PUZZ

Il primo numero di PUZZ1Il primo numero di PUZZ esce come inserto del mensile Humor a Milano nel 1971, sull’onda scomposta dell’underground nostrano, producendo fumetti banali specializzati nel detournament di certe forme spettacolari dell’esistente.
Dal 1971 al 74, le analisi teoriche prendono sempre più spazio sulla rivista mentre i fumetti si raffinano in una critica mordente e radicale dell’esistente capitalista.
Fino al 1978 da PUZZ passerà di tutto, decine di fumettari, militanti incazzati, giovani proletari di Quarto Oggiaro, comunardi di Cuggiono, autoriduttori, via via scivolando dalla controcultura ai confini della lotta armata.
La linea di tendenza teorica della critica radicale o negazionista di PUZZ segna alcune discriminanti di fondo: abolizione del lavoro, superamento della politica come espressione ritardataria di un terreno già bruciato dal capitale.
La critica radicale rappresenta l’unico strumento dialettico e reale per svelare, innanzitutto, i luoghi in cui il capitale si produce all’interno degli individui.
PUZZ si distingue per l’uso non banale del linguaggio per sciogliere le codificazioni, troppe volte accessorie, di un potere che, non a torto annichilisce.
Si tratta alla fine di non avere più idoli, né mercati o parole d’ordine a cui ubbidire, si tratta alla fine di insorgere nella pratica del rifiuto, spezzando la normalità rassegnata e i suoi eccessi estremi.
Alle squadre politiche delle polizie e dei partiti sempre più piacerebbe capire chi siamo. Giacché noi stessi possiamo riconoscerci solo nella critica che ci chiarisce ciò che non siamo e ciò che non vogliamo; giacché noi stessi parliamo a lingua di chi vive la trasformazione e l’inidentità; giacché esistiamo come soggetto plurale solo a condizione di sperimentare collettivamente la nostra contraddizione in processo con le forme stesse delle nostre realizzazioni, a man mano che esse soggiacciono ad ogni sorta di recupero; lo sforzo di identificarci secondo le logiche collaudate da due secoli di controrivoluzione si ritorce visibilmente e ignobilmente su chiunque vorrebbe imprigionarci in una formula, per consegnarci più agevolmente alle mura del carcere.
“Provocatori” e il termine che ricorre identico nelle prose ammorbanti della stampa di regime, con significativa coralità che accomuna nella stessa trincea giornalismo democratico e stampa militante. Accettiamo, capovolgendolo, il termine.
Se provocatori significa uomini e donne che non accettano le miserie del gioco politico; se significa nuclei informali che sfuggono ad ogni schema di racket gerarchizzato; se contrassegna esperienze mai riducibili ai precetti delle teorie “rivoluzionarie” sconfitte dalla storia e fatte proprie dalla controrivoluzione; se distingue chi non subisce l’interiorizzazione del capitale e combatte ogni forma d’autovalorizzazione; se qualifica lo sviluppo di un pensiero e di una pratica che rifiutano di costituirsi in sfere separate dal vissuto individuale come collettivo; se “provocatori” significa tutto questo, allora noi siamo provocatori!
Siamo provocatori di quel processo di demistificazione che costringe poliziotti, politici del regime e capi-racket dell’opposizione fittizia, a smascherare la loro sostanziale identità, alleandosi pubblicamente contro di noi, praticando le stesse tecniche di delazione, di terrorismo, di calunnia, usando lo stesso linguaggio e la stessa logica, ricorrendo alle stesse bassezze e alle stesse triviali menzogne.
Siamo i provocatori di quel processo di superamento che conduce i rivoluzionari sinceri a rompere con il loro passato e a congiungersi con l’altezza storica e la tensione radicale del tempo, a uscire dalle strettoie delle arcaiche ideologie restrittive, per fondersi in quella tendenza verso il punto di vista della totalità che, sola, guida la critica delle forme attuali di dominio capitalistico a riconoscervi la sintesi di ogni alienazione parcellare e particolare, la summa e il punto di esplosione di ogni trascorsa oppressione separata. Siamo e saremo fino in fondo, infine, i provocatori del processo rivoluzionario.

