Il paradiso in terra dei gesuiti

Il comunismo da caserma, l’illibertà e il pensiero unico non furono invenzioni bolsceviche; i kolcoz non nacquero negli anni venti dell’altro secolo. A precedere di qualche tempo leninisti e stalinisti fu (naturalmente) la Chiesa. I gesuiti infatti, riuscirono a fondare in Paraguay nell’arco di un secolo, dal 1607 al 1707 decine di piccole città  chiamate Reducciones. Più di 250.000 di indigeni lavorarono sotto la loro direzione. Essi furono istruiti, formati, ospitati, vestiti, nutriti e, in qualche misura, fatti divertire, in un regime di schiavitù egualitaria soft.
Sottomessi alla corona spagnola, alla quale corrispondevano un tributo annuo, questi centri costituivano una sorta di repubblica indipendente. I missionari controllavano l’organizzazione generale della vita sociale e religiosa, mentre il governo civile delle riduzioni era regolato da funzionari indigeni; era  esclusa qualsiasi ingerenza o presenza spagnola. Questa precauzione, pretesa e ottenuta sin dall’inizio dai gesuiti, mirava ad isolare gli indios dal “cattivo esempio” che gli spagnoli avrebbero potuto offrire  ed incontrò il favore immediato dagli stessi indios, avversi, per i metodi brutali con i quali venivano trattati, agli spagnoli . D’altra parte, i gesuiti inculcavano negli indigeni la sottomissione, la riverenza e la fedeltà verso la corona spagnola. I gesuiti organizzarono la vita sociale delle riduzioni nei minimi dettagli valorizzando a proprio vantaggio alcune caratteristiche della società dei Guaraníes. Questi erano popoli guerrieri, in cui, se l’autorità militare apparteneva a un unico capo, il cosiddetto cacique, il potere generale era depositato nell’assemblea degli anziani; la proprietà privata non era considerata un diritto assoluto e l’uso dei beni era comunitario.
Organizzate secondo criteri analoghi, le riduzioni consistevano in “grandi villaggi, alcuni dei quali contavano quattro o cinque mila abitanti, costruiti tutti su di un identico disegno. In ogni riduzione v’era un’infermeria-ospedale, un piccolo ospizio una locanda fornita di cappella, per le persone che fossero lì di passaggio. Tutt’intorno al villaggio si estendevano terre coltivate o pascoli, il cui sfruttamento era collettivo.
Caratteristica saliente dell’organizzazione sociale era la riduzione al minimo necessario della proprietà privata e la completa esclusione del commercio in denaro: “In ogni riduzione vi erano le proprietà private e una proprietà pubblica. Le prime le proprietà dell’indiano, appartenevano alle singole famiglie, le quali dovevano lavorarle e farle fruttare; potevano accrescerle con la loro diligenza e se le godevano senza che altri avesse diritto di intromettervisi. Oltre a queste singole proprietà, v’era anche una grande estensione di terreno, proporzionata al numero delle famiglie, che costituiva la proprietà pubblica.
Tutti, ad eccezione delle autorità e degli artigiani, dovevano andarvi, per due giorni alla settimana, a prestare la loro opera volontaria, sotto la guida di una persona appositamente incaricata. I prodotti di questa proprietà, portati e conservati nei magazzini comuni, dovevano servire per mantenere quelli che non potevano lavorare, come i vecchi e gli infermi, le vedove e gli impiegati pubblici; per rimediare alla scarsità del raccolto negli anni di carestia, di sterilità, di malattie epidemiche; e finalmente per gli ospiti”. Schiavi sì, ma trattati cristianamente.

 

 

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