Il rapinatore gentile

Horst Fantazzini, giovane operaio alla fine degli anni sessanta mise in pratica le considerazioni di Bertold Brecht “è più criminale fondare una banca che svaligiarla”. Ma, contrariamente alle cronache rosa-nere che lo hanno reso famoso non fu mai un uomo della “mala”. Agiva sempre da solo o con pochi amici. Rispondeva sempre in prima persona del suo operato, non incitava altri ad emularne le gesta, non usava armi da fuoco e prendeva ciò che riteneva “strettamente necessario”.
Horst era diventato famoso come “il rapinatore gentile”: usava pistole giocattolo, chiedeva scusa agli impiegati, mandava mazzi di fiori alle cassiere più emotive, desisteva se trovava qualcuno disposto a rischiare la pelle per i soldi di un banchiere, si allontanava più spesso in autobus che in macchina.
La sua lunga detenzione é iniziata nel 1973 dopo il suo tentativo di evasione dal carcere di Fossano culminato con il suo linciaggio da parte dei carabinieri del generale Dalla Chiesa.

A Fossano, nel luglio ’73, impugnando una rivoltella che era riuscito a far entrare nascosta in una torta, sequestrò due agenti, chiese un’auto e cento milioni: “Se mi inseguite ucciderò i secondini”. La polizia finse di cedere. Appena Horst, facendosi scudo delle guardie, comparve sul portone del carcere, un cane lupo gli si lanciò addosso. Il “rapinatore gentile” si distrasse, dai tetti i tiratori scelti fecero fuoco. Ferito al braccio e al petto, Fantazzini s’accasciò, riuscendo a premere il grilletto e ferendo gli agenti. A terra, fu crivellato da una raffica di mitra esplosa da un poliziotto. Miracolosamente sopravvisse.

La fallita evasione gli costò una condanna ad altri 22 anni. Aveva conosciuto le galere europee già diverse volte negli anni precedenti. Ma ha fatto 16 anni di carcere continuativo e senza permessi, fatto talmente raro da averne fatto un caso giudiziario.

“È indubbio che io mi sia sempre definito anarchico e come tale mi sono rivendicato e mi rivendico processualmente. Ma questo non basta. L’essere anarchico comporta la capacità di conciliare il proprio ideale con la propria vita e questo non e stato sempre il mio caso, specialmente quand’ero molto giovane. Mi definisco un anarchico individualista, un ribelle cosciente che spesso ha agito incoscientemente. All’età di quattordici anni ero già iscritto all’USI, che non so se ancora esiste. Nel 1965 ero presente al convegno preparatorio del congresso che si svolse a Bologna e tra i partecipanti c’era Armando Borghi, che tra penose polemiche fu estromesso dalla direzione d’Umanità Nova. In quel periodo, con altri giovani, stavo per dare vita ad una Federazione Anarchica Giovanile, ma poi la mia vita si è quasi interamente annodata in carcere. …”

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Dell’impudicizia fin negli alimenti – Joyce Mansour

Secondo Arthur Rimbaud – uno dei numi tutelari del surrealismo -, la “donna poeta”, liberata dalle costrizioni sociali, avrebbe trovato “cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose”. Ebbene, con la poesia di Joyce Mansour, tale premonizione ha trovato certamente una delle sue realizzazioni più belle, imperiose ed emozionanti (Carmine Mangone)

Abele
L’uomo dal petto gravato
Il primo morto
Il più amato
Colui che seminò la polvere
Nella tomba di suo padre crisalide
Abele
Fuoco zuccherato dal fallo nella bocca stessa della tempesta
Colui che alitò la sua vita nella gola
Della notte bituminosa
Fratello
Tu sei colui che inventò l’ombra prima di conoscere la luce
Uomo dai seni pesanti e dal pallido sperma ghiacciato
Lucifero
Colui che morì vergine
Sognando tutte le guerre
Abele dai denti sonori
E dall’urina che sa di trementina
La tua voce da Venere calli pigia
Le tue esagerazioni intenzionali
I tuoi godimenti fittizi
Un giorno mollerai il seno
Che stilla così dolcemente
La morte
Nella gola degli stranieri
Strapperai gli occhi pietosi
Dalla tomba dove impallidiscono
Nel rollio
Del ricordo
Col tuo pugno chiuso con la lingua se occorre
Sigillerai l’ano della terra fangosa
Cloaca spalancata e dai singulti di cratere
Tu verrai
E la morte alla fine mangerà da sola
(Estratto da: Faire signe au machiniste)