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The Walk di Philippe Petit

The WalkPhilippe Petit è un funambolo, occhi furbi e vivaci, da 40 anni gira il mondo sfidando le leggi della gravità, a grandi altezze e senza alcun tipo di protezione. Artista poliedrico, uomo colto e dal grande spessore umano: prestigiatore, giocoliere, artista da strada, disegnatore, scrittore, coreografo, regista teatrale, poeta, scacchista, ingegnere. Visionario e perfezionista, sognatore e ribelle, incurante delle regole e dei regolamenti, un uomo con la curiosità di un bambino, che si stupisce e gioisce di piccole cose, ma al contempo un uomo dalle passioni forti, che alimenta il suo animo infuocato con esperienze al limite. Un uomo capace di concepire e portare a termine progetti ambiziosi ed estremamente complessi. Ha iniziato a girare il mondo da giovanissimo, portando in scena le sue esibizioni, sia nelle piazze che su cavi installati a grandi altezze, clandestinamente. Sono proprio le sue performance sul filo che hanno fatto echeggiare il suo nome in ogni parte del mondo: dal Sydney Harbour Bridge in Australia alle guglie di Notre Dame a Parigi, dalle Cascate del Niagara alla Torre Eiffel, per citarne solo alcune, quasi tutte installazioni illegali, dopo le quali veniva regolarmente arrestato.
Forse la sua installazione più spettacolare è quella del World Trade Center: nel 1974, all’età di 24 anni, ha teso un cavo tra le cime delle Torri Gemelle di New York, aggirando ogni sorveglianza, realizzando così il sogno di passeggiare nel vuoto tra le torri, avanti e indietro, per ben otto volte, a 412 metri d’altezza, per 45 minuti!

Il funambolismo è per Petit è un viaggio, è un confronto faccia a faccia con la morte.…

Ma il funambolismo non è un’arte della morte, ma un’arte della vita, della vita vissuta al limite del possibile. Ovvero della vita che non si nasconde alla morte, ma la guarda dritta in faccia.…

Il funambolismo è un’arte solitaria, è un modo di affrontare la propria vita, nell’angolo più oscuro e più segreto di noi stessi. Il libro è la storia di un’esplorazione, un racconto esemplare dell’umana ricerca di perfezione».

Il funambolismo, dunque, come metafora perfetta della fragilità e precarietà della vita umana, vissuta sempre ad un passo dal baratro, ma non per questo meno degna di essere vissuta, con lo scopo di trasformare questa passeggiata su un filo in un’opera d’Arte. E durante il percorso scoprire e trascendere i propri limiti.the walk movie

«Entro in un mondo mistico e misterioso quando cammino nel vuoto. Il mondo del Vuoto è abitato da energie e divinità, non è affatto vuoto e lo visito il più spesso possibile. Quando prendo il bilanciere e inizio a camminare nel vuoto, quello è il mio Altro Mondo. È un luogo caratterizzato da grande sicurezza, bellezza e silenzio. Sono totalmente assorbito e presente a me stesso.
Per la maggior parte del mio tempo non vivo qui sulla terra. Vivere con i piedi per terra, lo trovo pericoloso e spesso spiacevole. E dopo mesi e anni a preparare la mia performance, finalmente arriva l’attimo in cui sto per entrare nell’Altro Mondo. Ho questo pazzo mondo che mi aspetta ed è tutto mio, totalmente creato da me e sono felice! Divento metà uccello e metà uomo, questa è la mia dimensione». (Philippe Petit)

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Perché era lì FRANTI

franti 1Una non storia di una folk rock punk hardcore band

Tutti si voltarono a guardar Franti. E quel infame sorrise” (Edmondo De Amicis)

