MOLLA TUTTO – Annie LeBrun

«Io vivo nel terrore di non essere incompreso». (Oscar Wilde)
«je voudrais te parler cristal fèlé hurlant comme un chien dans une nuit de draps battants». (Benjamin Péret)

A sedici anni avevo deciso che la mia vita non sarebbe stata quella che altri avrebbero voluto che fosse. Questa determinazione e la fortuna, forse, mi hanno permesso di evitare la maggior parte degli inconvenienti tipici della condizione femminile. Se mi piace che le donne manifestino sempre più il desiderio di rifiutare i modelli che sono stati loro proposti fino ad ora, non mi dispiace che non esitino a riconoscersi nella negazione formale di quei vecchi modelli quando questo non sia un semplice adeguarsi alla moda del momento. Mentre oggi ci si compiace di ripetere un po’ dovunque che non si nasce donna, ma che lo si diventa, sembra che non ci si preoccupi affatto di non diventarlo. Proprio il contrario. Mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare la differenza illusoria che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, le neo-femministe degli ultimi anni si affannano a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio del quale le donne sarebbero state private. E questo a tal punto, che la
rivolta davanti ad una impossibilita di essere, tende a scomparire sotto i colpi della stupidità militante che instaura un obbligo di essere. È necessario ricordare: in materia di rivolta nessuno ha bisogno di antenati, ma anche aggiungere: e soprattutto non si ha bisogno di consigliere tecniche preoccupate di scambiare le ricette dell’insubordinazione femminile dall’a alla z.
Davanti all’ampiezza dei misfatti più o meno legalmente perpetrati, non solamente nei confronti delle donne, ma anche nei confronti di tutti i refrattari alla codificazione sociale dei ruoli sessuali (e fra loro, gli omosessuali, in particolare) io considero questa rivolta troppo necessaria, da non voler turbare il concerto di voci di quelli o di quelle che pretendono di strappare questa rivolta da quell’oscurità individuale dove essa prende corpo violentemente ed attinge le sue capacità di sconvolgimento. Insisto, quella rivolta è sempre un attentato alla morale della collettività, quali che siano le basi che la fondano. Allora, come non vedere che ogni donna si trova oggi virtualmente espropriata di questa riconquista individuale quando non si accorge che ciascuno dei suoi capricci rischia di essere deviato per servire alla costruzione di un’ideologia tanto contraddittoria nelle sue proposizioni quanto totalitaria nelle sue intenzioni?
Eccola più o meno tacitamente incoraggiata da ogni parte ad esporre le rivendicazioni del suo sesso dopo che la cosiddetta causa delle donne esibisce un’immagine della rivolta imprigionata nelle reti della normalizzazione negativa che la nostra epoca è così bene abituata a tessere fin negli angoli più nascosti del nostro orizzonte sensibile.
Avendo sempre disprezzato i padroni che hanno dei comportamenti da schiavi come gli schiavi impazienti di scivolare nella pelle dei padroni, confesso che gli scontri abituali fra gli uomini e le donne non mi hanno mai preoccupato molto. La mia simpatia va a quelli che disertano i ruoli che la società aveva loro preparato. Questi non hanno mai la pretesa di costruire un mondo nuovo, ed è in questo che risiede la loro fondamentale onestà: non faranno mai il bene degli altri loro malgrado, si accontentano di essere la eccezione che nega la regola, con una determinazione che, spesso, è capace di stravolgere l’ordine delle cose. Oscar Wilde mi interessa più di una qualsiasi borghese che ha accettato di sposarsi e di fare dei bambini e che, un bel giorno, si sente repressa nella sua molto ipotetica creatività. È così.
Non farò qui la lista delle mie preferenze a questo proposito: sarebbe inutile e opprimente per la causa delle donne. Che io abbia fatto di tutto per dare il minor spazio possibile alle conseguenze psichiche, sociali, intellettuali di un destino biologico non riguarda che me; non permetterò che si tenti di colpevolizzarmi in nome di tutte le donne per riportarmi nei limiti di questo stesso destino. Questa promiscuità improvvisamente ineluttabile nella ricerca dell’identità di ognuna, minaccia le donne nel più profondo della loro libertà quando l’affermazione di una differenza generica si fa a spese di tutte le differenze specifiche.
Consideriamo con calma quello che, uomini e donne, siamo stati costretti a subire indifferentemente in nome di Dio, della Natura, dell’Uomo, della Storia. Eppure sembra che non sia sufficiente, visto che tutto ricomincia oggi all’insegna della Donna. Gli specialisti in materia di coercizione non si sbagliano moltiplicando con zelo improvviso gli organismi nazionali e internazionali consacrati alla condizione femminile senza che per questo la legislazione cambi realmente. D’altra parte non saprebbero allontanarsi molto da questa strada da quando Aragon, canore della repressione, ha annunciato che «la donna è l’avvenire dell’uomo».
Ho dei grossi dubbi su questo avvenire quando può capitargli di prendere le sembianze di Elsa Triolet (La compagna di Aragon da più di mezzo secolo. Uno dei nodi non minori della polemica fra Aragon e il movimento surrealista).
In quel che si dice o si scrive in nome delle donne vedo ritornare – col pretesto della liberazione – a tutto ciò a cui la donna è tradizionalmente mutilata: ci si dichiara contro la famiglia ma si esalta il trionfalismo della maternità che la fonda, ci si attacca alla nozione di donna-oggetto, ma si lavora alla ricostruzione promozionale del mistero femminile; infine se i rapporti fra gli uomini e le donne sono denunciati come rapporti di forza è per diventare il punto di partenza di una teorizzazione delle lotte coniugali più opprimenti. Così, tante nuove ragioni di felicitarmi ancora per aver lasciato definitivamente il vicolo cieco della sensibilità cosiddetta femminile. Di più, niente saprebbe farmi ritornare sulla mia avversione naturale per le maggioranze soprattutto quando queste nei paesi occidentali si compongono principalmente di martiri a mezzo servizio.
Più il baccano di questa epoca si fa assordante, più ho la certezza che la mia vita sia altrove, scivolando lungo il mio amore le cui figure seppelliscono il tempo che passa, ti guardo. Noi ci incontreremo sul ponte delle trasparenze prima di tuffarci nella notte delle nostre differenze, nuoteremo vicini o lontani, distratti o tesi, risalendo la corrente del nostro enigma per ritrovarci nell’abbraccio incerto delle nostre ombre fuggenti. Noi non siamo i soli ad esserci levati un giorno dal più profondo delle nostre solitudini per andare incontro ai nostri fantasmi senza preoccuparci che siano maschi o femmine. E se esiste solo qualche uomo che non fatica a riconoscersi in questa confessione di Picabia «le donne sono depositarie della mia libertà», è forse perché ne va della conquista di un «meraviglioso» che le donne e gli uomini debbono ancora scoprire. È per questo che mi rifiuto di essere arruolata nell’armata delle donne in lotta, semplicemente per un caso biologico. Il mio forsennato individualismo si adatta perfettamente a tutto ciò che opera per l’intercambiabilità degli esseri.
Questo libro è un appello alla diserzione.

(Introduzione di Annie LeBrun per Làchez tout (Disertate), 1977, Le Saggitaire, Paris)

 

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Raoul Vaneigem – ABOLIRE LA PREDAZIONE RIDIVENTARE UMANI

Appello per la creazione mondiale di collettività
in lotta per una vita umana libera e autentica

Abbiamo fatto dell’Uomo la vergogna dell’umanità.

Dai tempi più antichi ai giorni nostri, nessuna società ha toccato il grado di umiliazione e di abiezione raggiunto da una civiltà agro-mercantile che passa come Civiltà per eccellenza da diecimila anni.

È innegabile che come umani in divenire abbiamo ereditato un istinto predatore e un altro tendente all’aiuto reciproco. Entrambi costituiscono la nostra quota di animalità residua. Tuttavia, mentre la consapevolezza di una solidarietà fusionale ha favorito la nostra progressiva umanizzazione, l’aggressività predatoria, al contrario, ha sviluppato in noi una tendenza all’autodistruzione. È così difficile da capire?

La comparsa di un’economia che sacrifica la vita al lavoro, al Potere, al Profitto, ha segnato una rottura con l’egualitarismo e l’evoluzione simbiotica delle civiltà preagrarie. L’agricoltura e l’allevamento hanno favorito l’istinto predatore, a discapito di una pulsione di vita che non ha mai rinunciato a ristabilire la propria sovranità usurpata.

L’appropriazione, la competizione, la concorrenza si compiacciono di esaltare la “belva civilizzata” la cui sublimazione spirituale serve a legittimare le loro imprese. Nella sua forma emblematica, il leone lascia credere che sia naturale dargli la caccia e opprimere le bestie. Ciò che così s’impone, in effetti, è la denaturazione dell’essere umano. Si cercherebbe invano, tra i carnivori più spietati, una crudeltà altrettanto deliberata, una ferocia altrettanto inventiva quanto quella esercitata dalla Giustizia, dalla Religione, dall’Ideologia, dall’Impero, dallo Stato, dalla Burocrazia.

Tenete bene in mente la smorfia dei trafficanti d’armi quando i loro prodotti tariffati fanno a pezzi donne, bambini, uomini, animali, foreste e paesaggi. “In guerra come in guerra”, non è vero?

Il Profitto esprime il cinismo del fatto compiuto. Non ci nasconde nulla di quei ristoranti senza cuore dove signore e signori si rimpinzano, mentre le loro calzature di lusso grondano sangue ed escrementi.

Perché preoccuparsi finché l’opinione pubblica preformattata si schiera dalla parte dell’uno o dell’altro belligerante, come se si trattasse di una partita di calcio tra Russia, Ucraina, Israele, Palestina? Le scommesse sono aperte e gli applausi degli spettatori sovrastano le urla delle folle massacrate.

Accontentarsi di un anatema nei confronti di una civiltà schifosa non le impedirà di perpetuarsi finché lasceremo che le leggi dell’avidità finanziaria orchestrino la nostra denaturazione, ritmino le nostre apatie, punteggino le nostre frustrazioni scatenando le esplosioni di un odio cieco e omicida. Aggiungere il rimprovero alla colpa? A che pro! Ciò non porterebbe che a rafforzare il senso di colpa personale che si esorcizza colpevolizzando gli altri. Il riflesso predatore vi troverebbe ancora una volta il suo tornaconto.

