CHAPPAQUA

Il protagonista arriva in una città. Si chiama Russel. Viene portato via in macchina da un autista. E’ una continua allucinazione. Entra in una clinica per disintossicarsi. Gli viene fatta una iniezione, poi scappa. Russel va a finire in una bara durante una cerimonia in cui i fedeli entrano in trance. Ma lui si risveglia nella clinica. Parla con uno psicologo. Dice che vuole andare a Chappaqua. Si vede la festa di paese di Chappaqua. Lui è un bambino. Si vedono danze indiane. Belle visioni. Il peyote. Cominciò tutto con quello per Russel. Il peyote gli ha dato fantastiche visioni. Inca e una donna bellissima. Un cervo. Allucinazioni. Allucinazioni di Russel. Le allucinazioni diventano un incubo. Russel diventa Dracula. Si ritorna nella clinica. Russel scappa e va a Parigi. Entra in un bar. Beve. Russel è sempre più ubriaco. Ogni tanto compare William Burroughs. E poi di nuovo musica e danza indiana. Strade dell’India sporche e povere. A Parigi è ubriaco. Entra in un locale jazz. Continua a bere e a ballare. Si ritrova in clinica dove balla con un’infermiera. Ritorna nel locale jazz. Le immagini continuano ad alternarsi velocemente. Passa dall’India dove impara la meditazione. Si ritrova su un cammello e va a fumare hashish insieme a dei santoni. Assiste ad una danza sfrenata di una bellissima donna. Compare una roulette dove lui gioca con altri giocatori. I giocatori si passano una siringa e si iniettano una droga. Ritorna la donna bellissima che ora fa l’amore con Russel. Tutto questo sempre intervallato dal locale jazz e dalla clinica. Fischio di un treno. Russel cade a terra morto, Santoni indiani, Russel che balla con una donna in un bosco. Infine fugge con un elicottero gridando “Addio!”
Chappaqua di Conrad Rooks è riuscito a diventare manifesto del pensiero beat e splendido documento di un’epoca, al di là degli evidenti meriti tecnici. Il film è semi-autobiografico: Rooks mette in scena con allucinata sincerità la sua vita interpretando il protagonista Russel Harwick, un ricco ubriacone strafatto che va in una clinica privata per disintossicarsi da alcol e allucinogeni. L’intera pellicola è un susseguirsi di deliri visionari, il viaggio di un tossicomane in crisi di astinenza dentro se stesso, i suoi timori, i suoi sogni e i suoi ricordi, dove lo spazio e il tempo non esistono più e la realtà si piega alle sue emozioni e ai suoi desideri. Harwick/Rooks, e con lui tanti altri, in quei primi anni ’60, vorrebbe solo raggiungere uno stato di serenità mentale, di un equilibrio tra il suo essere e la società che lo circonda e influenza, una sensazione, un luogo ideale che identifica nel paesino di Chappaqua.
Il film è un viaggio anzi una summa di viaggi, anzi un inseguirsi di viaggi nel viaggio. Nello spazio e nel tempo, nella droga e per uscire dalla droga, nella storia e nella Storia, nella realtà e nell’irrealtà. Dalla culla alla bara, da Stonehenge agli Indiani d’America e non, dalle metropoli industriali ai sobborghi del terzo mondo. Nelle religioni e nelle religiosità, nei riti e nei rituali. Ed anche un viaggio nella storia della musica e del cinema.
I mezzi di viaggio sono di volta in volta in un crescendo vorticoso l’alcool, l’LSD e il Peyote.

 

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Rebetiko e censura

smyrna_1922Il clima politico in Grecia, nei decenni successivi al 1922 si caratterizzò per una notevole instabilità. Il tentativo – fallito – della nazione di annettere al proprio territorio le zone della Turchia abitate da greci (la guerra Greco-Turca) portò ad un enorme afflusso di rifugiati verso la madrepatria; tutti con problemi d’alloggio e di lavoro oltre che d’interazione con gli abitanti dei territori d’adozione. Nel giro di pochi anni un milione e mezzo d’immigrati dovette integrarsi con i sei milioni d’abitanti della Grecia; ad Atene, nel 1928 su ottocentomila abitanti, trecentomila erano ex sfollati. In questa situazione di forti tensioni sociali e di scarso sviluppo economico inevitabilmente la repressione si fece più attiva e nel 1929  il governo Venizelos introdusse la “special illegal act” “riguardante le misure di sicurezza per le istituzioni sociali e la protezione della libertà”. La legge, finalizzata a contrastare comunisti, anarchici e sindacalisti, prescriveva almeno sei mesi di reclusione per chiunque “cercasse di applicare le idee che hanno come obiettivo evidente il rovesciamento violento dell’attuale sistema sociale, o che agisse per propagandare la loro applicazione …” La repressione s’intensificò nel decennio successivo quando la democrazia, nel 1936,  fu rovesciata e trasformata in una dittatura fascista guidata dal generale Ioannis Metaxas; un regime che sopravvisse fino alla seconda guerra mondiale.