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Due o tre cose sulla civiltà

Cosa possiamo fare contro l’ecatombe rappresentata da quella marea di petrolio che sta fuoriuscendo dalle piattaforme della BP nel Golfo del Messico e che sta trasformando il mare in un mortorio? Cosa possiamo fare contro lo scoppio di un reattore nucleare (ogni anno sono centinaia gli incidenti nucleari in tutto il mondo)? Cosa possiamo fare contro il fatto che l’economia contempli l’esistenza di cicliche crisi monetarie? Nulla. Abbiamo trasformato un mondo a misura di Natura in un mondo alieno a noi stessi e alla Natura, e quello che possiamo fare ora e subirne le conseguenze; oppure cercare di riportare il mondo a misura di Natura. Questo ‘ l’insegnamento che possiamo trarre dalla vita primitiva. Riportare il mondo a misura di Natura e la nostra vita nelle nostre mani (autonomia).
Ma per fare ciò occorre comprendere che siamo prigionieri, e che è la civiltà la causa della nostra prigionia. Non è l’inquinamento; non è la mafia; non è un singolo despota autoritario che pretende di governare il mondo; non è una moneta troppo debole o troppo forte. Questi sono solo i sintomi putrescenti del mondo civilizzato. A monte di questi sintomi c’è una sola causa: la Civiltà. Siamo prigionieri della civiltà, dei suoi valori deteriori, dei suoi processi obbligatori di arruolamento ma anche delle sue esche, dei suoi miti, delle sue illusioni, delle sue dipendenze. È la civiltà che ci tiene alla catena costringendoci sopravvivere nei suoi laboratori spettacolarizzati, senza inferiate visibili (città, luoghi di lavoro, parchi di divertimento, realtà virtuali …). È la civiltà che ci tiene alla catena costringendoci alle dipendenze dei suoi ritrovati e dei suoi precetti (macchine, denaro, politica, divisione del lavoro, antropocentrismo, cultura simbolica …). È la civiltà che ci tiene alla catena insinuandoci la paura della vita libera, selvatica, non addomesticata. È la civiltà che dobbiamo fermare prima possibile! Senza questa consapevolezza ogni prospettiva di liberazione umana, animale e della Terra è destinata a rimanere soltanto una possibilità parziale e senza soluzione

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Yona Friedman: un’utopia realizzata o dell’autopianificazione del vivere collettivo

Questo fumetto è stato realizzato da Yona Friedman per la mostra Une utopie realisée tenutasi al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris nel 1975

 

Yona Friedman completo

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Queer, ovvero strano

Queer significa, letteralmente strano, eccentrico, ma è utilizzato nello slang col significato denigratorio di frocio.
Il movimento LGT ha assunto questo termine con l’intento di rovesciarne il significato negativo e rivendicare la propria alterità rispetto alle norme dominanti, soprattutto per quanto riguarda le identità sessuali e di genere.
Anche in Italia, in particolare negli anni ’70, la parte più radicale del movimento omosessuale si appropriò gayamente del termine “frocio”, non solo nel linguaggio scherzoso (spesso usato al femminile “la frocia” tra uomini gay), ma anche nelle produzioni radicali. Il terzo numero del giornale Dalle cantine ideato da Corrado Levi si intitolava Dalle cantine frocie (giugno 1977) e raccoglieva, fra altri, anche interventi di Mario Mieli.
La gaya frocieria sarebbe poi andata scomparendo, nei decenni successivi, col prevalere della corrente riformista e “cittadinista” all’interno del movimento omosessuale. L’esuberanza dei corpi e le pratiche di liberazione vennero così, soppiantate dalla richiesta allo Stato, patriarcale e omofobo, di riconoscere pari diritti a lesbiche e gay e perfino di garantirne l’incolumità. Questa corrente mainstream fa spesso leva su posizioni perbeniste, per lo meno di facciata. Fino ad arrivare, in anni recenti, a cercare di impedire alle trans di sfilare ai pride in abiti succinti o negare secoli di pratica di battuage e di sesso libero, con partner occasionali, per rappresentare se stessi/e come individui “normali”, che si uniscono per costituire famiglie “normali” e dunque aventi gli stessi diritti della famiglia eterosessuale (benedetta da chiesa e capitale).
“Normale corrisponde a ciò che è utile al filosofo borghese. Anormale, diverso, tutto ciò che consciamente o inconsciamente lo minaccia nell’utile”, scriveva nel ’77 Luciano Parinetto. Chiedere di essere inclusi/e nel sistema delle norme, significa allinearsi, dunque, all’utilità/normalità borghese, anziché rivendicare orgogliosamente la propria alterità. Ma non sarebbe meglio un gayo no future che disarticoli, al contempo, il futurismo riproduttivo – cioè la coazione a riprodursi perché ci sia una continuità genealogica – e l’ordine sociale?