Le esortazioni rivolte alla moltitudine cadono sotto i colpi di un doppio discredito: da un lato, gli slogan e gli incitamenti militanti riavviano il vecchio motore del Potere in cui il radicalismo fa presto a spegnere la radicalità dell’esperienza vissuta; d’altra parte, ciò che sceglie di diffondersi sul podio delle generalità si diluisce facilmente nel miscuglio delle idee separate dal vivente.

A meno che una lettrice o un lettore vi scopra l’occasione per un dialogo intimo con se stesso. In altre parole, se l’una o l’altro si abbeverino alla fonte della coscienza umana che è in loro.

Piuttosto che indirizzarmi alla massa, preferisco quindi rivolgermi direttamente all’individuo autonomo. Perché questi è consapevole che la mia unica intenzione è confidargli il mio modo di vedere, in un dibattito fraterno dove non c’è bisogno di conoscersi per riconoscersi.

Esiste miglior garante del risveglio delle coscienze che il mutuo soccorso? Non è un caso che esso rinasca spontaneamente nella misura in cui la predazione cessa di dissimulare che essa si divora e ricava profitto dalla sua autodistruzione.

Il fallimento dell’avere propaga una noia peggiore della morte della quale agita costantemente lo spettro. Ed ecco che il soffio della vita riabilita l’essere. Il soggetto si emancipa dall’oggetto, si libera della cosa cui la reificazione lo riduceva. Non è forse quel che sottintende l’adagio “l’uomo e la donna non sono merci”?

La parte di femminilità rivendicata dall’uomo e la parte di mascolinità rivendicata dalla donna non fanno differenza. Dal momento in cui risparmieremo al bambino le devastazioni dell’educazione predatoria, non dovremo far altro che lasciare alla sua radicalità spontanea il compito di risvegliarlo al suo destino di essere umano.

Nessun bisogno di profeti per predire che quel si preannuncia avverrà: o il trionfo dell’abbrutito la cui clava funge da pensiero, o l’impeto di una vita tornata cosciente della sovranità che la sua umanità ha il compito di esercitare.

La comodità del fascismo e dell’antifascismo è che occulta la vera lotta finale, quella che, inseparabilmente esistenziale e sociale, comporta l’eradicazione della predazione, la sparizione del Potere gerarchico, la fine di quanti abbaiano degli ordini.

Il cinismo e l’assurdità redditizia delle guerre, fomentate dalle mafie statali e globali, hanno finito per stancare anche il più ottuso dei loro sostenitori. La successione dei conflitti per così dire intercambiabili incita l’opinione “pubblica” a disertare a poco a poco lo scacchiere degli imbrogli geopolitici.

È qui e ora che l’apparizione del maggio 1968, degli Zapatisti, dei Gilet jaunes, dei combattenti del Rojava apre alla vita e alla sua coscienza una via che il deragliamento storico della Civiltà agro-mercantile aveva ostruito e portato verso la morte.

Non sperare nulla non significa disperare di tutto. Il ritorno alla vita è una reazione violenta, naturale e spontanea. Ha la capacità d’impedire la desertificazione della terra da cui il profitto trae le sue ultime risorse. Il ritorno alla vita, alla sua autenticità, alla sua coscienza è la nostra vera autodifesa immunitaria. Poiché la denaturazione ostacola questo ritorno in nome del Profitto, perché non affidarsi alla natura presente in noi e intorno a noi per porre fine a una civiltà odiosa? Come? Non domandatelo a me, chiedetelo a voi stessi che navigate continuamente tra letargo e rivolta!

Segnali di angoscia e di giubilo si mescolano e si moltiplicano ovunque. Non cadete nell’errore! Il rifiuto rabbioso di una guerra intrapresa contro un paese specificamente preso di mira – la Palestina in questo caso – va ben oltre una sconfessione particolare. Esprime sempre più chiaramente l’esecrazione di una guerra condotta non solo contro la popolazione di una regione ma contro la popolazione di tutte le contrade del pianeta Terra. La quale ha capito che per l’avidità totalitaria, vivere è un crimine. Per questo le nuove insurrezioni mondiali fanno parte dell’autodifesa del vivente. In esse s’incarnano sia la volontà di abrogare un universo di psicopatici che rendono la morte redditizia sia l’attuazione di una nuova alleanza con la natura nutrice.

Si è fatta una guerra di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non per le lobby statali e sovrastatali delle armi, non per i produttori di narco-neurolettici, ma per chiunque non sia disposto a morire prematuramente aderendo al partito della servitù volontaria, mobilitandosi sotto la bandiera del viva la muerte!

Il problema è dovuto soprattutto al dubbio, alla disperazione, alle delusioni che il partito preso della vita incontra di generazione in generazione.

Non è forse aberrante aspettarsi qualcosa dagli organi di governo che decidono per noi e ci vessano con i loro decreti, tutti più ridicolmente falsi gli uni degli altri?

Nell’oscurità dell’epoca, abbiamo almeno il piacere di vedere avvizzire davanti ai nostri occhi gli Dei, impostori che da diecimila anni hanno usurpato la facoltà di creare e di crearsi, mentre la vita, nella sua folle fertilità, l’aveva accordata come prerogativa della specie umana.

È giunto il momento di riprendere il corso del nostro destino. È giunto il momento di cambiare il mondo e diventare ciò che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile ma gli abitanti di una Terra dove coltivarne l’abbondanza permetterebbe di godere liberamente. Basta con questo mondo alla rovescia dove il profitto s’impoverisce impoverendo le proprie risorse! Che la scomparsa delle energie nocive disinquini l’acqua, l’aria, il suolo, la terra in modo che il nostro ingegno creativo cancelli anche il ricordo di una sfortunata deviazione della nostra evoluzione.

Nell’intensità di un desiderio, il presente si risveglia alla presenza di una vita che non si preoccupa né di essere misurata né di essere programmata. La gioia di vivere introduce all’arte di armonizzarsi, perché porta in sé la facoltà specificamente umana di creare e di crearsi.

L’appropriazione del suolo e l’allevamento avevano impiantato nei costumi un gregarismo in cui l’individuo vedeva la sua intelligenza ridotta a quella del bestiame che aveva per funzione di nutrire. Ciò che sta emergendo oggi è una rinascita dell’individuo autonomo che si libera dell’individualismo e della sua coscienza alienata.

Siamo a un punto di svolta della storia in cui lo sviluppo di uno stile di vita soppianterà una sopravvivenza condannata al lavoro, un’esistenza dedita a un confort da cure palliative.

La consapevolezza che emana dai nostri impulsi vitali evidenzia un conflitto incessante tra una prospettiva di vita e una prospettiva di morte, tra l’attrazione dei nostri desideri, illuminati dalla nostra intelligenza sensibile, e l’influenza che l’intelligenza intellettuale esercita nei loro confronti. Perché il blocco delle nostre emozioni da parte di quello che Wilhelm Reich chiama la corazza caratteriale obbedisce agli imperativi di un’efficienza meccanica per la quale il corpo è tenuto al lavoro. Orbene, evidentemente, se il godimento che emana dalla gratuità del vivente non trova posto nell’avidità totalitaria, ciò significa anche che restaurare la gioia di vivere, sviluppare la combattività festosa, rafforzare l’innocenza del vivente che ignora sia i padroni sia gli schiavi, sono armi che per natura portano alla rovina del Profitto.

Siamo nella tormenta di una lotta emozionante. Essa marca la rinascita della nostra coscienza umana. In essa si esprime il risveglio di una dignità che è sempre stata al centro dei nostri tentativi di emancipazione, in particolare nel progetto proletario di una società senza classi. Abbiamo visto come il proletariato sia stato spodestato del suo progetto proprio da coloro che ne furono i difensori. Sarebbe meglio pensare a sradicare fin dall’inizio ogni forma di potere – che sia quello del sindaco, funzionario dello Stato, o del militante, funzionario dell’ideologia e della burocrazia contestatrice.

Tra i portavoce autoproclamati del popolo, è facile distinguere quanti sono già pronti a sostituire l’autorità dello Stato con la propria.

Non è una risoluzione salutare desiderare tutto senza aspettarsi nulla? Con questo intendo fare affidamento sui nostri impulsi di vita non come una fatalità ma come una presenza creativa che abbiamo la libertà di sperimentare prevenendo la loro congestione, evitando la loro inversione mortifera, generatrice di peste emozionale. Abbiamo sottovalutato l’importanza di affinare la collera in modo da evitare la trappola dell’urgenza, in modo da non lasciarci trascinare nel territorio del nemico, da non soccombere alla militarizzazione del militantismo. Soprattutto, però, la distanza implicata dall’affinamento delle emozioni è un luogo favorevole alla maturazione della creatività. Favorisce l’attuazione di una guerriglia dispensata dal ricorso ad altre armi che non siano quelle che non uccidono e che sono inesauribili.

Con il passare dei secoli, ci si accorgerà che un risveglio delle coscienze ha rianimato una lotta che il rinnovamento dell’aiuto reciproco sta gradualmente liberando dalle nebbie della confusione.

Alle generazioni future sembrerà inconcepibile che ci sia voluto così tanto tempo per rendersi conto che la vita aveva dotato l’uomo e la donna di una facoltà eccezionale, senza la quale non sarebbero andati oltre lo stadio dell’animalità. Nella sua cecità sperimentale, la vita ci ha dotato del privilegio di creare noi stessi e di ricreare il mondo circostante.

Le comunità preagrarie si erano evolute in simbiosi con un ambiente da cui traevano la propria sussistenza. L’emergere della Civiltà mercantile e delle sue città-stato portò ad una rottura con la natura, che, da soggetto vivente, divenne oggetto di sfruttamento. Un sistema di governo autoritario si è impiegato a mascherare l’aiuto reciproco creativo che aveva guidato, “da Lucy a Lascaux”, un’evoluzione che gli adulatori della civiltà mercantile sono oggi molto reticenti a scoprire.

La nozione di Fato come destino ineluttabile ha prevalso. Propagando uno spirito di sottomissione, essa ha instillato un’ontologia della maledizione, ha diffuso il mito di una caduta irrimediabile, alla quale bisogna rassegnarsi; così come si obbedisce all’arbitrarietà di un signore divinizzato.

Ciò che oggi rinasce tra coloro che aspirano ancora a vivere è il sentimento di essere stati ingannati. Mentre il crollo del patriarcato completa la sepoltura degli Dei nelle latrine del passato, ci insegna a scoprire una distinzione fondamentale tra Fato e destino. Il disprezzo della vita, programmato dalla civiltà mercantile, ha oscurato sotto il nome di Fato il principio attivo che io chiamo destino e che non è altro che la facoltà di creare se stessi ricreando il mondo.