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Ioannis Metaxas

In questo clima di intenso nazionalismo e di crisi, non c’è da stupirsi che le evidenti influenze straniere del rebetiko alimentate dai profughi provenienti dalla Turchia  fossero visti con ostilità.
La solida borghesia conservatrice correlava facilmente i profughi e le altre parti non integrate della società, sia con le droghe che con la musica orientaleggiante . ” Già dal 19° secolo e’era sempre stata una critica sporadica della stampa contro la musica “orientale”, ma è soprattutto dopo l’afflusso dei profughi provenienti dall’Asia Minore, che l’antipatia delle istituzioni, tendenzialmente filo occidentali, divenne sempre più pronunciata. Fino a quando nel 1936 sul rebetiko, con i suoi versi sull’hashish, il carcere, le puttane e il buzuki dai suoni orientali, si abbatte la censura governativa: “Prima d’ogni attività di registrazione, deve essere presentata una domanda di permesso di registrazione alla Direzione del ministero per l’elevazione del Popolo, corredata da copie dei versi e degli spartiti musicali dei brani da registrare”.

Questo è stato l’inizio di una nuova era per il rebetiko. Per le persone di quel mondo è stato una cosa seria e grave. E in effetti, tutta la scena della vita musicale greca cambiò, come fece, naturalmente, per ogni altro aspetto. Tutti gli artisti affermati del tempo dovettero rispettare la legge e il risultato fu che tutte le canzoni che toccavano importanti problemi sociali o di altro genere scomparvero. Naturalmente, erano esattamente questo tipo di canzoni che avevano dato al rebetiko il suo stile. Da quel momento in poi ci fu spazio solo per innocue canzoni d’amore,  di “gioia” o di società ideali senza problemi per nessuno.

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La nostra casa è il mondo intero

Dopo millenni di orrore, schiavitù e distruzione patriarcale, la civiltà del patriarcato tecnologico attualmente capitalista non è mai stata tanto globalmente diffusa e distruttiva, non è mai stata tanto avanzata e tanto in crisi da innescare una crisi sociale ed ecologica tanto acuta e globale. Non solo per questa ragione la donna, il mondo femminile, è la guida naturale e necessaria di un’autentica lotta rivoluzionaria per il diritto naturale alla vita, alla libertà, all’eguaglianza, è la guida naturale e necessaria per la riconquista e il mantenimento della continuità della vita mediante una lotta e un’esistenza comunitaria e ugualitaria fra i generi. È la guida e la sentinella naturale della vita e lotta social rivoluzionaria contro ogni dominio, sfruttamento e distruzione non solo per il necessario superamento dei millenni di deriva dell’umanità e della vita nella civiltà patriarcale, ma prima di tutto per la sua naturale competenza e saggezza sia profondamente peculiare sia più estesa nella riproduzione, cura e continuità della vita e della sopravvivenza.
Senza rivoluzione sociale non è condivisione solidale, eguaglianza e rispetto delle peculiarità fra i generi. Non c’è rivoluzione sociale contro ogni dominio e sfruttamento, senza le donne, le bambine e i bambini, senza la naturale guida femminile. Senza guida femminile non ci sarà la riunione delle forze dei generi per la distruzione del patriarcato, il dominio della civiltà patriarcale tecnologica e capitalista, la sua mostruosa progressione nella distruzione della vita e della nostra casa continueranno.
E la nostra casa è il mondo intero, nel senso più immediato e profondo.
(Marco Camenisch Regensdorf 6 marzo 2005)

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Votate Provo per avere bel tempo

35Il 1 giugno 1964 ad Amsterdam si svolgono le elezioni per rinnovare il consiglio comunale della città ed alcuni Provo decidono di presentarsi alle elezioni. La scelta non avviene in maniera tranquilla, come anarchici molti la ritengono una bestemmia, altri si oppongono perché la cosa declasserebbe Provo da movimento di strada a forza politica istituzionale.

