e alle pratiche politiche “sterminatrici” oggi dominanti».

Certo che risulta peripatetica quest’idea di una “santa tirannia”, di una “dittatura filantropica”; certo che è scomodo accettare la postulazione di una catastrofe imminente (“imminente” è un termine relativo: vuol dire “immediatamente”, in un pugno d’anni o in pochi secoli). Ma, possiamo credere ancora nella volontà di “auto-correzione” del produttivismo? Possiamo fidarci del fatto che sarà riveduta e neutralizzata la logica di crescita, di produzione e consumo inarrestabile, che caratterizza il capitalismo e che pure ha fatto estinguere il Socialismo? È possibile immaginare formule di organizzazione politico-economica che, appartandosi dal produttivismo, e recuperando gli elementi positivi delle tradizioni collettiviste, cooperativiste, agrarie, ecc., istituiscano modelli di società infinitamente meno dannosi per la Natura che quello attuale e, in questo modo, garantiscano la non-estinzione degli esseri umani. La tradizione libertaria sa molto su questa possibilità: storicamente è stata fatta un’incursione per vie poco transitate che permetterebbero all’uomo di sorteggiare “santi dispotismi” e “catastrofi annunciate”. Però ci sono uomini (o sarà possibile averli) disposti ad accettare un cambio così drastico nelle loro abitudini politiche ed economiche; capaci di assumere che sono stati formati ed educati in una farsa sanguinosa, e che hanno investito tutta la loro vita nell’errore più stupido e nel concimare la perdizione dell’umanità? Se si potesse rispondere affermativamente a questa domanda rimarrebbe ancora uno spiraglio di speranza. Se la risposta è negativa, rimane solo una questione da esporre: cos’è quello che temiamo della Catastrofe? Che temiamo della Catastrofe quando la maggior parte dei nostri simili già vive nel suo seno (catastrofe di morire di fame, di veder morire i suoi figli nell’infanzia, di sapersi indifeso e alla mercè delle malattie, di non poter scappare dal terrore politico,…)? Non sarà che l’unica cosa che non ci sembra buona di quest’infortunio quotidiano, nel cui cuore vivono già milioni di persone, l’unica cosa che ci inquieta e ci scuote, è che domani potrebbe toccare anche a noi, gli occidentali, gli uomini e le donne che durante gli ultimi secoli abbiamo fatto tutto il possibile perché la catastrofe sia il destino degli altri e adesso retrocediamo spaventati davanti al sospetto, se non alla certezza, che dovrà essere anche il nostro?
Cos’è che tanto temiamo della Catastrofe? Pedro Garcìa Olivo

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La prima volta di Maria Sabina

Senza pensarci molto, portai i funghi alla bocca e li masticai. Il loro sapore non era gradevole; al contrario: erano amari, sapevano di radice, di terra. Li marigiai tutti interi. Mia sorella María Ana, che mi stava osservando, aveva fatto la stessa cosa. Dopo aver mangiato i funghi, la nostra testa girava, come se fossimo un po’ ubriache e ci mettemmo a piangere; ma poi il senso di vertigine passò e ci sentimmo molto felici. Più tardi ci  sentimmo bene.
Fu come un nuovo impulso alla nostra vita. Così lo sentii. Nei giorni successivi, quando avevamo fame, mangiavamo i funghi. E, non solo sentivamo lo stomaco pieno, ma anche lo spirito contento. I funghi facevano sì che domandassimo a Dio di non farci soffrire tanto, gli dicevamo cbe avevamo sempre fame, che sentivamo freddo. Non avevamo nulla: solo fame e freddo. Io non sapevo se i funghi erano buoni o cattivi in realtà. Non sapevo neanche se erano cibo o veleno. Ma sentivo che mi parlavano.
Dopo averli mangiati, sentivo delle voci. Voci che venivano da un altro mondo. Era come la voce di un padre che dà consigli, Le lacrime scendevano abbondanti sulle nostre guance, come se piangessimo per la povertà in cui vivevamo. Maria Sabina

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Estrada: Vita di Maria Sabina

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Il paradiso in terra dei gesuiti