Nel settantasei tre studenti a Torino mettono su un complesso. Lo chiamano Franti, bastardi loro, bastardo lui, suonano mettendo dentro tutto quello che incrociano, musiche, poesie, film, cartoni animati, cortei, gioia, rabbia, camionette della polizia, sassi volanti, lacrimogeni, gonne a fiori, capelli lunghi, Pavese, Dostoevskij e Che Guevara. Altri si uniscono, altri se ne vanno, ma sempre avanti a scrivere canzoni, incidere dischi, suonare dal vivo, non solo per portare avanti l’idea della libertà e dell’indipendenza, ma per vivere, vivere la musica, e vivere la vita, senza forzature e senza scadenze. Franti diventa una formazione variabile che sperimenta varie forme espressive senza nessuna concezione o reverenza verso qualunque stile o moda. Come dicono loro: “Noi siamo un gruppo musicale autonomamente definitosi, nella misura in cui reputiamo la cultura antagonista nei contenuti e, soprattutto, nelle forme uno specifico motore rivoluzionario del movimento. Pensare, discutere, suonare, scrivere, sperimentare cose che hanno sempre fatto parte del nostro modo di essere come collettivo di persone, in questi anni fuori da ogni business e logica di mercato.
Perché era lì Franti è un libro che parla della band, ma non solo, parla di anarchia, di montagne ribelli, dell’India misteriosa, di posti occupati, di lunghi viaggi in macchina, di sogni, di suoni che scorrono tra le parole stampate, che rimbalzano sui due punti, si insinuano tra le virgolette; ogni tanto esce tra le righe la voce di Lalli e, se non ti soffermi troppo sulle immagini, il sax di Stefano ti fa voltare pagina, mentre basso e batteria di Massimo e Marco ti cullano. Se ti soffermi a pensare ad occhi chiusi quello che hai letto e infine se provi a chiudere il libro la chitarra di Vanni te lo impedisce mentre Toni Ciavarra sorride dall’alto.

Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico (Bottini nel libro Cuore) identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile.” (Umberto Eco)

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FRANTI perché era lì

Franti-volantinoconcerto-el-paso2Franti è il nome di un gruppo musicale attivo a Torino e in Italia nella prima metà degli anni 80.
Alla sua dissoluzione/rinascita/scomparsa/metamorfosi (1986) i componenti hanno continuato a suonare, alcuni fino ai nostri giorni, alcuni collaborando tra di loro.
Franti è stato un gruppo di artisti ma anche no. Un gruppo di estremisti poetico/sonoro ma anche no. Un gruppo Punx ma anche no. Un meteora? No, questo proprio no. Dall’interno del vorticante Movimento 77, migliaia e migliaia di vite, passioni, sogni, battaglie, sconfitte e silenzi hanno preso forma di canzone, la composizione collettiva di una generazione. Ve ne sono state molte di queste creazioni collettive e, artisticamente parlando, forse migliori e sicuramente più rinomate di Franti. Ma Franti è stato sempre un NON CLASSIFICATO, come il personaggio deamicisiano dal quale prende il nome e come recita il sottotitolo di questo libro/DVD, “Perché era lì”.
Franti è un nome piuttosto conosciuto, tra gli amanti di Rock/Punk/ControCultura Italiana. Va detto però che il numero di persone che ancora oggi condivide questa passione, questa comunanza poetica/musicale/politica con Franti è piccolissimo, una minuscola frazione. Franti ha venduto pochi LP, pochi CD, fatto pochi concerti, poca visibilità sulle riviste patinate. Franti è stata una emozione profonda incastonata nei feroci anni 80 (feroci quando i 90, 00, 10: si chiama “Capitalismo vs. Libertà”, baby), espressione libera della propria generazione e di quelle successive. Di una parte minimale certamente, ma sonoramente la più vitale, la più irriducibile. Lalli, la voce cantante di Franti, spesso dal palco amava ripetere “Il fiato che scorre in queste canzoni è il vostro fiato”, senza fare differenze tra chi metteva bacchette e chitarre là sopra il palco e chi metteva cuore, orecchie e la sua vita tutt’intera là sotto.

“Perché era lì” non è un libro “sui” Franti: piuttosto un libro “da” Franti, alla moda di Franti. L’alpinista e esploratore George Mallory alla domanda “Perché Lei vuole scalare l’Everest?” pare abbia risposto al giornalista: “Perché è lì!”. Franti sta scendendo a valle da 30 anni, insieme a moltissimi fratelli e sorelle che in questo libro cantano e respirano, anche se non ci sono i loro nomi in quelle pagine o in quelle immagini. Franti rinasce ogni volta che interrompi la farsa, ogni volta che costruisci uno spazio di libertà.
Ecco, oltre a invitarvi a leggere e guardare “Perchè era lì” vorrei concludere con una domanda sulla MUSICA: “Voi difendete una società in cui la grande maggioranza vive in condizioni animalesche, una società in cui i lavoratori muoiono di stenti e di fame, in cui i bambini periscono a migliaia ed a milioni per mancanza di cure, in cui le donne si prostituiscono per fame, in cui l’ignoranza ottenebra le menti, in cui anche chi è istruito deve vendere il suo ingegno e mentire per mangiare, in cui nessuno è sicuro del domani – ed osate parlare di libertà e d’individualità?” (Errico Malatesta)