Il Fato dipende dalla Provvidenza, non si può discutere, si fonda su quella Fatalità che reca un apprezzabile conforto al servilismo.

Il Fato si subisce, il destino si costruisce. Non c’è niente di metafisico in questo. L’atroce barbarie della nostra storia non è mai riuscita a soffocare la lotta viscerale manifestata, di generazione in generazione, da una volontà di emancipazione, al contempo senza tempo e tuttavia modulata dalle fluttuazioni economiche, politiche, psicologiche e sociali.

“Fato” e “destino” rappresentano un problema perché sono stati resi sinonimi. Per questo suggerisco di mantenere, per maggiore chiarezza, la loro distinzione.

La radicalità delle lotte per la vita chiede al destino umano di soppiantare il Fato, il Caso, la Provvidenza. Essa rifiorisce nel bel mezzo di una terra di nessuno dove una civiltà incontinente si svuota della sua sostanza esistenziale mentre una nuova civiltà si dibatte nel travaglio del parto.

Nelle balbuzie dell’autonomia, la potenza creatrice della donna e dell’uomo – per quanto tentennante sia – rivela improvvisamente che siamo capaci di svilupparci senza signori, senza guru, senza tutela. Se avessimo avuto l’opportunità di comprendere che nulla attira l’infelicità più dell’abitudine di compiacersi della sua compagnia, dovremmo convenire, al contrario, che il godimento della gioia di vivere è anch’esso contagioso, e in modo più piacevole.

L’irremovibile determinazione a coltivare contemporaneamente la nostra vita e quel giardino che è la nostra terra nutrice, offre un sostegno imparabile contro la paura, il senso di colpa, il sacrificio, il puritanesimo, il lavoro, il potere, il denaro. Essa alimenta la lotta contro lo spirito mercantile che garantisce ovunque la promozione dei valori antifisici, valori ostili alla natura.

La volontà di autonomia individuale è allo stesso tempo unica e plurima nel combattere per l’emancipazione dell’Io. Le questioni di salute, equilibrio, immunità, amicizia, amore, piaceri, creatività sono al centro dell’emancipazione della terra illuminate dalle nuove insurrezioni mondiali. L’obiettivo è identico: realizzare la libertà dei desideri creando una società attenta ad armonizzarli.

Nel corso della mia vita quotidiana, l’autenticità del vissuto è la garanzia naturale dei miei desideri. La loro libertà esclude le libertà commerciali – quelle di sfruttare, opprimere, uccidere.

La libertà e l’autenticità costituiscono per l’individuo in cerca di autonomia il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata.

Il sermone delle buone intenzioni non è mai stato così insopportabile come in questo ventunesimo secolo in cui la coscienza alienata non indossa più i guanti di velluto per mettere le parole al lavoro. Questa falsa coscienza designa con il nome di terrorista, assassino, psicopatico, fuorilegge quello che, ahimè, è solo uno stato di disumanità che la frenesia del Profitto a breve termine aggrava e accelera al ritmo delle sue grandi opere redditizie e inutili.

Ho sempre difeso il principio: libertà assoluta per tutte le opinioni, proscrizione assoluta per ogni disumanità. Secondo me, è la sola maniera d’affrontare la questione delle religioni e delle ideologie. Una tale scelta ci libera dall’ipocrisia umanitaria con cui si addobbano tante idee e credenze. Essa non ha nemmeno più bisogno di ripetere che la libertà di pensiero non è mai stata altro che una libertà mercantile.

Non vogliamo giudicare una disumanità, vogliamo condannarla e bandirla. Non abbiamo bisogno di spiegazioni, di giustificazioni, di circostanze attenuanti. Che provenga dai bei quartieri o dalle periferie, dal conservatorismo o dal progressismo, NESSUNA DISUMANITÀ È TOLLERABILE. Che ciò sia chiaro e inequivocabile!

Faremo di tutto per sradicare dai nostri costumi la propensione a uccidere, a ferire, a violentare, a maltrattare, qualunque siano le ragioni invocate per spiegare la comparsa e la recrudescenza del fenomeno. Basta con il tribunale universale in cui il soppesare, giudicare, scusare, condannare, punire, amnistiare, perpetua i balbettii dell’indignazione impotente. E la giusta collera rimarrà impotente finché sarà radicato in ognuno di noi il “levati di lì che mi ci metto!” che condanna alla giungla sociale e al riflesso predatore.

Basta con la caricatura d’esistenza che l’evangelismo narco-americano volgarizza in tutto il mondo! Il self-made man realizza e propaga soltanto la propria morte. È la taglia sulla sua testa, gloriosamente messa in mostra!

Non è forse nell’individuo autonomo che si afferma il piacere di non dover rendere conto a nessuno, di essere soli a districarsi, a dibattere, e prima o poi a effettuare, in modo alchemico, una trasformazione della squallida sopravvivenza che ristagna in noi? Di operare la trasmutazione di una materia prima – condannata a marcire – in una vita piena e intera cui da sempre abbiamo aspirato come esseri umani. L’arte di vivere disimpara a morire. Questo è l’unico insegnamento al quale desidero aderire.

Godere della mia autenticità vissuta, per quanto disordinata possa essere, mi libera dall’obbligo di assumere un ruolo, al quale vincolano l’individualismo e il gregge che lo guida. L’autenticità fa prendere coscienza di quanto sia irrisorio e patetico il dovere di mostrarsi, libera dalla dittatura dell’apparenza, dello spettacolo e dalla paura di essere pesati e giudicati costantemente. La vera felicità non è forse riscoprire l’innocenza di essere se stessi, di non doversi giustificare, di desiderare secondo il cuore senza aspettarsi nulla secondo la mente?

Ci stiamo incamminando verso un nuovo Rinascimento, verso una rinascita del Movimento Illuminista. Il nostro percorso trasversale sarà quello di una clandestinità apertamente rivendicata. Il pugno del profitto ci colpisce ovunque, colpiamo dovunque per smembrarlo!

La clandestinità inizia dentro di noi nella “camera oscura” dove siamo soli a discutere su quel che non vogliamo e su quello che desideriamo senza fine. Essa ci risveglia alla coscienza delle nostre pulsioni di vita, dei godimenti che la stimolano, delle contrarietà che la rovesciano e la tramutano in pulsioni di morte.

Il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata è attestato tanto dall’anonimato dei Gilet jaunes francesi, quanto dall’anonimato che ogni individuo rivendica quando si rifugia nella camera oscura dei propri desideri segreti. Laddove è solo a decidere se aderire al sistema di predazione e al calcolo egoistico dell’individualismo o se scegliere invece di dedicarsi alla trasmutazione della sua sopravvivenza in una vita piena e intera.

Nella sua opera teatrale “Fuente Ovejuna”, il drammaturgo Lope de Vega mette in scena gli abitanti di un villaggio che, stanchi della crudeltà di un governatore iniquo, l’hanno assassinato. Incaricati di scoprire il colpevole, giudici e carnefici si prodigano a interrogare gli abitanti del villaggio, ma l’unica risposta ottenuta è il nome del villaggio, Fuente Ovejuna. Cosicché, stanchi di lottare, un’amnistia generale è loro accordata.

L’anonimato rivendicato dagli individui in lotta per la loro autonomia solidale offre l’esempio di un’arma di vita. Essa federa la resistenza all’oppressione. Così come l’ostinazione dei Gilet jaunes non ha più bisogno dei gilet per diffondersi, si assiste alla crescente presenza di una vita che vuole essere libera e non s’ingombra di religioni, d’ideologie, di politica, né di strutture gerarchiche, statali e mondialiste. La vita prima di tutto è il fucile rotto che rompe la reificazione e insegna a sabotare la trasformazione dell’essere in avere. Essa radicalizza il riformismo militante dissuadendolo dal permettere che s’incrosti in lui il potere che pretende di combattere.

Il vivente porta in sé la fertilità del desiderio. Nessun deserto resisterà alla sua fecondità. Nella nostra intimità si configura la decisione di mettere termine all’istante che appartiene al tempo dell’usura, del lavoro, della morte, e di privilegiare il momento e il desiderio di vita che si manifesta nei piaceri dell’autenticità vissuta. Ne volete una prova al contrario? Osservate, mentre sto scrivendo, la formidabile ondata di nichilismo auto distruttore che sommerge le società divorate dal cancro della redditività.

Attribuisco meno importanza all’adesione di una moltitudine che all’intelligenza di individui autonomi il cui desiderio di autenticità è l’antidoto all’elitarismo intellettuale.

Lento ma ineluttabile, il rovesciamento di prospettiva illumina il rinnovamento, dove si realizza la riunificazione dell’esistenziale e del sociale. La lotta individuale e quella per una società autenticamente umana sono la stessa cosa.

La vita non ha bisogno né di padroni, né di culti, né di partito.

Il godimento è la violenza pacifica della vita che prolifera in noi e intorno a noi. È la gratuità che ci ha conferito una coscienza capace di umanizzarla. È quanto siamo determinati a tentare.

Ricostruiamo la terra, facciamo dei nostri comuni, dei nostri quartieri, delle nostre regioni delle oasi che il vivente renda inespugnabili!