“Non può venir fuori nulla di buono dal consiglio comunale. L‘intera faccenda è priva di senso. La democrazia è solo un mucchio di scartoffie, una dittatura semi-fascista a cui bisogna opporsi” (Rob Stolk).

L’assemblea che decide per la partecipazione non conta più di quaranta persone. Le motivazioni per un passo così pericoloso sono “vedere l’effetto che fa”, controllare i controllori e cercare di togliersi per un po’ il fiato sul collo della polizia. Pur permanendo i dissensi, la libertà di scelta come sempre è totale, ognuno fa quello che vuole, ma alla fine la possibilità di partecipare ad una nuova avventura spinge molti a collaborare alla lista. La creatività si scatena, Amsterdam viene tappezzata dal numero 12, quello della lista Provo.

I “manifesti” propagandistici sono assolutamente geniali, i più inverosimili esempi di pubblicità elettorale della storia: enormi collages, finestre istoriate sui canali, reggipetto dipinti, decorazioni natalizie, lenzuola optical, pennelli da barba incollati sui muri, sculture fluorescenti e pupazzi colorati, tutti col loro numero 12 in bella vista.

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Simon Vinkenoog

Su un volantino o appare una Poesia Elettorale scritta per l’occasione da Simon Vinkenoog:

Sapete cosa siete, vermi?
Non siete altro che un volgare pezzo di carne da voto
tranquillamente avvinghiato alla fatale disciplina
del partito politico del vostro paparino,
mentre loro si assicurano
che affondiate sempre di più nella merda,
sempre più privi di spazio, sempre più incompetenti, sempre più subordinati, sempre più compressi, ancora più stupidi di quanto siate già in partenza. Perlomeno più stupidi di quanto vi considerino loro.
Non potete neanche respirare la vostra aria!
Dovete osservare le loro leggi antiquate!
Non potete neanche ballare per le strade! Giocare, scherzare, amare, fare poesia, tutto è vietato!
Cosa hanno fatto ai suonatori ambulanti? Ai suonatori di fisarmonica?
Ai giocolieri? Ai pagliacci? Ai musicisti? Ai madonnari?
Li hanno cacciati e perseguitati nel nome del dio pagano del Traffico.
Non potete neanche essere voi stessi, loro vi dicono come dovete essere; non potete neanche starvene a casa vostra nel vostro fottuto angolino, vi ringhiano addosso o vi sbattono giù la porta.
Bau Bau Bau Abbaia l’Autorità Pubblica.
Attenti al cane che ha il potere.
Attenti alla morte con l’uniforme nera.
Manifestate la vostra libertà.
Fate vedere che non ve ne frega un cazzo dei loro stivali.
Non si può comprare la vita.
Ridete addosso al loro potere: votate Provo!
Idioti, è l’occasione buona per salvarvi la vita,
l’unico modo per far sì che i giovani possano dire la loro,
la prima volta che potrete essere voi stessi
(e non degli automi votanti,
degli schiavi di qualcun’altro,
dei subordinati di chicchessia,
dei nemici dell’uomo)!!!

Votate Provo lista 12 per un consiglio comunale di Amsterdam rinnovato, un consiglio comunale con 13 Vecchi e Giovani Saggi!
Cercate di pensare oltre il vostro naso! Votate per il futuro!
PROVO lista 12.

(Naturalmente il voto di una persona cosciente vale il doppio). (Matteo Guarnaccia)