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anarcoqueer

 

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La donna resta sempre il proletario del maschio

freedomsignLa rivoluzione sociale che il grado di decomposizione della società capitalista richiede, è possibile solo con la ricostituzione di un tessuto sociale costruito attorno alla centralità di un femminile totalmente da reinventare poiché la meccanica folle dell’economicismo l’ha completamente rimosso.
Tra gli ultimi rantoli di una misoginia trionfante su cui è fondata la cultura patriarcale, il capitalismo chiude il ciclo delle civiltà dell’alienazione in quanto economia assoluta,
dominio della merce sull’umano proletarizzato in cui la donna (di casa, in carriera o femminista) resta sempre il proletario del maschio poiché l’elemento femminile di ciascuno rimane prigioniero della supremazia accordata al soggetto virile.
Anche di una donna che sa cavarsela si dice, del resto, che ha le palle, tesoro patetico messo fieramente in resta da chi porta i pantaloni e che consiste in una competitività senza limite e in un’ aggressività predatrice. Nel mondo gerarchico del dio denaro, un mitico fallo si erge sempre come lo scettro di un potere priapico orgasticamente impotente.
I’autocostruzione di se, del proprio territorio psicogeografico di vita sfociante in un nuovo mondo, è l’unico giardino che ha senso coltivare, l’unica casa che vale la pena costruire, insieme ma ognuno a suo modo, come un dono per se stessi e per tutti quelli che si amano.
Un uomo libero agisce per il piacere che attraverso la sua azione dona e riceve, incurante di ogni nuova morale che tenda a far rinascere le gerarchie sociali sulla base di un qualunque odioso senso di colpa, di una vergognosa debolezza, di un’int0llerabile inferiorità, di un dover essere interiorizzato.

Nella notte della laicità tutti i preti sono neri.
Basta con i signori dello sfruttamento economico ma basta anche con i signori della coscienza separata!
Basta con chi ti ruba la vita riducendola al ricatto della sopravvivenza; ma basta anche con chi vuole capitalizzare la rabbia che esplode e la coscienza che emerge per diventarne il capo e alleviare così le sue frustrazioni !
Oltre speranza e disperazione, carota e bastone dell’addomesticamento, la costruzione di un altro modo di vivere insieme, di un altro modo di produzione e di un’altra maniera di godere dell’esistenza, denuncia con la sua critica pratica il conformismo dei servitori volontari, ma anche ogni contestazione estremista, edipica o   isterica, di un mondo che si odia rimanendone segretamente i figli insoddisfatti e frustrati; un mondo oltre il quale è difficile sognare o desiderare se non la purezza nichilista di un nulla rivoluzionario di cui ci si mmagina, ovviamente, essere gli ultimi protagonisti.

Citando un’ultima volta il buon Meslier con altrettanta ironia che convinzione, mi viene da pensare, in un sussulto di laicità, che l’umanità sarà felice quando avrà impiccato l’ultimo affarista con le trippe dellultimo guru; quando avrà mangiato l’ultima pecorella ignorante, ottimista e arrivista, condita nella salsa piccante dell’ultimo militante rivoluzionario, sprezzante, catastrofista e vendicatlvo.
Allora, finalmente, le ignoranze puntuali si abbevereranno dolcemente all’intelligenza sensibile di una coscienza non addomesticata mentre nel regno senza re di una utogestione generalizzata della vita quotidiana, degli uomini e delle donne faranno a gara amichevolmente, da liberi soggetti, per donare e in conseguenza ricevere il piacere di vivere. (Sergio Ghirardi. Note per l’esplorazione psicogeografica di un nuovo mondo – 2013)