Raoul Vaneigem, gennaio 2024

Traduzione dal francese di Sergio Ghirardi Sauvageon

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Il diritto alla città come opera d’arte collettiva

Henri Lefebvre (1901-1991) non ha bisogno di presentazioni, poiché è un assai noto, poliedrico studioso e intellettuale, geografo, urbanista e filosofo, di quel lungo «secolo breve», che egli attraversa quasi per intero, soprattutto nella sua culla centrale, in rapporto vitale e polemico, come fare altrimenti del resto, con quei rissosi visionari dell’Internazionale Situazionista di Guy Debord & co. Perché, dopo la fuga dal Partito Comunista Francese (1958), è con loro, tra bar, attraversamenti, derive e «situazioni» metropolitane, che Lefebvre percepisce la vitalità da recuperare nelle città, a partire da una «comune» rilettura della Comune parigina della primavera 1871. E così dobbiamo ad Henri Lefebvre (La Proclamation de la Commune, la descrizione della Comune parigina come festa permanente, anzi così recitava la seconda delle quattordici tesi contenute nel volantino dell’IS del febbraio 1963, Nelle pattumiere della storia:
La Comune è stata la più grande festa del XIX secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia, non tanto al livello della decisione politica «governativa», quanto invece a livello della vita quotidiana, in quella primavera del 1871 (per esempio il gioco di tutti con le armi; il che significa giocare con il potere). È anche in tal senso che bisogna capire Marx: «la più grande misura sociale della Comune è stata la sua esistenza in atto».
La figura della Comune torna centrale, come potenza dispiegata nella vita quotidiana per la riappropriazione di spazi, autogoverno, festa, da parte di quelle classi operose e pericolose espulse dal centro vitale di una città svuotata e neutralizzata dalla rendita fondiaria e finanziaria:
La Comune di Parigi può essere interpretata alla luce delle contraddizioni dello spazio, e non solo a partire dalle contraddizioni del tempo storico (patriottismo delle masse e disfattismo delle classi dirigenti). Fu una risposta popolare alla strategia di Haussmann. Gli operai, cacciati verso i quartieri e i comuni periferici, si riappropriarono dello spazio da cui il bonapartismo e la strategia del potere politico li aveva esclusi. Tentarono di riprenderne possesso, in una atmosfera di festa guerriera, ma radiosa.
Qui Lefebvre, si lega alla successiva capacità del capitalismo finanziario di mobilitare la ricchezza fondiaria e immobiliare. «Questo tipo di processo viene ora accelerato e diventa proprietà capitalistica dello spazio intero», in una dimensione urbana dove la nuda terra, il terreno, sempre meno edificabile in prossimità di centri cittadini già troppo edificati, è sfruttato dalla rendita immobiliare e finanziaria in una rincorsa tra speculazione e nuova, artificiale, «economia della scarsità» di tutti quei beni e risorse un tempo abbondanti e comuni: terra e spazio, appunto, ma anche aria, acqua, e perfino la luce. Il fallimento dell’urbanistica intesa come pianificazione inclusiva in favore delle cittadinanze, dinanzi alla mercificazione dello spazio pubblico e al vertiginoso consumo di suolo. Processo rispetto al quale è forse necessario tornare a scandagliare le quotidiane buone pratiche emancipatrici diffuse nei territori per l’affermazione di un «diritto alla città» inteso come progetto utopico e quindi possibile, perché, nota ancora Lefebvre, «chiamo utopico, opponendolo a utopistico, ciò che non è possibile oggi, ma che potrebbe esserlo domani», ma è già in atto nella vita quotidiana di porzioni magari piccole e minoritarie di una società complessa e frammentata. È la scommessa di pensare e praticare il diritto alla/della città non tanto come nuovo diritto amministrativo «partecipato», in un’ottica sussidiaria tra alto e basso, società e istituzioni, centro statuale e periferie locali, ma come occasione per ripensare la dimensione spaziale di autogoverno delle cittadinanze in modo scalare, valorizzando quella che da sempre sosteniamo sia l’essenza della cultura urbana, cioè la possibilità di agire insieme senza dover essere necessariamente identici. Immaginare quindi la città come stratificata opera d’arte, per rendere possibile l’impresa collettiva e intergenerazionale di invenzione artistica di un’altra città, come ci è capitato di scrivere, con la mente e il cuore alle possibilità sopite di una ennesima rinascenza urbana: spazio politico dove tornare a sperimentare progetti comuni di libertà, solidarietà e condivisione tra i molti.

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IL BLUES

Nessun singolo individuo aveva dato vita al blues, il blues era emerso in tutti gli Stati meridionali allo stesso tempo: Mississippi, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas e cosi via; centinaia di cantanti anonimi o dimenticati, raccoglitori di cotone, lavoratori delle dighe e degli argini, delle segherie, dei campi di trementina, scaricatori e braccianti agricoli, cantavano e suonavano il blues da soli o in gruppo, al lavoro o nel tempo libero. Il blues si caratterizzò alle origini come l’espressione di sentimenti individuali, come un racconto personale di estrema semplicità. C’è chi dice che il blues cominciò nel 1903, altri dicono nel 1890 o nel 1902, e comunque attorno a questi anni. Nel 1960 James Butch Cage disse: «Il blues risale ai tempi della schiavitù. Quando eravamo schiavi – voglio dire la gente di colore – mangiavamo ossi e cotenna di maiale. Ecco cosa si mangiava allora, e i bianchi si pappavano tutta la ciccia. Erano tempi duri, e ci facevano su delle canzoni. Mia mamma me le insegnava; non era mica una schiava, lei, ma mia nonna si, e cantavano:
«Negretto nero, piedi neri e occhi lucenti,
tutto nero fino all’osso, coscette di caucciù.
Fallo girare, quel negro, e picchialo sulla zucca,
dicono i bianchi “Lo facciamo secco, quel negro”.
I bianchi mangiano il maiale in casseruola,
i negri niente bene, ne prendono cosí poco,
e Zio Spadino-Trafficone si pappa il grasso, e fa:
“Voi state su, al mattino, e io ho finito già!”
Io, negretto nero, starò bene attento a me stesso,
porterò sempre un rasoio bello grande e una pistola nella giacca.
Fai girare quel negro e picchialo sulla zucca,
dicono i bianchi: “Lo facciamo secco, quel negro!”».
Un altro blues singer, Booker White, è della stessa opinione. «Volete sapere da dove viene il blues. Il blues viene dal didietro del mulo. Be’, oggi puoi avere il blues anche seduto a mangiare, ma il blues è stato fondato camminando dietro un mulo ai tempi della schiavitù.»
Ma come forma musicale o come genere di canzone, il blues non viene .dai tempi della schiavitù. Nessuno schiavo cantava quel che oggi si chiama blues, e il termine blues non era usato in riferimento alla musica.
La vita dei negri in America è stata segnata fondamentalmente dall’esperienza razziale della schiavitù; il ricordo della schiavitù forzata del passato ha modellato atteggiamenti, suoni e modi di sentire nel presente, e ha condizionato la posizione dei negri d’America nel mondo. Dalla fine della schiavitù le comunità nere hanno cercato una loro identità in rapporto alla cultura bianca, a se stessi e al loro passato, e gran parte di quella ricerca è dominata dal ricordo della schiavitù e delle sue implicazioni.

Per approfondire:

 

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MAX CAPA

L’artista e fumettista Nino Armando Ceretti, meglio noto con il nome d’arte di Max Capa, è morto a Parigi all’età di 79 anni il 20 novembre del 2023.
Tra le certezze rimaste della eredità lasciatami dai miei vent’anni, una continua ad esistere, anzi a persistere, malgrado le aggressioni ripetute e petulanti alle quali ho dovuto far fronte. La certezza si identifica con il confuso ricordo di una frase che suppergiù suona cosi’: “L’obbligo di produrre aliena la passione di creare”. E il citato di turno dovrebbe essere un tal Raul Varieigem, ma potrebbe anche non esserlo. Ecco, PUZZ aveva, ed ha, per me questa connotazione, o se si preferisce, questa giustificazione. Certamente mi sarebbe piaciuto pubblicare su “Linus” e non mi è riuscito non certamente per colpa di “Linus”, ma non ho disegnato per PUZZ come ripiego. PUZZ era il modello di pubblicazione che meglio si adattava al mio orgoglio di essere figlio di operai aristocratici cioè operai che disprezzavano il lavoro alla catena e adoravano il loro lavoro di operai di mestiere. PUZZ non imponeva scadenze editoriali e quindi non dovevo obbligatoriamente, produrre l’idea e i disegni. Contemporaneamente, era il luogo che mi permetteva di pubblicare un lavoro interamente pensato e realizzato da me. Sbagliando, ma solo rispetto al senno del poi, credevo che una condizione fondamentale di questo modo “liberato” di produrre fosse quella di essere ermetici ed elitari, cosa che in PUZZ mi riusciva benissimo. Ma in fondo più che un errore era un necessario passaggio del desiderio di affermazione che mi stimolava a dimostrare di esistere, pur se con idee confuse. Sono esistito sulle pagine di PUZZ e non su quelle di “Linus”, ma ho dimostrato a me stesso di esistere. Con una tiratura infima, con un pubblico di lettori forse ancora più scarso, ma sono esistito da allora. Eccolo l’indistruttibile muro di PUZZ. Ciò che ha dato a chi come me cercava di dimostrare di esistere. A ben vedere poi non era tanto il pubblicare che mi dava la sensazione di esistere. Era l’insieme delle cose da fare per assicurare l’esistenza di PUZZ a garantire questa certezza. Dalla distribuzione, alle sottoscrizioni, alle discussioni.

PUZZ? “ma che è ‘sta cosa!?”
Pensate un cerchio o una sfera che contengano tutto ciò che per i vostri mezzi di conoscenza e d’informazione sia “il mondo”, questo tessuto spesso di sollecitazioni che vi pervengono di forza in tutti i modi ed in ogni momento (tranne nel sogno, forse), che si pongono spesso come antagoniste, nella loro complessa binarietà, nelle loro opposizioni fittizie, nella loro “complicità” fattuale. Ebbene, “Puzz” può essere descritto come un tentativo di porre il punto di vista critico-radicale fuori, oltre il cerchio e la sfera, o in questa tendenza. Pur se partito da basi “gauchistes” e impressionato dalla sinistra COMUNISTA olandese e tedesca e italiana (Bordiga, il movimento dei CONSIGLI) non è mai stato DI SINISTRA. Per forza… Cosa rara ma non proprio unica, i “fumetti” di “Puzz” sono stati immersi quasi di solito in un’atmosfera plumbea e drammatica, dentro difficoltà d’ogni sorta e, talvolta, rischi non ordinari. I rischi del ludico scatenato…
“Tu cerchi la pallottola che ti cerca, magari vi incontrate…”
Tuttavia, ci pare ancora strano; il nostro gusto per il sarcasmo, l’ironia piuttosto feroce, volevano essere utili pure alle intelligenze medesime che ne erano l’oggetto, purtroppo queste hanno in genere mal preso la nostra sconsideratezza che certo si spostava gaiamente al di là dei limiti del comprensibile. In fondo ci si diceva: “Si, parla pure, ma parla come me.”… Eh, no!