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Malcolm Lowry

Malcolm Lowry nasce in Inghilterra nel 1909.
Studi universitari a Cambridge. Nel 1927 si imbarca come mozzo per 6 mesi su una nave diretta in estremo oriente. Negli anni successivi soggiorna in Germania, Norvegia, Francia e Spagna dove incontra la sua prima moglie Jan Gabrial.
Nel 1933 pubblica il suo primo romanzo Ultramarina. La sua abitudine all’alcool lo porta nel 1935 ad essere ricoverato per 10 giorni in un ospedale psichiatrico di New York, probabilmente su richiesta della moglie sempre più esasperata del suo alcolismo. Questa esperienza gli ispira Caustico lunare che inizia a scrivere nel 1935. Nel 1936 è a Cuernavaca in Messico dove comincia a pensare e realizzare il suo romanzo più famoso, Sotto il vulcano.
Nel 1937 la moglie lo abbandona definitivamente. Lowry lascia il Messico l’anno dopo trasferendosi negli Stati Uniti. Nel 1939 conosce Margerie Bonner con cui inizia un sodalizio che durerà fino alla morte. Si trasferisce in Canada a Vancouver continuando a lavorare alle ulteriori stesure di Sotto il vulcano. Con Margerie si costruisce una casa in legno in riva all’oceano, a Dollarton. Vivranno lì per 14 anni fino all’incendio del 1954 che distrugge la loro dimora. Questo è il periodo più felice della vita di Lowry. Nel 1947 viene pubblicato Sotto il vulcano. Nel 1955 torna in Inghilterra in uno stato di profonda prostrazione; a Londra è ricoverato in ospedale dove subisce un trattamento psichiatrico. Continua a scrivere racconti e poesie, oltre a romanzi iniziati negli anni canadesi che restano però incompiuti a causa di ripetuti ripensamenti e alla precarietà del suo stato psicofisico (tra questi due titoli importanti usciti postumi: Buio come la tomba dove giace il mio amico e Il traghetto per Gabriola).
Muore il 27 giugno del 1957. Sfortunata circostanza o deliberato suicidio.
Nel teatro sonoro COME ORDINI URLATI IN UNA TEMPESTA DI VENTO, il buiofuori mette in luce tre elementi narrativi; una voce narrante, non priva di sarcasmo, che ci racconta il peregrinare del signor Rimorso/Malcom Lowry da un ospedale psichiatrico di New York alle bettole del Messico dove perdersi nel mescal poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale; la voce del signor Rimorso, una voce spesso impaurita ed attonita; e la voce multiforme delle sue poesie, come se si trattasse di fantasmi che riprendono vita.

Se vuoi saperne di più:

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La galera degli ignavi

prison-singleQuanti di voi non si sono mai voltati indietro? Quanti hanno acquistato un paio di paraocchi, e se li sono messi, solo per evitare di guardarsi intorno e di dover fare delle giuste considerazioni che incolperebbero loro per primi?
Quanti vorrebbero gridare le proprie verità represse da luridi ricatti? Quando sarà, quando?! Quanti vigliacchi esistono, che non sprecano mai una parola di troppo? Quanti hanno acquistato da un rigattiere un paravento antico, per potersi nascondere e poter scrivere, senza che nessuno lì veda, mentre tutti sanno e tacciono? Sono un simpatico, godo di tanti favori, simulo, inganno, e in cambio ricevo lodi, senza fatica. Che me ne frega, che me ne frega se gli altri ricevono cazzi in quantità nel culo’?
Ecco come non ci vuole molto per spiegarsi perché tanti non sanno e tanti non vogliono sapere che se si diventa pazzi nel posto dove la società manda a rìmarginare gli emarginati, la colpa è proprio di questa e di tutti quelli che reggono questa pazza istituzione. Credetemi, proprio quando si è in quei posti e in quello stato, proprio allora si capisce di più e sempre meglio; ed è per questo che ci si chiude dentro e si cade sempre, sempre, sempre più in giù fino nel più profondo baratro dellinfelicità che, fortunatamente, non tutti conoscono. Ditemi di grazia, voi di fuori e molti di voi che si atteggiano a gran saputi: È dunque questa la pazzia? Siamo davvero pazzi da legare?
No, non è affatto pazzia, ma un semplice doveroso ed incontenibile disgusto verso coloro che li circondano, disgusto che noi per primi dovremmo provare. (Mimmo Garribba)