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LETTERA AL PARTITO

Egregio Partito, è perfettamente inutile che insista nel dichiarare, a destra ed a manca che Lei è all’opposizione della destra, della sinistra, del centro, del centro destra, del centro sinistra, della sinistra-sinistra, della destra-destra; Lei conduce solo una politica, quella della collaborazione per la conservazione del “cadreghino”.
Tempo fa quando eravamo sul nascere, Lei si è buttato a capofitto contro di noi. Anche Lei, e soprattutto Lei, aveva la sua da dire: Allora eravamo sozzoni, pezzenti, parassiti, esibizionisti, seminfermi, invertiti, scansafatiche. Tutto questo veniva abbondantemente detto in blu, con il rosso, il bianco, con il nero, con il tricolore, con la falce, con lo scudo, con la fiaccola, con le bandiere, con il sole, con il martello, con la corona. A noi non garbava tutto questo, eppure stavamo zitti zitti, cheti cheti. Ma, a quanto pare, non si può neppure stare zitti. Melonata per molti, botte per tanti lavaggio del cervello per tantissimi. I bassifondi cominciarono a trasmettere alcune pulsazioni al cervello e questo, alle mani. E cominciammo a pensare. A Lei sembrerà strano, ma cominciammo a pensare. E cominciammo, con sua meraviglia, a scrivere; a scrivere sui giubbotti e sulle magliette.
A questo punto, Lei si rese conto che a noi mancava una vera e propria cultura. Una cultura basata sull’esperienza diretta, secondo i nuovi criteri. E ci portò, così, in quelle camere con le inferriate per conoscere prostitute e delinquenti. E così abbiamo imparato. Cominciammo allora ad alzarci dai gradini e a fare passeggiate con cartelli sottobraccio o appesi al collo. Logicamente facevamo tutto questo dopo aver chiesto il suo permesso. Ma Lei, cattivone, non ce lo voleva concedere: per il nostro bene, naturalmente. Noi riconoscenti, ma, come ogni figlio non obbedienti, andammo in giro ugualmente con i nostri bravi manifesti. Lei, da buon padre, ci rinchiuse in castigo senza mangiare, senza pisciare; a qualcuno poi, occorreva il collegio ed allora, Lei previdente, si interessò anche a quei casi. Così quel qualcuno non fu più nostro compagno. Ma Lei, purtroppo per Lei, non si accorgeva di partorire, di volta in volta, altri figli. Ed i figli divennero sempre più numerosi e turbolenti. Lei non ce la faceva più a contenerli ed educarli secondo i suoi schemi. Ora i sozzoni cominciano a sembrare meno sozzoni, ora i pezzenti non sono del tutto pezzenti, ora i parassiti cominciano a non esistere, ora gli esibizionisti sono meno esibizionisti, ora i seminfermi non sembrano poi così tanto ammalati, ora gli invertiti sembrano attirati dal loro sesso primitivo, ora gli scansafatiche cominciano a muoversi. E quando, poi, verrà il tempo di mettere una croce su certe schede che bianche rimarranno, tutti i sozzoni, i pezzenti, i parassiti, gli esibizionisti, i seminfermi, gli invertiti, gli scansafatiche diverranno tutti dei bravi e buoni angioletti. Conclusione: Lei, egregio partito, lo raffiguriamo in un calderone; un calderone smaltato di cacca, pieno di cacca. In pratica vogliamo dire, dato che Lei è duro a capire, che con noi non attacca; Lei fa un gioco, ma non ha trovato i giocatori.
(The Beatnik’s Clan, Monza 1967)

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Urbanismo unitario

Constant New Babylon 5

Constant Nieuwenhuys

L’urbanismo unitario prevedeva un utilizzo del territorio come pratica di resistenza ed opposizione alle strategie di pianificazione dell’urbanismo razionalista considerato colpevole, agli occhi dei situazionisti, di costruire città alienanti per l’individuo e la società. L’urbanismo unitario era un vero e proprio programma di guerriglia, estetica, funzionale e politica, che coinvolgeva e sconvolgeva il tessuto urbano.
Rispetto ad un fare tecnocratico, di manipolazione degli esseri umani come cose, realizzato dalla pianificazione degli urbanisti razionalisti che guardavano e progettavano strategicamente la città “dal di fuori”, i situazionisti lavoravano sulla città tatticamente “dall’interno”.