Verso l’inizio degli anni ’70, tra le sollecitazioni retinali che stavano inesorabilmente “iniziando” la mia sensibilità visiva e formando una bizzarra e selvaggia pinacoteca ottica, by-passando i “canali sinattici non autorizzati della psiche”, mi imbattei nelle folaghe totemiche di Max Capa. Erano stampate con colori incerti su un giornaletto praticamente illegibile per la qualità pre-gutemberghiana della stampa. Ma accipicchia, era la prima volta che vedevo in Italia un giornaletto autoprodotto di fumetti. Certo c’erano fogli e riviste underground, ma visivamente erano desolanti, cultura visiva zero, un look da oratorio o da sezione di partito. Pareva che gli eccessi visivi della rivoluzione psichedelica ed underground non avessero avuto presa nelle testoline dei pochi accoliti della nostra italietta paranoica e intollerante del periodo (come si poteva far finta che non esistesse OZ o i comix americani, le copertine dei dischi di rock?). Wow! Dinamite e miele per il nervo ottico! Ma Puzz (questo il titolo del giornaletto) mi accorsi subito, era perfettamente sintonizzato, era diverso, disegni originali e canaglieschi, storie surreali, mostriciattoli e le folaghe totemiche di Max Capa. Poi c’era la storia cosmica di un amico di strada: Mizio. Puzz nasceva dal ricco humus di menti che si riuniva nel quartiere milanese di Brera, non ancora sterilizzato dall’efferata arroganza craxiana: osterie, salumerie, focaccine notturne, labirintiche case di ringhiera aperte a chiunque, poeti beat, paesaggisti, lazzaroni, barboni, viaggiatori, file di sacchi a pelo sul marciapiede, amore nei portoni, retate, complicità, flauti e bonghi, anarchici barbuti, cagnini, e planimetrie di Kathmandù, pullmini VW pronti per traversate intercontinentali. Finalmente incontrai Max Capa l’allevatore delle folaghe totemiche, in una di quelle strane case-antri-officine del periodo, lui disegnava con la stessa attenzione con cui un nichilista avrebbe preparato della nitroglicerina, con la sua china e i suoi pennini; piegato sul tavolo aveva un’aria poco raccomandabile da cospiratore, ed era incazzato… Mi invitò a cospirare su Puzz, cosa che feci volentieri, poi più o meno ci perdemmo di vista, ma i nostri disegni continuarono a dialogare su tutta una miriade di pubblicazioni che nel frattempo erano sbucate dall’area “contro culturale”. Diventammo una sorta di strana coppia per la scena radical-hippie-situazionista: Max era il cantore delle paranoie urbane ed io quello della dolcezza bucolica, a distanza di tanti anni posso dire solo di essere felice ed orgoglioso di aver avuto con lui (e gli altri artisti con cui ci dividevamo tutto) l’impudenza di stendere sulla carta un mondo interiore scoppiettante, senza censure, e senza strizzatine d’occhio alle varie mode. E le folaghe totemiche continuano a riprodursi a dispetto dei paperi rintronati e servili. (Matteo Guarnaccia)

PUZZ – Nasce a Milano nel 71 come “contro-giornale di sballofumetti”. L’animatore è Max Capa che ben presto passerà dal fumetto tout-court ad approfondimenti sempre più esasperati delle tematiche situazioniste, fino ad arrivare alle ultime uscite al “negazionismo critico ultraradicale”. Da Puzz passera di tutto, decine di fumettari, militanti incazzati, giovani proletari di Quarto Oggiaro, comunardi di Cuggiono, autoriduttori via via scivolando dalla controcultura ai confini della lotta armata. Uscirà in formati sempre diversi, dotato di una notevole inventiva dal punto di vista grafico. I numeri dovrebbero essere 21, più alcuni volumetti a parte e “Manuale del piccolo provocatore/I banali fumetti di Puzz” edito dall’Ottaviano di Milano. Dopo innumerevoli disavventure di tutti i tipi Max Capa abbandonerà l’Italia per stabilirsi in Francia.

GATTI SELVAGGI – Attivi a Milano tra il 74 e il 75, emanazione di pratica politica delle teorie espresse in Puzz da Max Capa e compagnia, si potrebbero considerare come i precursori dell’Autonomia. Divennero famosi nel ’75 quando al Palalido di Milano impedirono il concerto di Lou Reed e tutta la stampa si stracciò le vesti per il misfatto. Troppo radicali nella pratica, le radici culturali cominciarono a perdersi in mille rivoli e dalla critica ai concerti si passò a forme sempre più dure di organizzazione. Il Nucleo Informale Puzz, il Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro e il Collettivo Informale Situazione Creativa diverranno prima ultraradicali e subito dopo negazionisti.
Si cominciava a non capir più niente anche se la pratica di riappropriazione dell’esistenza era molto più chiara che tutte le chiacchiere teoriche. Comunque, sotto la denominazione ‘Gatti Selvaggi’ uscirono 3 numeri, distribuiti ai concerti e nelle Situazioni Creative.
SITUAZIONE CREATIVA – A Castelletto di Cuggiono, sulle rive del Ticino, la banda di Puzz e Co. organizza, dal 13 al 16 giugno 1974, una festa autogestita con musica, teatro e incontri vari. Dichiaratamente “alternativa” al festival di Re Nudo che si teneva, negli stessi giorni, al Parco Lambro.

POESIA METROPOLITANA – In un certo senso derivato dalle esperienze tipo Puzz e Gatti Selvaggi, ma completamente diversa nella sostanza pubblica poesie di poeti milanesi, tra gli altri dei fratelli Meo che sapranno mettere in versi la tensione della metropoli e degli uomini che ci devono vivere. Nel 76 esce un numero speciale dedicato ai testi di Woody Guthrie.

Per approfondire:

 

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Tempi duri

In questi giorni, dopo la promulgazione della legge 214/23 che aumenta la soglia elettromagnetica da 6 a 15 V/m, il Consiglio dei Ministri ha approvato la bozza del decreto legislativo per accelerare l’installazione di nuova infrastruttura tecnologica, cioè più antenne ovunque e più potenti, meno burocrazia. La proposta del decreto è di Adolfo Urso (MIMIT). Si è lasciato fino al 30 aprile alle Regioni la possibilità di opporcisi per la tutela dell’ambiente.

Superficialmente il 5G potrebbe apparire come l’ennesimo potenziamento delle reti di telefonia mobile, la quinta generazione, in realtà è qualcosa che va oltre il semplice aggiornamento. Il 5G infatti disporrà di tre sistemi di propagazione:
– in cielo: con migliaia di satelliti;
– a mezz’aria: sui classici piloni di antenne;
– in terra: la vera novità di questa tecnologia; milioni di micro antenne disseminate ovunque in città e campagna, sotto i tombini, sui lampioni, nei cartelloni pubblicitari e in ogni forma di struttura architettonica immaginabile. Questo perché le microonde del 5G, pur essendo vettori di grandi quantità di dati, hanno scarsa gittata e quindi necessitano di queste micro antenne che ne garantiscono il segnale, posizionate ogni 50/100 metri. È per questo che saranno ovunque.

Questo perfezionamento di tecnologie sempre più “sofisticate”, attraverso un processo di informatizzazione della società, porta a un controllo tecnocratico e una sottomissione a grandi interessi privati o multinazionali la cui realtà viene sempre curiosamente nascosta dai discorsi ufficiali: nell’epoca delle tecnologie convergenti, la neolingua orwelliana è ormai incorporata nei prodotti.

Il progresso ha di volta in volta i propri apici, e il 5G è uno di quelli. Tutti i meccanismi che stanno portando a una società sempre più dipendente dalla tecnologia si trovano di fronte a un imbuto tecnico che sarà sbloccato dal 5G (in attesa del 6G, l’“internet dei corpi”). Non si tratta solo di criticare una nuova tecnologia perché dannosa per la salute, ma di criticare un modo di vivere e di esistere su questo pianeta.

Ma a chi serve la tecnologia 5G?

– l’apparato bellico. la guerra si diffonde ed è cambiata anche per il ruolo che stanno svolgendo 5G, droni, wireless e nuove tecnologie nei teatri del conflitto.
Il ruolo delle telecomunicazioni in ambito militare è dirimente, “Con l’aiuto della tecnologia esistente possiamo vedere più lontano, con telecamere e droni remoti. E ciò che il 5G con latenza minima ci offre è un’espansione istantanea, oltre ciò che possiamo vedere con i nostri occhi a distanza fisica”.

Nei recenti test è stato usato il visore per caschetti di Lightspace per ottimizzare, attraverso il 5G, il modo in cui i tecnici apprendono conoscenze e abilità tecniche, come il pilotaggio remoto di veicoli militari, e ricevono assistenza da diverse centinaia di chilometri di distanza.

– controllo della popolazione. Le agenzie di intelligence e i vari corpi di polizia avranno la possibilità di spiare e controllare sempre di più la vita delle persone, i loro contatti telematici e i loro spostamenti. Nell’ambito delle cosiddette “città intelligenti”, anche in spazi aperti o centri commerciali, centri educativi e pubblici, si giungerà a una moltiplicazione esponenziale dei sistemi di connettività, sorveglianza, tracciamento e identificazione, con la diffusione di droni e veicoli a guida autonoma per servizi, consegne e sorveglianza.

– il tele-lavoro, le innovazioni che il 5G permetterà andranno ben oltre il fatto di poter svolgere i lavori di ufficio da casa. Grazie alle tecnologie avanzate dei super computer utilizzabili da remoto sarà possibile gestire e controllare diverse parti delle catene di montaggio di una fabbrica. Anche un operaio potrà lavorare quindi da casa: uno, però! Molti altri potranno semplicemente restarsene a casa visto che la loro manodopera non sarà più necessaria. La tendenza in fabbrica è sempre stata questa: più macchine, meno lavoratori. In più l’accelerazione verso la digitalizzazione renderà ancora più labile la distinzione tra vita e lavoro, orari e disponibilità saranno sempre meno in mano nostra e nemmeno più controllati da un datore di lavoro in carne e ossa; le decisioni saranno prese dall’“intelligenza artificiale”. Nel campo dell’ “educazione”, abbiamo già visto durante la pandemia come sono stati usati smartphone e computer….

– agricoltura. le fattorie ‘smart’ faranno un bel salto in avanti grazie alle potenzialità delle reti 5G. E lo stesso accadrà con l’allevamento grazie all’impiego dell’Internet of Things. Sensori, droni, macchinari agricoli connessi e spesso automatizzati. Saranno gli algoritmi a dire quando e dove innaffiare, dissodare, diserbare, fertilizzare…

Qual è il suo impatto sull’ambiente e la salute?

La domanda di servizi alimentati dai data center continuerà a crescere fortemente, trainata dalle tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale, il 5G e la blockchain.

I data center consumano circa l’1% della domanda globale di elettricità. Infatti, per funzionare e compiere le proprie operazioni, i data center hanno un prodotto di scarto, il calore, che se non controllato potrebbe ostacolare il funzionamento della nostra civiltà digitale. Il motore della nostra economia e società deve quindi essere costantemente raffreddato grazie a sistemi di condizionamento per continuare a muoversi efficacemente, cosa che a sua volta richiede altra elettricità, e acqua destinata al raffreddamento.