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IL CONCETTO DI MALATTIA

concetto di malattiaIn quanto concetto, la malattia ricorda pertanto di non essere, come lo notava Michel Bounan, la semplice esistenza di un fattore patogeno esterno: «tutte le osservazioni dagli ultimi decenni lo hanno confermato senza eccezioni: ovunque siano riconosciuti una causa e un meccanismo d’azione, quello che i burattinai chiamano lesione è una reazione contro questa causa»; e di non essere neppure la sconfitta di questo processo di reazione scatenato dal vivente, per mancanza di mezzi o ancora per il fatto di un’accumulazione intollerabile di fattori patogeni esterni; ma si può anche spiegare come reazione male informata, mal concepita, mal diretta del vivente nei confronti del suo stesso male. «Alla fine appartiene al regno umano, il cui sistema nervoso è il più complesso, la straordinaria funzione induttrice di inventare gli strumenti materiale e concettuali per trasformare il mondo, che lo modifica a sua volta. E’ quello attraverso cui l’universo ha una coscienza di sé e una storia». Ora il ritorno a sé pubblicizzato dal dominio sulla natura definisce la storia delle società in maniera perfettamente sinonima della dialettica delle forze e dei rapporti di produzione sviluppata da Marx, che è meno invecchiato di quanto non si creda. Occorre anche aggiungere, come faceva Marx, che i rapporti di produzione dominanti resistono all’aumento delle forze di produzione, li piegano cioè alle esigenze del loro mantenimento, e che numerose forme di società sono riuscite in modo durevole, se non definitivamente, a spezzare quello che poteva andare al di là di esse. Anche se «non è l’ambiente circostante a determinare la coscienza, ma l’attività vivente nel suo movimento per dominare questo ambiente», anche se «ogni vivente, nel suo principio e nella sua organizzazione, è soltanto una reazione al mondo, che ricrea incessantemente. Si trasforma così con l’ambiente modificato e, nella sua attività e nelle sue metamorfosi, costruisce altri strumenti per edificare sé stesso, per costruire nuovi strumenti», il comportamento del vivente che gli permette di trasformare il suo ambiente tende tuttavia a solidificarsi e a intralciare ogni modificazione di sé oltre i limiti che gli paiono tollerabili: il sistema formato dalle due trasformazioni deve restare un insieme coerente. Da parte sua, benché sia eccessivo assimilarla puramente e semplicemente a un organismo vivente, la società organizza anch’esso la sua informazione, quindi l’esistenza e l’orientamento delle reazioni contro i mali che incontra. Ma contrariamente al vivente in generale; questa società presenta la peculiarità di essere scissa, di contenere interessi opposti, e di vivere a partire da questa opposizione; e, allo stesso modo, si tratta meno per lei dei mali che incontra che di quelli che produce essa stessa per il fatto di questo divario. Se nei tempi precedenti l’avvento dell’economia capitalista il divario sociale si esprimeva attraverso una forte separazione dei gruppi sociali e una certa coerenza interna a ognuno di loro e anche fra loro (coerenza specifica che rimpiangono amaramente i conservatori e i fautori della “Tradizione”), il dominio del sistema mercantile concentrato ha sconvolto e annientato l’insieme dei salvagenti sottomettendolo ai suoi imperativi. Il sistema di produzione del valore e di scambio mercantile ha concentrato in sé tutti gli antichi divari sottraendoli oramai a uno sguardo, se così si può dire, “ingenuamente etnografico”. La malattia non consiste più nell’ineguaglianza e nell’essere-estraneo tra le vecchie sfere separate, ma nell’essere-estraneo universale e unificato che respinge il reale e il vivente ai confini dell’impero del valore. Il burattino disarticolato di cui parlava Bounan, prima di essere l’illusione dei medici, è innanzitutto il prodotto dell’economia mercantile: un puzzle che non è tenuto ad avere vita propria, ma a funzionare come semplice assemblaggio, più o meno vivibile, di pulsioni e facoltà sfruttabili in seno a una megamacchina a rendimento intensivo. (Renaud d’Anglade)