I situazionisti negavano i valori pratici dell’urbanistica razionalista (gli spazi progettati come pre-determinati all’uso) a favore di una valorizzazione ludica, di libero gioco e di libero utilizzo della città preferendo gli spazi d’uso semi-determinati e informali. Questa valorizzazione portava ad un congiungimento del soggetto con il suo oggetto di valore che dava luogo, a sua volta, ad una valorizzazione utopica degli spazi urbani, ovvero ad una costruzione di una nuova società attraverso l’unione realizzata tra città e abitanti: da qui il termine urbanismo unitario. Tale unione avrebbe dovuto portare ad un cambiamento radicale e irreversibile della loro identità comune. Come diceva un celebre slogan situazionista scritto sui muri di Parigi durante i giorni del Maggio francese: “niente sarebbe stato più come prima”.

Gli studi sul nomadismo e sugli accampamenti degli zingarifurono un preludio fondamentale sia alla nascita stessa dell’Internazionale Situazionista, sia al progetto di New Babylon, la città situazionista progettata da Constant.
New Babylon era per i situazioni la realizzazioni di un nuovo modello di città, la concretizzazione delle loro teorie sull’urbanismo unitario. New Babylon, nelle intenzioni dei situazionisti sarebbe stata una città composta da parti mobili, modulari, ricombinabili. Una sorta di enorme sovrastruttura abitativa, una enorme rete, un rizoma, che avrebbe ricoperto l’intera sfera terrestre con delle megastrutture ludiche. Si trattava, per Costant e per i situazionisti, di creare un labirinto dinamico in perpetua trasformazione.

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CHAPPAQUA

Il protagonista arriva in una città. Si chiama Russel. Viene portato via in macchina da un autista. E’ una continua allucinazione. Entra in una clinica per disintossicarsi. Gli viene fatta una iniezione, poi scappa. Russel va a finire in una bara durante una cerimonia in cui i fedeli entrano in trance. Ma lui si risveglia nella clinica. Parla con uno psicologo. Dice che vuole andare a Chappaqua. Si vede la festa di paese di Chappaqua. Lui è un bambino. Si vedono danze indiane. Belle visioni. Il peyote. Cominciò tutto con quello per Russel. Il peyote gli ha dato fantastiche visioni. Inca e una donna bellissima. Un cervo. Allucinazioni. Allucinazioni di Russel. Le allucinazioni diventano un incubo. Russel diventa Dracula. Si ritorna nella clinica. Russel scappa e va a Parigi. Entra in un bar. Beve. Russel è sempre più ubriaco. Ogni tanto compare William Burroughs. E poi di nuovo musica e danza indiana. Strade dell’India sporche e povere. A Parigi è ubriaco. Entra in un locale jazz. Continua a bere e a ballare. Si ritrova in clinica dove balla con un’infermiera. Ritorna nel locale jazz. Le immagini continuano ad alternarsi velocemente. Passa dall’India dove impara la meditazione. Si ritrova su un cammello e va a fumare hashish insieme a dei santoni. Assiste ad una danza sfrenata di una bellissima donna. Compare una roulette dove lui gioca con altri giocatori. I giocatori si passano una siringa e si iniettano una droga. Ritorna la donna bellissima che ora fa l’amore con Russel. Tutto questo sempre intervallato dal locale jazz e dalla clinica. Fischio di un treno. Russel cade a terra morto, Santoni indiani, Russel che balla con una donna in un bosco. Infine fugge con un elicottero gridando “Addio!”
Chappaqua di Conrad Rooks è riuscito a diventare manifesto del pensiero beat e splendido documento di un’epoca, al di là degli evidenti meriti tecnici. Il film è semi-autobiografico: Rooks mette in scena con allucinata sincerità la sua vita interpretando il protagonista Russel Harwick, un ricco ubriacone strafatto che va in una clinica privata per disintossicarsi da alcol e allucinogeni. L’intera pellicola è un susseguirsi di deliri visionari, il viaggio di un tossicomane in crisi di astinenza dentro se stesso, i suoi timori, i suoi sogni e i suoi ricordi, dove lo spazio e il tempo non esistono più e la realtà si piega alle sue emozioni e ai suoi desideri. Harwick/Rooks, e con lui tanti altri, in quei primi anni ’60, vorrebbe solo raggiungere uno stato di serenità mentale, di un equilibrio tra il suo essere e la società che lo circonda e influenza, una sensazione, un luogo ideale che identifica nel paesino di Chappaqua.
Il film è un viaggio anzi una summa di viaggi, anzi un inseguirsi di viaggi nel viaggio. Nello spazio e nel tempo, nella droga e per uscire dalla droga, nella storia e nella Storia, nella realtà e nell’irrealtà. Dalla culla alla bara, da Stonehenge agli Indiani d’America e non, dalle metropoli industriali ai sobborghi del terzo mondo. Nelle religioni e nelle religiosità, nei riti e nei rituali. Ed anche un viaggio nella storia della musica e del cinema.
I mezzi di viaggio sono di volta in volta in un crescendo vorticoso l’alcool, l’LSD e il Peyote.