Lo sviluppo e la diffusione del 5G accelererà in modo esponenziale lo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili: rame, nichel, silicio, litio, cobalto, ecc. Si va incontro a un esaurimento delle risorse non rinnovabili, al sempre maggiore inquinamento dell’acqua e alla distruzione dei suoli e degli ambienti naturali a causa dell’estrazione dei minerali, necessari alla produzione degli smartphone.

La quantità di rame che servirebbe nei prossimi anni sarebbe superiore a quello estratto in cinquemila anni. Computer, dispositivi elettronici e infrastrutture ICT consumano quantità significative di elettricità, mettendo un pesante fardello sulle nostre reti elettriche.

Nel campo della salute, una serie di studi scientifici riferiscono che le radiazioni elettromagnetiche producono stress cellulare, danni genetici e del sistema riproduttivo, deficit di attenzione e di apprendimento, disturbi neurologici e, per la combinazione di diversi fattori, sono potenzialmente cancerogene. Hanno effetti anche sui sistemi di orientamento di uccelli, api, formiche, rane e altri animali che sono stati studiati.

Una piccola riflessione finale: “Perché abbiamo abbandonato il nostro esistere nella profondità riflessiva e la nostra libertà di disporre di noi stessi, di sognare o di criticare, e l’abbiamo sostituito con la fascinazione per l’innovazione tecnica e, in modo correlato, per l’investimento, il furore borsistico e il PIL?”

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ORGANIZZAZIONE CONSILIARE

Organizzazione Consiliare (Riccardo d’Este, Pier Franco Ghisleni, Carlo Ventura, Fabio Francardo, Valerio Bertello, Eva Ripa, Paolo Tonin, Salvatore Testagrossa, Giuseppe Consalvi, Glauco Giacomelli e altri) si costituisce a Torino a metà del 1970, su iniziativa di Riccardo d’Este, con il desiderio di riprendere l’esperienza di Ludd ma superando i limiti di un gruppo che era rimasto “troppo politico”. Elemento decisivo nella formazione di Organizzazione Consiliare è una detenzione in carcere di d’Este e di alcuni altri futuri consiliari che ha permesso loro un contatto diretto con il proletariato detenuto.

Volantino diffuso il 31 maggio 1971 a commento di un solito corteo del sabato pomeriggio  (rito della sinistra extraparlamentare all’epoca) stravolto dall’intolleranza di un migliaio di proletari.

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IL FUTURO TRIONFA MA NON ABBIAMO UN AVVENIRE

La scienza è ancora oggi un modello forte che corrisponde a un’immagine di universalità e potenza in un contesto globale di disordine climatico e di degrado sociale. Mentre la vita diventa sempre più assurda e le società sempre più brutali, la ricerca è l’unicosettore a offrire l’immagine rassicurante di continuità con le epoche passate, un settore che parrebbe al riparo dalla meschinità dei rapporti mercantili e che continuerebbe a progredire anche mentre tutto crolla. Ma è un’illusione funesta. Un corpus di conoscenze rigorosamente stabilito sarà sempre indispensabile, così come l’invenzione di tecniche al servizio delle comunità umane, ma tutto questo ha un ruolo marginale in ciò che oggi chiamiamo ricerca, e serve per lo più a giustificare tutto il resto. Un’ingenua buona fede produce gli stessi effetti del peggiore cinismo, lasciando campo libero a tutte le aberrazioni immaginabili. Non ci si salva facendo da sostegno ideologico alle peggiori atrocità. In questi tempi confusi in cui, nella bocca dei ricercatori e
nell’immaginario collettivo, la tecnoscienza appare l’unico avvenire
comune, noi, studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici, disoccupati e disoccupate che credevamo nella capacità dell’Università di preservarci da compiti idioti o irresponsabili, abbiamo deciso di organizzarci in vista di uno stravolgimento radicale che abbiamo scelto di non attendere. Denunciamo la collaborazione attiva dei ricercatori con i poteri militari e industriali che li finanziano, ne definiscono gli obiettivi e utilizzano le conoscenze e le tecniche messe a punto nei laboratori. Questa collaborazione risale alle origini della scienza moderna, i cui progressi sono sempre stati in stretto rapporto con quelli delle tecniche di guerra. Ma con la Seconda Guerra mondiale si è compiuto un salto quantitativo e qualitativo. Oggi la maggior parte delle ricerche non serve a far progredire le conoscenze, ma ad accrescere la potenza militare ed economica. La volontà di sapere è un alibi che serve a far accettare la corsa agli armamenti e la competizione economica internazionale.

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1984/2024 – la speranza nascosta nell’avvertimento di Orwell

Sono ormai trascorsi quarant’anni dall’anno in cui George Orwell collocò la sua immaginaria società distopica.

Il romanzo 1984 non è mai stato concepito come una profezia letterale, ovviamente, ma, per i primi tre decenni e mezzo dopo la sua pubblicazione nel 1949, ha esercitato una forte presa sull’immaginazione del pubblico, almeno in Gran Bretagna.

Quando ero piccolo, negli anni ’70, le quattro cifre “1984” erano un sinonimo terrificante del futuro totalitario che tutti noi in qualche modo sapevamo essere proprio dietro l’angolo, se non fossimo rimasti vigili.

Penso che il libro di Orwell, insieme al romanzo Il Mondo muovo di Aldous Huxley del 1931, abbia contribuito a evitare l’avvento del tipo di mondo da cui entrambi ci mettevano in guardia, rendendo abbondantemente chiaro che nessuno, indipendentemente dall’appartenenza politica, accoglieva favorevolmente un simile futuro.

La data ha perso molto del suo effetto, ovviamente, una volta passato l’anno indicato. All’improvviso il 1984 era solo parte della vita di tutti i giorni: è stato l’anno in cui la tua ragazza ti ha lasciato, in cui hai superato l’esame di guida o in cui l’Everton ha battuto il Watford nella finale della Coppa di calcio FA.

E anche se molti di noi erano ancora preoccupati per la prospettiva che uno stato rafforzasse la sua presa da Grande Fratello, non c’era più la sensazione di fare un triste conto alla rovescia fino a quell’anno fatidico: le persone cominciavano invece a guardare con ansia al nuovo brillante futuro annunciato per l’anno Duemila.

Ora, però, la data 1984 è ritornata a essere un pensiero semi-astratto, soprattutto per tutti i nati dopo quella data, e il titolo del libro sembra molto meno importante del contenuto, oggi fin troppo attuale.

È vero che parte della forma narrativa della storia è piuttosto datata. Rileggendolo ai fini di questo articolo, sono rimasto colpito dal modo in cui Orwell descrive una Londra del dopoguerra danneggiata dalle bombe, che era già scomparsa quando sono nato e che immagina abitata da un classe operaia bianca (i “prolet”) che ora si è in gran parte trasferita.

L’idea che “non si vedessero letteralmente mai” stranieri camminare per le strade di Londra sarebbe già suonata un po’ strana nella vita reale nel 1984, per non parlare di oggi!

Ho anche notato un piccolo difetto di plausibilità nella trama, nel senso che Winston Smith, avendo prestato la massima attenzione a non farsi mai vedere parlare con la sua amante Julia in pubblico, la porta allegramente con sé per incontrare O’Brien, che spera semplicemente sia dalla sua parte.

Poi, pochi secondi dopo essere arrivato a casa del funzionario, sbotta: «Siamo nemici del Partito»! e prosegue dicendo di accettare di «corrompere la mente dei bambini», «trasmettere malattie veneree» e «gettare acido solforico in faccia a un bambino» se richiesto dalla resistenza clandestina conosciuta come Confraternita.

Qualcuno lo farebbe davvero?

Ma questi sono piccoli cavilli rispetto al modo misterioso in cui Orwell prevedeva gran parte del controllo psicologico e della manipolazione che stiamo subendo oggi.

Possiamo subito riconoscere nelle pagine del romanzo, ad esempio, coloro che stanno attualmente imponendo il Grande Reset e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

«Altrettanto ovvio era immaginare quale tipo di persone avrebbe controllato il mondo. La nuova aristocrazia era formata per la massima parte da burocrati, scienziati, tecnici, sindacalisti, esperti in pubblicità, sociologi, insegnanti, giornalisti e politici di professione. Costoro, le cui origini vanno rintracciate nelle classi medie salariate e nei gradi superiori della classe operaia, erano stati plasmati e amalgamati dallo sterile mondo dei monopoli industriali e delle forme centralizzate di governo.»

Lo stesso vale per la misura del controllo esercitato: perfino la Chiesa cattolica del Medioevo era tollerante, rispetto agli standard moderni. Il motivo è in parte il fatto che in passato nessun governo aveva il potere di tenere i propri cittadini sotto costante sorveglianza…

«Il perfezionamento tecnico della televisione, in particolare, consentendo di ricevere e trasmettere simultaneamente immagini attraverso il medesimo strumento, pose fine alla vita privata.
Ogni cittadino – almeno ogni cittadino tanto importante da giustificare un simile impegno – poteva essere osservato dalla polizia ventiquattr’ore su ventiquattro, e immerso nel sonoro della propaganda ufficiale… Per la prima volta diveniva possibile indurre nelle coscienze non solo una cieca obbedienza alla volontà dello Stato, ma anche una totale uniformità di opinioni.»

Anche l’agenda globalista dell’attuale criminocrazia è chiaramente descritta: «Il Partito persegue due fini essenziali: conquistare tutta la Terra e distruggere definitivamente ogni forma di libero pensiero.»

Le tre zone in guerra del mondo multipolare di Orwell hanno ideologie che sono solo superficialmente diverse: «Nell’Oceania il sistema dominante si chiama Socing, in Eurasia Neobolscevismo, mentre per l’Estasia si fa ricorso a un’espressione cinese, di solito tradotta col nome di Culto della Morte… In realtà le tre dottrine sono assai simili fra loro, mentre i sistemi sociali che esse informano sono assolutamente identici.»

I tiranni immaginari di Orwell si abbandonano addirittura alla stessa pianificazione a lungo termine per aumentare il controllo, dichiarando che entro il 2050: «Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.»

Sono decisi ad abolire la vita umana naturale: «I bambini dovevano essere generati per mezzo dell’inseminazione artificiale (insemart, in neolingua) e allevati dalle pubbliche istituzioni», e sono orgogliosi del successo del loro progetto di distanziamento sociale; «Abbiamo infranto ogni legame fra genitori e figli, uomo e uomo, uomo e donna.»