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Supermercati come fabbriche

Il capitalismo ha imparato a installarsi nella crisi e a dimostrare maggiore capacità di manovra dei suoi nemici.
La visione del futuro proletario era la società trasformata in fabbrica nulla di più diverso dalla realtà in cui la società intera, è un supermercato.
La differenza sta nel fatto che nel periodo di dominio reale del capitale i centri commerciali hanno sostituito le fabbriche e perciò il consumo prevale sul lavoro. Mentre le classi pericolose diventavano masse di docili salariati, oggetti passivi del capitale, il capitalismo ha approfondito il suo dominio allentando i legami che esse avevano con il mondo del lavoro. A modo suo, il capitalismo moderno è anche contro il lavoro. Nella fase precedente di dominio formale del capitale, si lavorava per consumare; in quella attuale, bisogna consumare senza sosta affinché possa esistere il lavoro. La lotta anti-industriale cerca di spezzare questo circolo infernale, per cui parte della negazione tanto del lavoro quanto del consumo, cosa che la porta a mettere in discussione l’esistenza di questi luoghi chiamati a torto città, dove queste attività sono preponderanti. Condanna questi agglomerati amorfi popolati da masse solitarie in nome del principio andato perduto che presiedette alla loro fondazione: l’agorà. È la dialettica lavoro/consumo a caratterizzare le città al tempo stesso come imprese, mercati e fabbriche globali. Pertanto lo spazio urbano non è più un luogo pubblico per la discussione, l’autogoverno, il gioco o la festa, e la sua ricostruzione si conforma alle scelte più spettacolari e più legate allo sviluppo. Dunque la critica anti-industiale è una critica dell’urbanesimo; la resistenza all’urbanizzazione è per antonomasia una difesa del territorio. (Miguel Amoros)

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Flaneur o dello pscicogeografo

flaneurSecondo Walter Benjamin attraverso una immersione percettiva e sensoriale-emozionale nei percorsi cittadini, il “camminatore lento e vagabondo” ( il flaneur) è testimone di un incontro tra pensiero e città che porta a più intima conoscenza delle diverse dimensioni urbane. L’arte della “camminata di quartiere” è diventata nel tempo una tecnica ricorrente degli etno-antropologi e degli urban planners.

Le metropoli moderne sono delle reti dove perdersi non solo è facile, ma anche affascinante. Dimentichi per un attimo del nostro percorso pedonale quotidiano, immaginiamo una giornata in cui, invece di proseguire verso l’abituale luogo di lavoro, scendiamo ad una fermata a caso, e iniziamo a vagabondare per la città. Iniziamo a perderci. Camminare non per arrivare a destinazione, ma per il gusto di farlo, per il gusto di scoprire angoli mai visti. La letteratura, di questi “vagabondi urbani”, ne ha fatto una figura tipica: il flaneur.
Il flaneur compare per la prima volta a metà del secolo XIX a Parigi. E’ il passante, una sorta di incrocio tra il bohème e il vagabondo, che cammina senza meta per le strade della città, fermandosi ogni tanto a guardare. Nel suo ruolo di osservatore il flaneur stabilisce una relazione particolare con la città, abitandola come se fosse la propria casa. Il suo percorso non coincide con il resto della moltitudine; quello che per il passante è un cammino predeterminato – il percorso del mercato, direbbe Walter Benjamin – per lui è un labirinto che cambia forma ad ogni passo: si lascia guidare dal colore di una facciata, l’inquietante uniformità di alcune finestre, lo sguardo di una mulatta. Baudelaire vede nel flaneur l’archetipo dell’artista moderno (che doveva avere “qualcosa del flaneur, qualcosa del dandy e qualcosa del bambino”), l’unico capace di rappresentare la liquidità della vita moderna.
Nel novecento l’arte del passeggio praticata dal flaneur è sostituita dalla pratica surrealista della deambulazione, che consisteva nel passare da un contesto urbano all’altro, vagando per la città in cerca di associazioni mentali stimolate dal montaggio psichico dei frammenti urbani assaggiati.
Al Surrealismo fa eco negli anni ’50 il Situazionismo, che con Guy Debord riprende la pratica del vagabondaggio urbano chiamandolo deriva psicogeografica. La Psicogeografia è un gioco e allo stesso tempo un metodo efficace per determinare le forme più adatte di decostruzione di una particolare zona metropolitana. Così la definisce Debord: “Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che SAPETE, ma in base a ciò che VEDETE intorno. Dovete essere STRANIATI e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’ARCHITETTURA e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.”
Se vogliamo continuare a giocare, a rintracciare le varie reincarnazioni moderne del mito del flaneur nella nostra societa’, possiamo chiudere il cerchio con i writer metropolitani, quei fantasmi che attraversano di notte le nostre metropoli lasciando una traccia grafica del proprio passaggio, e a volte anche sottili messaggi. Il senso ultimo di tutte queste forme di nomadismo urbano in fondo è quello di attribuire a luoghi asettici della metropoli altri significati, cercare di collegare gli spazi della geografia urbana a qualche significato che non sia soltanto funzionale, ma anche sociale.