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Azione diretta, due parole!

bresci“Azione individuale o collettiva esercitata contro l’avversario sociale con i soli mezzi dell’individuo o del gruppo”(Enciclopedia Anarchica) – mentre l’azione parlamentare , o indiretta, ha luogo sul terreno detto legale tramite le formazioni politiche e i loro eletti. Un operaio, un sindacato, che rivendicano, discutono col padrone, fanno azione diretta. Questa può essere legale o illegale, difensiva o preventiva; senza escludere il ricorso alla violenza, non è necessariamente violenta. In periodo rivoluzionario, lo sciopero insurrezionale rappresenta la forma estrema dell’azione diretta, dato che il suo scopo è quello di permettere alla classe operaia di impadronirsi degli strumenti di produzione e di scambio. In questo caso, necessariamente violenta, diventa il primo atto politico del proletariato che instaura la proprietà collettiva.
Rivendicazioni, manifestazioni, scioperi, sabotaggi sono tutte forme dell’azione diretta che seguono la storia del movimento operaio. La storia del movimento anarchico, da parte sua, mette in rilievo atti individuali di azione diretta che, pur senza attaccare direttamente lo stesso regime, hanno posto in stato di insicurezza uno o l’altro dei rappresentanti dello Stato, del suo apparato giudiziario o poliziesco, e dell’ordine borghese.

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URLO (Howl) Diretto da Rob Epstein e Jeffrey Freidman

urlo«Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia …»
Era il 13 ottobre 1955 quando un giovane poeta, gli occhi ardenti dietro le lenti da miope, la voce swingante, leggeva pubblicamente alla Six Gallery di San Francisco il testo che avrebbe rivoluzionato la poesia e acceso le giovani menti della seconda metà del Novecento. Il poeta era Allen Ginsberg, il poema, Howl (Urlo). Un pugno nello stomaco per la crudezza con cui ritraeva l’altra faccia del sogno americano: droga, morte, solitudine, follia. Ma anche incredibile energia vitale. La stessa, grazie alla quale Ginsberg e i suoi compagni d’avventura diedero vita a quella che fu poi battezzata beat generation: una corrente poetica che si fece pensiero filosofico e movimento di massa.
Il film ha tre piani narrativi che si intrecciano armoniosamente. C’è la vita giovanile di Ginsberg con i suoi amici Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, con i suoi amori (il primo, Neal Cassady, e quello della vita, Peter Orlowsky) e con le prime letture pubbliche del poema. C’è il processo creativo, straordinariamente raffigurato attraverso i disegni animati di Eric Drooker, che già aveva illustrato alcune poesie di Ginsberg, del quale era amico fin da ragazzino. E c’è il processo penale, rigorosamente ricostruito sulle trascrizioni degli atti, che nel 1957 vide imputato Ferlinghetti, editore di Howl, per linguaggio osceno.
Il consumo disinibito di droghe e omosessualità sfrenata esplode sulla pagina stampata e il dibattito su cosa abbia valore letterario e cosa ne sia totalmente sprovvisto apre una breccia nella critica accademica. L’accusa infierisce su forma e stile, estrapolando versi che, privi di contestualizzazione, divengono facili bersagli, mentre nel salotto di casa propria Allen Ginsberg riflette sulle scelte compiute conversando con un anonimo intervistatore. L’arringa finale dell’avvocato Ehrlich è un inno alla libertà di pensiero ed espressione, il tentativo di portare la luce in un universo, quello letterario, dominato da tradizionalismi e chiusure mentali. Liberare Urlo dal giogo censorio significa aprire uno spiraglio culturale alla modernità, al progresso, alla diversità, consacrando un poeta al successo della prova più difficile: quella del tempo.
Rob Epstein e Jeffrey Friedman sono una nota coppia di documentaristi statunitensi. I loro lavori hanno da sempre scavato in argomenti (problematiche o semplicemente cronache) legati al mondo dell’omosessualità. Epstein diresse nel 1984 “The Times of Harvey Milk”, documentario che ripercorre la vita e la carriera politica di Harvey Milk, consigliere gay eletto a San Francisco. Il film ispirò Gus Van Sant per il suo “Milk” e ottenne l’Oscar come miglior documentario.urlo 2