A ciò si accompagna la mobilitazione dei giovani indottrinati per imporre il dogma ufficiale. «Era quasi normale che le persone di età superiore ai trent’anni avessero paura dei propri figli. Non passava settimana, infatti, che il Times non contenesse un articolo su qualche orecchiuto spioncello (l’espressione usata in questi casi era “bambino eroe”) che aveva captato un”osservazione compromettente nella conversazione dei genitori e perciò li aveva denunciati alla Psicopolizia.»

Il mito del progresso gioca un ruolo importante nel mantenimento dell’accettazione sociale per questo regime totalitario immaginario.

«Giorno e notte i teleschermi vi riempivano le orecchie di statistiche comprovanti che adesso la gente aveva più cibo, più vestiti, case migliori, divertimenti migliori… che viveva più a lungo, che lavorava per un numero minore di ore, che, rispetto a cinquant’anni prima, era più in carne, più sana, più forte, più felice, più istruita. Non era possibile dimostrare o contestare nulla di tutto ciò.»

Al centro del controllo psicologico del Socing sulla popolazione c’è l’invenzione e lo sviluppo della neolingua, un gergo politicamente corretto volto a inserire la visione del mondo del Partito nei termini stessi necessari per pensare e comunicare.

Parlare e scrivere usando le parole nel loro senso originale era considerato Archelingua e quindi doppiamente arcipiùsbuono e poteva anche portare a un soggiorno prolungato in un camposvago.

La neolingua svolge un ruolo importante nella criminalizzazione della libertà da parte del regime.

Accanto al noto concetto di Psicoreato del Socing esiste anche il Facciacrimine: «avere sul volto un’espressione sconveniente (come il mostrarsi increduli, per esempio, all’annuncio di una vittoria.»

Orwell aggiunge: «Compiere una qualsiasi azione che lasciasse intendere una certa predilezione per la solitudine, perfino fare due passi da soli, era sempre un po? pericoloso. In neolingua vi era una parola che la definiva, vitinprop, che stava a indicare individualismo ed eccentricità.»

Accanto alle tecniche mentali del Bispensiero e dello Stopreato, che ho descritto in un articolo precedente, troviamo il Nerobianco che «indica la sincera volontà di affermare che il nero è bianco quando a richiederlo sia la disciplina di partito» e anche «la capacità di credere veramente che il nero sia bianco e, più ancora, di sapere che il nero è bianco, dimenticando di aver mai pensato il contrario.»

I vaccini sono sicuri ed efficaci. Le donne possono avere peni. Il pensiero critico è pericoloso.

Anche quando le vecchie parole non vengono effettivamente abolite, vengono private del loro significato essenziale.

Orwell spiega: «in neolingua esisteva ancora la parola libero, ma era lecito impiegarla solo in affermazioni del tipo “Questo cane è libero da pulci”; o “Questo campo è libero da erbacce”. Non poteva invece essere usata nell’antico significato di “politicamente libero” o “intellettualmente libero”, dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più neanche come concetto e mancava pertanto una parola che la definisse.»]

Questa manipolazione ha un impatto reale nella creazione di uno spazio sociale più sicuro e inclusivo, libero da disinformazione, incitamento all’odio o qualsiasi tipo di teoria della cospirazione o negazionismo: «In neolingua l’espressione di opinioni non ortodosse, al di sopra di un livello molto basso, era quasi impossibile.»]

Una delle battute più memorabili del romanzo è l’insistenza del Partito sul fatto che «“Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”.»

Qualsiasi contenuto inappropriato che sia stato precedentemente pubblicato deve essere mandato nell?oblio nel buco della memoria.

«Non possiamo tollerare che un pensiero sbagliato esista in una parte qualsiasi del mondo», sottolinea O’Brien, membro del Partito Interno, e apprendiamo che «non si permetteva che restasse traccia di notizie o opinioni in contrasto con le esigenze del momento.»

Il risultato è una popolazione totalmente disorientata. «Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità.»

«Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna. Il senso comune costituiva l?eresia delle eresie.»

Le parole di O’Brien assumono una certa sfumatura postmodernista quando insiste: «Noi controlliamo la materia perché controlliamo la mente. La realtà si trova nella scatola cranica.… Le cose esistono solo in quanto se ne ha coscienza.»

Soprattutto, la mafia al potere vuole nascondere la sgradevole realtà del suo controllo. «Tutte le convinzioni, i costumi, i gusti, le emozioni, gli atteggiamenti mentali che caratterizzano il nostro tempo sono stati in realtà programmati al solo fine di sostenere la mistica del Partito e di impedire che venga colta la vera natura della società contemporanea.»

La falsa opposizione è un altro strumento utilizzato da Socing per ingannare e schiacciare i potenziali dissidenti, in particolare la figura da cartone animato dell’arcisovversivo Emmanuel Goldstein, autore di un libro intitolato The Theory and Practice of Oligarchical Collectivism (Teoria e pratica del collettivismo oligarchico, che ha un chiaro sentore di Karl Marx.

Invece di vedersi negare l’ossigeno della pubblicità da parte del regime, come ci si potrebbe aspettare, il suo volto e le sue parole vengono costantemente mostrati sui teleschermi come un odioso opposto binario del Grande Fratello, figura di spicco del Socing.

«Goldstein stava rivolgendo il solito attacco velenoso alle dottrine del Partito, un attacco così eccessivo e iniquo che non avrebbe tratto in inganno neanche un bambino e purtuttavia plausibile quanto bastava a trasmettere l’allarmante sensazione che potesse far presa su persone sufficientemente credule e ingenue» scrive Orwell.

Sebbene Goldstein «chiedeva a gran voce libertà di espressione, libertà di stampa, libertà di associazione, libertà di pensiero», lo fa «parlando concitatamente ed esprimendosi in uno stile polisillabico che suonava come una parodia del modo di parlare tipico dei membri del Partito e nel quale non mancava, addirittura, qualche parola in neolingua. A dire il vero, ne conteneva più di quante un membro del Partito ne avrebbe usate normalmente.»

L’inversione deliberata e maligna del significato fa parte tanto della distopia di Orwell quanto del mondo di oggi, soprattutto con lo slogan del Partito «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.»

Si dice che il Socing e le altre ideologie globali simili siano nate da filosofie a cui ancora prestano “adesione formale”, pur ribaltando i loro ideali originali perseguendo «in maniera del tutto conscia il fine della mancanza di libertà e della ineguaglianza

«Il Partito respinge e mortifica tutti i principi che erano in origine alla base del movimento socialista, e ha scelto di farlo proprio in nome del Socialismo.»

«Perfino i nomi dei quattro Ministeri che ci governano manifestano una sorta di impudenza nel loro deliberato stravolgimento dei fatti. Il Ministero della Pace si occupa della guerra, il Ministero della Verità fabbrica menzogne, il Ministero dell’Amore pratica la tortura, il Ministero dell’Abbondanza è responsabile della generale penuria di beni.»

A questa demoniaca inversione di valore si aggiunge una malefica ossessione per il potere, fin troppo familiare a noi oggi.

O’Brien dichiara: «Il Partito ricerca il potere in quanto tale. Il bene altrui non ci interessa, è solo il potere che ci sta a cuore.… Noi sappiamo che nessuno si impadronisce del potere con l’intenzione di cederlo successivamente. Il potere è un fine, non un mezzo. Non si instaura una dittatura al fine di salvaguardare una rivoluzione: si fa la rivoluzione proprio per instaurare la dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione, il fine della tortura è la tortura, il fine del potere è il potere.»

In un’altra delle frasi agghiaccianti per cui 1984 è così famoso, aggiunge: «Se vuoi un’immagine del futuro, pensa a uno stivale che calpesti un volto umano in eterno.»

Per il regime è importante che il suo controllo sia così completo che diventi impossibile anche solo immaginare che un giorno possa finire.

O’Brien dice a Winston: «Se hai mai cullato il sogno di una insurrezione violenta, è meglio che lo lasci perdere. Non esiste alcuna possibilità di rovesciare il Partito. Il Partito governerà in eterno. Da qui deve muovere ogni tuo pensiero.»

Il senso di impotenza imposto dal Partito sembra funzionare su Winston, almeno per quanto riguarda le prospettive della sua personale microribellione, e «non voleva accettare che per legge di natura il singolo è destinato a essere sconfitto in ogni caso.»

Il fatto che finisca per tradire i suoi principi sotto tortura nella Stanza 101, denunciando la sua Julia e ammettendo di amare il Grande Fratello, può lasciare il lettore con un senso di sconfitta pesante e impotente e da tempo considero questo un difetto del libro.

Ma uno sguardo più attento rivela che c’è anche qualcos’altro, una profonda controcorrente di speranza che scorre contro l’ondata della repressione totalitaria.

Una parte di questa speranza Winston la vede nell’85% della popolazione nota come “prolet”, anche se la loro creduloneria e mancanza di immaginazione lo frustrano: «Non avrebbero dovuto fare altro che levarsi in piedi e scrollare le spalle, come un cavallo che scuote da sé le mosche. Se avessero voluto, avrebbero potuto fare a pezzi il Partito l’indomani stesso. L’avrebbero pur dovuto fare, prima o poi. Eppure…»

Trova anche incoraggiamento nella capacità di una persona come Julia di vedere attraverso le bugie diffuse dal regime, nonostante l’imponente muro di inganni che ha costruito attorno alle sue attività.

Sorprende Winston «affermando con noncuranza che secondo lei questa guerra non esisteva. Le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell’Oceania, “per mantenere la gente nella paura”.»

La capacità umana di vedere la verità e di rimanervi fedele nelle situazioni più difficili è la chiave della varietà di speranza di Orwell, nonostante tutto.

«Essere in minoranza, anche una minoranza di uno solo, non ti rendeva pazzo. C’era la verità e la non verità, e se ti aggrappavi alla verità anche contro il mondo intero, non eri pazzo.»

Descrive anche un’innata sensazione di giusto e sbagliato che ci consente di percepire che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella società in cui viviamo.

Winston, riflettendo sul proprio disagio, pensa: «non costituiva comunque il segno che non era questo l’ordine naturale delle cose… Come sarebbe potuto apparire intollerabile, tutto ciò, se non si fosse conservato una sorta di ancestrale ricordo che le cose un tempo erano state diverse?»

È questa fonte di speranza al di là dell’individuo fallibile e mortale a cui Smith cerca di aggrapparsi durante il suo interrogatorio.

