Che sei venuto a fare, qui a casa mia? Tra il mio popolo?

Per capire, seppur alla lontana, che cos’è il Peyote per un indiano Huichol, bisogna proprio andare nel deserto a nord di San Luis Potosíz là, al freddo, bisogna mangiare questo piccolo cactus, che i botanici chiamano pomposamente Lophophora williamsii, sentirlo gonfiarsi nel petto per poter capire perché questo popolo triste e bistrattato sia così gelosamente attaccato alla piccola pianta grassa. Le visioni indotte dal Peyote sono di tipo percettivo ed emotivo allo stesso tempo; non per niente contiene mescalina, forse tra gli allucinogeni quello con più marcato effetto sulla percezione visiva. E così mentre caleidoscopi geometrici perfettamente simmetrici ti danzano tutt’intorno, mentre quella landa desolata e immobile che è il deserto ti appare di un’armonia soprannaturale e per la prima volta ti senti perfettamente a casa, puoi avvertire tutta la tristezza di un popolo per il quale i propri sacramenti religiosi non bastano più.

Un popolo semplice, abituato ai silenzi e ai grandi spazi della Sierra, si trova progressivamente spogliato delle proprie risorse economiche e delle tradizioni nel nome di un’integrazione che ha sempre più il sapore di un genocidio culturale. È allora che lo spirito del piccolo cactus ti sussurra al cuore una domanda che ha il sapore di un’accusa: che sei venuto a fare uomo bianco, qui a casa mia? Tra il mio popolo? Antonio Bianchi

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