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La difesa del territorio contro l’ideologia del progresso

aereoOvunque nel mondo i territori tradizionali vengono invasi e saccheggiati da vere e proprie forze di occupazione, che non invocano nemmeno una pretesa utilità sociale per giustificare il peggio: sono addirittura gli svaghi imbecilli e degradanti dei più fortunati a ordinare la distruzione della vita. Così, nel 2009 dei Masai della regione di Loliondo, in Tanzania, sono stati cacciati e incarcerati per far posto a delle concessioni per safari ad alta redditività: diversi villaggi sono stati incendiati, lasciando migliaia di persone senza casa, senza cibo e senza acqua. Lo stesso anno la polizia antisommossa tanzaniana ha dato alle fiamme diverse proprietà e scorte di alimenti dei Masai per espellerli dalle loro terre ancestrali. Nel 2007, nella parte centrale del paese, la tribù di cacciatori-raccoglitori degli Hazda, il più antico popolo africano, ha evitato per un pelo di essere allontanata da una parte dei suoi territori per far posto alla creazione di una riserva di caccia. E si troveranno molti altri esempi del processo di liquidazione della vita umana in una recente dichiarazione del Congresso nazionale indigeno messicano (Comunicato del 30 agosto 2012), che rende l’idea degli innumerevoli espropri, violazioni e altre attività criminali compiute quotidianamente, in tutta impunità, contro una moltitudine di villaggi e di tribù indigene del Messico.
Dunque non possiamo cullarci nelle illusioni: in assenza di una reazione collettiva che possa innalzarsi al livello di minaccia, nei fatti è la totalità del pianeta che, sotto le forme le più diverse, ecologicamente insidiose oppure brutalmente militar-poliziesche, è chiamato a diventare presto o tardi una gigantesca concessione di caccia all’uomo, pure lui ridotto al rango di “concetto vecchiotto e privo di interesse”. A quel punto non resterà altro rifugio che credere in una “vita postuma”, ovvero nella sopravvivenza di un ricordo: quello della volontà di resistenza manifestata da qualcuno che, se non sprofonderà nell’oblio, forse verrà trasmessa ad altri.

(Tratto da: Prospettive Industriali: Il collettivo editoriale delle Éditions de La Roue)

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Razionalismo e misticismo nella controcultura americana degli anni ’60