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Ancora uno sforzo se volete essere situazionisti

Il lavoro collettivo che ci proponiamo è la creazione di un nuovo teatro culturale di operazioni, che proponiamo per ipotesi al livello di un’eventuale costruzione generale degli ambienti con una preparazione, in qualche circostanza, dei termini della dialettica scenario-comportamento. Ci basiamo sull’evidente costatazione di un logorio delle forme moderne dell’arte e della scrittura, e l’analisi di questo movimento continuo ci porta alla conclusione che il superamento dell’insieme significante di fatti culturali in cui vediamo uno stato di decomposizione giunto al suo stadio storico estremo, deve essere ricercato con un’organizzazione superiore dei mezzi di azione della nostra epoca nella cultura. Dobbiamo cioè prevedere e sperimentare l’al di là dell’attuale atomizzazione delle arti tradizionali consunte, non per ritornare a un qualsiasi insieme coerente, corrispondente a una nuova condizione del mondo di cui la più conseguente affermazione sarà l’urbanismo e la vita quotidiana di una società in formazione. Vediamo chiaramente che lo sviluppo di questo compito presuppone una rivoluzione che non è ancora compiuta, e che qualsiasi ricerca è soggetta a restrizioni dalle contraddizioni del presente. L’Internazionale situazionista è costituita nominalmente, ma ciò significa solamente l’inizio di un tentativo di costruire al di là della decomposizione, in cui siamo interamente inclusi, come tutti. Prendere coscienza delle nostre possibilità reali richiede insieme il riconoscimento del carattere presituazionista, nel senso stretto del termine, di tutto ciò che possiamo intraprendere, e la rottura senza tentennamenti con la divisione del lavoro artistico.
(Poltach bollettino di informazione del gruppo francese dell’Internazionale Lettrista n° 29 05 novembre 1957)

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Rebetiko: Markos Vamvakaris

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Marcos Vamvakaris: Atakti (1968)