Dice a O’Brien: «Io so che fallirete. C’è qualcosa nell’universo… non so, uno spirito, un principio… che voi non riuscirete mai a dominare.»

Orwell, la cui salute stava peggiorando mentre scriveva il romanzo, non poteva proiettare alcuna prospettiva di cambiamento immediato nella sua società immaginaria.

Tuttavia, Winston dice a Julia: «Non credo che nel corso della nostra esistenza noi possiamo cambiare qualcosa, ma non è impossibile immaginare piccoli nuclei di resistenza che nascono qua e là, gruppetti di persone che si mettono insieme e poi lentamente infittiscono le proprie file, fino a lasciare dietro di sé una qualche traccia visibile. In tal modo la prossima generazione potrebbe riprendere il cammino là dove noi lo abbiamo interrotto.»

Queste non sono le parole di un uomo che si è arreso alla disperazione.

Ma l’elemento più importante in questa controcorrente nascosta dell’ottimismo orwelliano è qualcosa che ho notato solo nella mia più recente rilettura.

L’appendice, I principi della neolingua, ripercorre il periodo del Socing al passato, dal punto di vista di un futuro più lontano in cui l’incubo del Grande Fratello è evidentemente giunto al termine e in cui una sorta di libertà e di buon senso sono stati ripristinati.

Egli osserva, ad esempio: «solo una persona totalmente radicata nel Socing potrebbe apprezzare a pieno l’energia del termine ventralsentire, che implicava un senso di accettazione cieca ed entusiasta, quale non è agevole a trovarsi oggi.»

Quindi all’orizzonte c’è un “oggi” in cui “l’accettazione cieca ed entusiastica” del totalitarismo non solo appartiene al passato, ma è addirittura “difficile da immaginare”.

A conferma di ciò, l’ignoto autore di questo resoconto pseudo-storico osserva che «l’adozione integrale della neolingua era stata fissata solo per il 2050.»

Queste sono le ultime parole nell’ultima pagina del libro e Orwell ci dice qui, proprio alla fine del suo racconto, che il regime del Socing è caduto prima di poter realizzare il suo programma a lungo termine di cancellare completamente la libertà umana!

Il Partito può essere rovesciato! Lo stivale non ha calpestato un volto umano per sempre!

E come è stato possibile, di fronte allo schiacciante controllo a tutto campo delle vite e delle menti delle persone che Orwell descrive con effetti così terrificanti?

Può essere stato possibile solo grazie al rifiuto di lasciar perdere la verità e alla fede nello spirito dell’universo che alla fine impedirà alla morte di prevalere sulla vita, alla schiavitù sulla libertà o al potere sull’umanità.

Orwell deve aver scritto 1984 per il disperato e ispirato bisogno di fare la sua parte nella lotta contro le forze dell’oscurità che ci attendono.

Ha fatto quello che ha potuto e, come ho detto, per molti anni il suo monito ha contribuito a frenare l’avanzata della tirannia.

Ora tocca a noi raccogliere il testimone della sfida profonda che ci sta porgendo, attraverso i decenni.

Sta a noi trarre ispirazione dalla nostra memoria ancestrale dell’ordine naturale, vedere oltre le bugie del sistema, unirci in piccoli gruppi e formare nodi di resistenza che manterranno la bandiera lacera della libertà a sventolare con orgoglio negli anni a venire.

Dobbiamo farlo senza sperare che la vittoria sia necessariamente raggiunta nell’arco della nostra vita, ma dobbiamo semplicemente mirare a fare tutto ciò che è necessario affinché, secondo le parole di Orwell, «la prossima generazione possa riprendere il cammino là dove noi lo abbiamo interrotto.»

D’altra parte, chi lo sa?

Forse la caduta del sistema arriverà prima di quanto potremmo pensare.

Orwell fa osservare a Winston che «la vittoria poteva essere ottenuta solo in un futuro remoto.»

Lo ha scritto 75 anni fa.

Forse quel futuro lontano è adesso!

(postato il 1° gennaio 2024 su Winter Oak di Paul Cudenec)

 

Riferimenti:

1984/2024 – the hidden hope in Orwell’s warning

https://www.youfriend.it/wp-content/uploads/2020/01/1984-Orwell-Ebook-.pdf

 

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Luisa Michel e il Nautilus

Il 21 gennaio 1954 fu varato il primo sottomarino interamente azionato da energia atomica. Era stato costruito nel cantiere della General Dynamics Corp. a Groton, Connecticut, ed era stato solennemente battezzato dalla moglie del Presidente degli Stati Uniti col nome di Nautilus. Fu ammesso al servizio della Marina il 30 settembre e dopo numerosi collaudi ed esperimenti fu ispezionato verso la fine di marzo 1955 da dodici membri dalla Commissione unica del Congresso per l’Energia Atomica, i quali ne rimasero entusiasti, e lo descrissero poi come realizzazione generosa di un sogno· letterario del secolo passato: il Nautilus immaginato nel romanzo di Giulio Verne: “Ventimila leghe sotto i mari”, un sottomarino fantastico e terribile che a fianco di una potenza distruttiva indescrivibile realizzava le più audaci visioni della scienza. Del romanzo di Giulio Verne è stato questione in questi ultimi tempi anche per altre vie. Se n’è parlato molto, in Francia specialmente, per la ricorrenza del cinquantesimo anniversario della morte del Verne avvenuta appunto il 24 marzo 1905 – e per la presentazione sugli schermi cinematografici di tutto il mondo di una nuova versione delle avventure del Nautilus, eseguita sotto la direzione di. Walt Disney con poca fedeltà letteraria, è vero, ma con una competenza tecnica che ha guadagnato ai fotografi delle profondità sottomarine il premio dell’Accademia Cinematografica (“Oscar”) per l’anno 1954. Se non che, nel gennaio ricorse un altro anniversario, il cinquantesimo della morte di Luisa Michel, avvenuta a Marsiglia il 10 gennaio 1905. E Luisa Michel, scrittrice di valore, eroina della Comune, propagandista indefessa dell’anarchismo è la vera ideatrice del Nautilus, il sottomarino immaginario del romanzo di Giulio Verne, realizzato ora per mezzo dell’energia atomica dai preparatori della terza guerra mondiale. Lo ricorda – agli ignari ed a quanti fingono di ignorare – il compagno G. de Lacaze-Duthiers, un dotto compagno francese, in un articolo documentato che vede la luce nel numero di maggio del mensile parigino: Le Monde Libertaire, dove dice tra l’altro: “Degli uomini dotti, e degli eccelsi, concordano nel riconoscere a Giulio Verne il merito di aver preveduto il sottomarino atomico nel libro ”Ventimila leghe sotto i mari”, pubblicato dalla casa editrice Hetzel nel 1870. Bisogna ristabilire la verità. Luisa Michel si era applicata a quell’epoca alla soluzione di certi problemi scientifici, risolvendo i quali, secondo lei, si sarebbe potuto avvantaggiare tutta l’umanità. Certo: la “Bonne Louise” era lontano dal prevedere l’impiego che di una simile scoperta avrebbero fatto gli stregoni in erba. Avrebbe senza dubbio preferito tenere nel cassetto il suo manoscritto, o distruggerlo addirittura, invece di farlo pubblicare. “Luisa aveva previsto anche l’aeroplano, destinato a subire la medesima sorte, d’essere impiegato alla distruzione degli esseri e delle cose mentre avrebbe potuto servire a fini di pace … “Ma torniamo alla navigazione sottomarina, che in un’opera teatrale, il “Nuovo Mondo”, aveva intravista come di prossima realizzazione, al pari della navigazione aerea. Quella era un’idea che le stava molto a cuore, tanto che l’aveva spinta a scrivere un’opera che un altro avrebbe sottoscritto, in vece sua”. Ne da testimonianza Emile Girault, il quale scrive testualmente nel suo studio: “La Bonne Louise, Psychologie de Louise Michel”, pubblicato nel 1885: “Cosa molto singolare è che, pur non essendo una scienziata, Luisa aveva intuizioni meravigliose. Cosi molti per non dire tutti, saranno sorpresi d’apprendere, per esempio, che il famoso libro “Ventimila leghe sotto i mari”, pubblicato da Giulio Verne, è suo; non già beninteso, il romanzo quale è stato pubblicato, ma l’idea fondamentale: il sottomarino, l’universalmente noto sottomarino Nautilus, cbe ella aveva concepito. Il suo manoscritto era di circa duecento pagine e un giorno che aveva più del solito bisogno di denaro, vendette il manoscritto al celebre volgarizzatore per cento franchi”. Fernand Planche, il più recente biografo di Luisa Michel, riferendo sulla sua attività di scrittrice, scrive in proposito: “Sempre nel gènere sociale-scientifico, Luisa Michel scrisse ”Ventimila leghe sotto i mari”. Un giorno che aveva molto bisogno di denaro, vendette il suo manoscritto, senza terminarlo, per cento franchi, a Jules Verne (E. Girault). “Quando la gente dice: “Straordinario quel Giulio Verne, ha previsto il sottomarino, si sbaglia. Il “Nautilus” è di Luisa Michel. Giulio Verne si è limitato a finirlo aggiungendovi qualche capitolo. Quel libro ebbe il massimo successo e gli procurò una fortuna. Ma fu Luisa Michel a concepirne l’idea fondamentale”. E l’idea fondamentale è quella del sottomarino “Nautilus”, per l’appunto, concepito dal cuore e dalla mente di Luisa Michel come arma di liberazione e di emancipazione umana. Era una rivoluzionaria, scrive nel suo articolo G.de Lacaze-Duthiers, confidava nell’avvenire di un giorno in cui gli esseri umani avrebbero raggiunta la piena coscienza della propria forza e della propria dignità, e in cui le scoperte della scienza sarebbero impiegate per il bene e per la felicità di tutti: “Aveva in tutti i campi idee originali, e misconosce !’opera sua chi non tenga nel dovuto conto questo lato del suo temperamento”. È certamente ironico che il “Nautilus,” sognato da Luisa Michel abbia finito per realizzarsi nel Nautilus del generale Eisenhower e dell’industriale Charles E. Wilson. Ma ciò vuol dire soltanto che l’aspirazione di emancipazione sociale che aveva inspirato a Luisa quel suo generoso sogno rimane da realizzare. La scienza – come il capitale – serve chi le impone la propria autorità. Come il capitale, servirà il genere umano tutto quanto solo quando questo, liberando se stesso l’avrà liberata dalle imposizioni dei prepotenti. (Tratto da L’Adunata dei Refrattari N.23, del 4 giugno 1955)

 

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