 

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Rebetiko e censura

smyrna_1922Il clima politico in Grecia, nei decenni successivi al 1922 si caratterizzò per una notevole instabilità. Il tentativo – fallito – della nazione di annettere al proprio territorio le zone della Turchia abitate da greci (la guerra Greco-Turca) portò ad un enorme afflusso di rifugiati verso la madrepatria; tutti con problemi d’alloggio e di lavoro oltre che d’interazione con gli abitanti dei territori d’adozione. Nel giro di pochi anni un milione e mezzo d’immigrati dovette integrarsi con i sei milioni d’abitanti della Grecia; ad Atene, nel 1928 su ottocentomila abitanti, trecentomila erano ex sfollati. In questa situazione di forti tensioni sociali e di scarso sviluppo economico inevitabilmente la repressione si fece più attiva e nel 1929  il governo Venizelos introdusse la “special illegal act” “riguardante le misure di sicurezza per le istituzioni sociali e la protezione della libertà”. La legge, finalizzata a contrastare comunisti, anarchici e sindacalisti, prescriveva almeno sei mesi di reclusione per chiunque “cercasse di applicare le idee che hanno come obiettivo evidente il rovesciamento violento dell’attuale sistema sociale, o che agisse per propagandare la loro applicazione …” La repressione s’intensificò nel decennio successivo quando la democrazia, nel 1936,  fu rovesciata e trasformata in una dittatura fascista guidata dal generale Ioannis Metaxas; un regime che sopravvisse fino alla seconda guerra mondiale.

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Ioannis Metaxas

In questo clima di intenso nazionalismo e di crisi, non c’è da stupirsi che le evidenti influenze straniere del rebetiko alimentate dai profughi provenienti dalla Turchia  fossero visti con ostilità.
La solida borghesia conservatrice correlava facilmente i profughi e le altre parti non integrate della società, sia con le droghe che con la musica orientaleggiante . ” Già dal 19° secolo e’era sempre stata una critica sporadica della stampa contro la musica “orientale”, ma è soprattutto dopo l’afflusso dei profughi provenienti dall’Asia Minore, che l’antipatia delle istituzioni, tendenzialmente filo occidentali, divenne sempre più pronunciata. Fino a quando nel 1936 sul rebetiko, con i suoi versi sull’hashish, il carcere, le puttane e il buzuki dai suoni orientali, si abbatte la censura governativa: “Prima d’ogni attività di registrazione, deve essere presentata una domanda di permesso di registrazione alla Direzione del ministero per l’elevazione del Popolo, corredata da copie dei versi e degli spartiti musicali dei brani da registrare”.

Questo è stato l’inizio di una nuova era per il rebetiko. Per le persone di quel mondo è stato una cosa seria e grave. E in effetti, tutta la scena della vita musicale greca cambiò, come fece, naturalmente, per ogni altro aspetto. Tutti gli artisti affermati del tempo dovettero rispettare la legge e il risultato fu che tutte le canzoni che toccavano importanti problemi sociali o di altro genere scomparvero. Naturalmente, erano esattamente questo tipo di canzoni che avevano dato al rebetiko il suo stile. Da quel momento in poi ci fu spazio solo per innocue canzoni d’amore,  di “gioia” o di società ideali senza problemi per nessuno.

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