Markos Vamvakaris (1905.1972) fu uno dei massimi musicisti del “rebetiko”, e autentico “rebetis” fu lui stesso, non per scelta snobistica, ma per le più crude necessità della vita.
Nacque nell’isola egea di Siro ed era un “frangosirianòs”, cioè un cattolico di Siro, e “Frangos” fu a lungo soprannominato. La sua famiglia, di contadini, era molto numerosa e molto povera, ma vocata alla musica. Il padre suonava la “pipiza”, una specie di flauto di legno dal suono acuto, e il nonno componeva canzoni. Presto Markos cominciò ad accompagnare il padre con il tamburo detto daùli nelle feste di paese. Assorbiva come una spugna le pochissime nozioni scolastiche che le condizioni economiche della famiglia gli permettevano, e così non rimase semianalfabeta, ma acquisì una capacità di scrittura efficace , riscontrabile nella vivacissima autobiografia, che è anche un documento impareggiabile della storia del rebetiko. Dodicenne partì per il Pireo, dove poi lo seguì la famiglia, e dovette arrangiarsi con i più umili mestieri: scaricatore di porto, manovale nei depositi di carbone, lustrascarpe, strillone, operaio tessile, e, verso il 1925, macellatore di bestiame al mattatoio pubblico. Lasciò quest’ ultima attività, anzi mandò al diavolo il suo principale, per non eseguire la soppressione di un vitellino che aveva salvato e allevato. Nello stesso periodo si legò a una prostituta, chiamata Zinguala, di cui era pazzamente innamorato, imparò con impressionante rapidità a suonare ( a meraviglia) il buzuki e cominciò a scrivere canzoni, versi e musica. 
Formò con altri musicisti dei suoi stessi bassifondi, Yorgos Batis, Stratos Payoumgìs e Anestis Deliàs, il primo gruppo musicale di rebetico , “Η Θρυλικη Τετρας του Πειρεα” (Il rinomato quartetto del Pireo) e nel 1933 eseguì la prima incisione assoluta di un pezzo rebetico, il “Καραντουζενι”, cui prestò anche la propria voce, non certo perfetta.
Nell’estate del 1935 gli capita di fare, con Batis, un fratellino e il pianista Robertakis, una rimpatriata a Siro, la prima dopo vent’anni, per accontentare i compaesani diventati orgogliosi di lui. E lì una sera si esibisce in una taverna. A lui, che quando suonava e cantava non osava staccare mai lo sguardo dalle corde e dal plettro del suo buzuki, capita invece di dare un’occhiata al pubblico, e questo gesto casuale gli rivela la bella ragazza dagli occhi neri – che gli rimarrà ignota – per la quale, ammaliato, scrive la notte seguente la canzone simbolo del rebetiko, quella che si sarebbe per sempre legata al suo nome: “Φραγγοσυριανη”, (La ragazza/cattolica di Siro”). Una canzone che, eseguita 25 anni più tardi da Grigoris Bithikotsis avrebbe simboleggiato non solo il rebetiko, ma in certa misura la Grecia stessa.
Si sposa finalmente con Zinguala, che lo costringe a un infelice rapporto di sola amicizia, cosicché dopo un un po’ i due approdano al divorzio. Per evitare di soddisfare le pretese economiche che la Zinguala non si stanca di avanzare, Vamvakaris prende l’abitudine di scrivere canzoni sotto pseudonimo o addirittura con il nome di altri colleghi, anche se la loro materia spiccatamente autobiografica le rende facilmente attribuibili. Sulla vicenda con la sua ex “signora” scrive una canzone: “Il divorzio”.
All’avvento di Metaxas in Grecia viene anche introdotta la censura e Markos, diversamente dalla maggioranza dei rebetes, adatta i suoi versi, anche perché il pubblico ormai lo reclama, come quella volta che a Salonicco si radunano in 50.000 per ascoltarlo. E alla città di Salonicco infatti dedica una canzone “patriottica”, “Il 1912”, per ricordare la data della sua liberazione dagli Ottomani. Al Pireo, dove pure aveva vissuto quasi tutto il suo tempo e aveva raggiunto la notorietà, non aveva ancora mai dedicato un verso. Durante la guerra contro gli Italiani scrive canzoni per esaltare la gloriosa difesa della Patria (Salute, soldatini miei, Il sogno di Benito…). Nel 1942 si sposa con una Evanghelìa, dalla quale avrà ben cinque figli.
Durante l’occupazione tedesca perdono la vita numerosi altri grandi del rebetiko, che non si erano adattati alle censure: Panayotis Toundas, Kostas Skarvelis, Yovàn Tzaoùs, Vanghelis Papazoglou e soprattutto Anestis Deliàs e il bravissimo cantante Yorgos Kàvouras, al cui nome Markos intitolerà una canzone. Personalmente se la cava, avendo capacità di adattamento. Ma, persi quei compagni, giunta la liberazione e superata anche la guerra civile, Vamvakaris non ha più “spalle” per continuare la sua musica come prima dei conflitti; mentre, negli anni Cinquanta, una parte del pubblico sembra abbandonare il gusto della musica popolare dal vivo, sedotto dalle novità occidentali e da quanto va offrendo l’industria discografica; e mentre la parte che rimane fedele si indirizza ad altri beniamini come Apostolos Kaldaras , che, pur cresciuti sulle orme di Vamvakaris, tentano nuove vie e, con qualche ingratitudine, non si chinano a “raccogliere” e a rilanciare. il maestro. E’ un momento di grave difficoltà psicologica ed economica; e anche la salute non sorregge il “vecchio” musicista, colpito dall’ artrite proprio alle dita con cui faceva magie con il buzuki. Non bastasse, gli arrivano anche i fulmini della Chiesa Cattolica per il secondo matrimonio celebrato nel rito ortodosso. Ai fulmini clericali, Vamvakaris replica con l’apostasia. All’artrite, provvede con le acque termali di Ikaria. Alla depressione per l’oblio che lo circonda, reagisce con il ritorno a Siros, dove i compaesani non l’hanno dimenticato e vanno ben volentieri ad ascoltarlo. E così ancora una volta il tenace e adattabile Markos si rialza. Con l’aiuto dell’altro patriarca del rebetiko, Vassilis Tsitsanis si mette a produrre per la Columbia, che rilancia con le voci nuove di Bitsikotsis, Katy Gray, Anghela Greka il suo vecchio repertorio, rispolverando un successo che gli procura grande soddisfazione, ma ben poco denaro. Muore a 66 anni per una malattia renale. I tre figli superstiti si procurano indebitandosi i mezzi per fargli il funerale. (ricavato da Wikipedia in Greco: http://el.wikipedia.org/wiki/Μ;άρκος_Βαμβακάρης ).
Tratto da: http://www.antiwarsongs.org/

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