Il comunismo da caserma, l’illibertà e il pensiero unico non furono invenzioni bolsceviche; i kolcoz non nacquero negli anni venti dell’altro secolo. A precedere di qualche tempo leninisti e stalinisti fu (naturalmente) la Chiesa. I gesuiti infatti, riuscirono a fondare in Paraguay nell’arco di un secolo, dal 1607 al 1707 decine di piccole città  chiamate Reducciones. Più di 250.000 di indigeni lavorarono sotto la loro direzione. Essi furono istruiti, formati, ospitati, vestiti, nutriti e, in qualche misura, fatti divertire, in un regime di schiavitù egualitaria soft.
Sottomessi alla corona spagnola, alla quale corrispondevano un tributo annuo, questi centri costituivano una sorta di repubblica indipendente. I missionari controllavano l’organizzazione generale della vita sociale e religiosa, mentre il governo civile delle riduzioni era regolato da funzionari indigeni; era  esclusa qualsiasi ingerenza o presenza spagnola. Questa precauzione, pretesa e ottenuta sin dall’inizio dai gesuiti, mirava ad isolare gli indios dal “cattivo esempio” che gli spagnoli avrebbero potuto offrire  ed incontrò il favore immediato dagli stessi indios, avversi, per i metodi brutali con i quali venivano trattati, agli spagnoli . D’altra parte, i gesuiti inculcavano negli indigeni la sottomissione, la riverenza e la fedeltà verso la corona spagnola. I gesuiti organizzarono la vita sociale delle riduzioni nei minimi dettagli valorizzando a proprio vantaggio alcune caratteristiche della società dei Guaraníes. Questi erano popoli guerrieri, in cui, se l’autorità militare apparteneva a un unico capo, il cosiddetto cacique, il potere generale era depositato nell’assemblea degli anziani; la proprietà privata non era considerata un diritto assoluto e l’uso dei beni era comunitario.
Organizzate secondo criteri analoghi, le riduzioni consistevano in “grandi villaggi, alcuni dei quali contavano quattro o cinque mila abitanti, costruiti tutti su di un identico disegno. In ogni riduzione v’era un’infermeria-ospedale, un piccolo ospizio una locanda fornita di cappella, per le persone che fossero lì di passaggio. Tutt’intorno al villaggio si estendevano terre coltivate o pascoli, il cui sfruttamento era collettivo.
Caratteristica saliente dell’organizzazione sociale era la riduzione al minimo necessario della proprietà privata e la completa esclusione del commercio in denaro: “In ogni riduzione vi erano le proprietà private e una proprietà pubblica. Le prime le proprietà dell’indiano, appartenevano alle singole famiglie, le quali dovevano lavorarle e farle fruttare; potevano accrescerle con la loro diligenza e se le godevano senza che altri avesse diritto di intromettervisi. Oltre a queste singole proprietà, v’era anche una grande estensione di terreno, proporzionata al numero delle famiglie, che costituiva la proprietà pubblica.
Tutti, ad eccezione delle autorità e degli artigiani, dovevano andarvi, per due giorni alla settimana, a prestare la loro opera volontaria, sotto la guida di una persona appositamente incaricata. I prodotti di questa proprietà, portati e conservati nei magazzini comuni, dovevano servire per mantenere quelli che non potevano lavorare, come i vecchi e gli infermi, le vedove e gli impiegati pubblici; per rimediare alla scarsità del raccolto negli anni di carestia, di sterilità, di malattie epidemiche; e finalmente per gli ospiti”. Schiavi sì, ma trattati cristianamente.

 

 

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Sodomia: atto o identità?

Affermare che la sessualità non è legata alle profondità della natura, significa aprire la possibilità di analizzare la sessualità nella superficialità dei suoi eventi, tratteggiandone una storia. Secondo le ricostruzioni di Foucault, ad esempio, l’omosessualità non è esistita da sempre: l’omosessuale è, piuttosto, un personaggio che appare soltanto nell’Ottocento. Presso gli antichi, nel Medioevo e ancora all’inizio dell’età moderna, la sodomia designava infatti una tipologia di atti vietati, ma non un’identità: solo a partire da uno studio del 1870 dello psichiatra Karl Friedrich Westphal (Die Konträre Sexualempfindung) l’omosessuale maschio è diventato invece un «tipo umano». Da quel momento in avanti, l’omosessualità ha cessato di essere un problema di atti ai quali il soggetto può decidere se abbandonarsi o no, ed è diventata una questione di desideri, di fantasie, di personalità che richiede tutto un lavoro di comprensione e di decifrazione che il soggetto può condurre nel confessionale con il prete, sul lettino con l’analista, o attraverso un silenzioso dialogo con se stesso. Questo lavoro coinvolge non solo gli omosessuali, ma anche gli eterosessuali: anch’essi sono costretti a confessare i loro desideri omosessuali, a riconoscerli per allontanarli da sé e per accedere così all’identità eterosessuale. Lorenzo Bernini

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