controculturaNel 1962 il poeta beat Ed Sanders scrisse un virulento saggio intitolato An Essay against the Culture. Suo obiettivo principale erano i costituenti culturali dell’immaginario dell’Occidente capitalista e borghese, rinchiuso in una logica incentrata sui valori del profitto e del consumo. La stessa sinistra, secondo Sanders, sembrava incapace di superare questo orizzonte limitato e di porsi la questione della liberazione dell’uomo in termini che mettessero radicalmente in discussione i valori fondanti della società opulenta. Negli anni successivi la fortunata locuzione di Sanders divenne l’etichetta per indicare gli esperimenti di vita, le proposte intellettuali e le elaborazioni politiche della cultura giovanile, che culminarono in eventi-avvenimenti tanto differenti quanto la ribellione studentesca del ’68 e la protesta hippy. La cosiddetta «controcultura» era il prodotto di una critica dell’esistente che fondeva un momento etico e un momento epistemologico. Da un lato si proponeva la trasgressione programmatica dei valori morali correnti (la famiglia, le norme sessuali, l’etica del lavoro, i doveri sociali, eccetera), prospettando una diversa organizzazione della convivenza civile e delle relazioni umane, sia a livello macrosociale (comunismo, comunitarismo, socializzazione delle forme di produzione e distribuzione), sia a livello microsociale (contestazione del matrimonio, allargamento della famiglia mononucleare, adozione di princìpi comunitari, eccetera). Dall’altro si confutavano i modelli dominanti della tradizione scientifica occidentale (giudicati funzionali all’ideologia repressiva messa in atto dalle istituzioni controllate dalle classi egemoni), rivalutando forme di conoscenza meno compromesse con il razionalismo conservatore (per esempio paradigmi gnoseologici non strettamente basati sulla comunicazione intellettiva) e riferendosi spesso a tradizioni olistiche (le filosofie orientali, o magari la psichedelia di uno dei massimi «santoni» hippy, Timothy Leary).
Al centro di questo coacervo di esperienze politiche, sociali e intellettuali ritroviamo i costituenti della tradizione libertaria. La controcultura degli anni Sessanta si configura infatti come uno dei più complessi esperimenti di liberazione individuale e collettiva del secolo. Le trasgressioni dei beat, degli hippy, degli psichedelici, dei cultori del libero amore, eccetera, lungi dall’essere semplice ritualizzazione apolitica delle forme di opposizione al sistema, si proponevano invece come una soluzione epocale dei problemi tipici non solo della società tardocapitalistica, ma di quella Weltanschauung occidentale imperniata sull’autoritarismo della ragion strumentale, sulla strategica (e artificiosa) distinzione postcartesiana tra soggetto e oggetto (uomo / natura, mente / corpo, eccetera), e infine sulla gestione precipuamente politica dei modelli di interazione. In altri termini, non è impossibile interpretare la controcultura americana come uno dei momenti più alti di strutturazione degli elementi della cultura libertaria: come molti hanno riconosciuto all’epoca, alcune dottrine e alcuni atteggiamenti intellettuali tipici dello stesso anarchismo – autonomia del sociale, democratizzazione radicale delle istituzioni e loro totale decentralizzazione, preminenza dell’individuo eccetera – sono alla base delle elaborazioni dei più noti esponenti del movimento. La diffusione delle droghe psichedeliche diventa, nella prospettiva di un Timothy Leary, un metodo per liberare gli individui dalle catene create dalla società, dallo stato, dal partito. La democrazia dei consigli di Cohn-Bendit si configura come l’attuazione del sogno anarchico di una società fondata sulla libera associazione dei singoli. Lo svelamento delle funzioni repressive delle istituzioni consolidate si unisce, nell’analisi di Ivan Illich, alla riscoperta di forme alternative di interazione e socializzazione. Per Alan Watts «la via dello Zen» indica uno dei percorsi possibili per una nuova (de)valutazione dei valori dominanti del capitalismo, mentre per Carlos Castaneda le forme di conoscenza associate alla tradizione razionalistica occidentale non esauriscono certamente le possibilità dell’uomo, ma anzi ne limitano artificiosamente la portata.
Al di là delle elaborazioni dei «santoni» del movimento, nei tardi anni Sessanta gli «esperimenti pratici» si moltiplicarono, producendo una significativa costellazione dell’immaginario anarchico: comunitarismo, libero amore, decentralizzazione, ripudio dell’etica del lavoro, valorizzazione del principio del piacere…
Tuttavia, non sono certamente mancate ambiguità e contraddizioni, che hanno indubbiamente avuto un ruolo rilevante nella sconfitta della controcultura. Il riflusso nella politica è divenuto, sostanzialmente, subordinazione ai movimenti (studenteschi e non) di matrice marxista. Gli esponenti della controcultura non hanno mai saputo proporre un progetto realmente concreto, né si sono realmente confrontati con le questioni chiave (per esempio, l’organizzazione del lavoro in una società tardocapitalistica). Timothy Leary, per esempio, all’epoca non trovò di meglio che riproporre un ritorno alla società tribale, con tanto di famiglia patriarcale, sottomissione della donna, eliminazione dei «diversi» (con grande perplessità del suo amico Ginsberg, omosessuale dichiarato) e divisione del lavoro.

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John Zerzan su Marco Camenisch

marco“Non ho mai incontrato Marco di persona, ma ho intrattenuto una corrispondenza con lui durante questi ultimi anni. Conosco la sua storia di guerriero per la Terra e per la vita e i principali aspetti della sua vita di prigioniero politico.
È stato un grande privilegio per me venire a contatto con il suo spirito e la sua energia formidabili – dall’altra parte del mondo! – e conoscere la profondità della sua visione e della sua critica.
Considerato il suo straordinario impegno nella lotta contro la Megamacchina, in realtà non sorprende che la prospettiva di Marco sia di mettere in discussione la civiltà tecnologica. Per anni ha partecipato di una visione di un mondo che non solo non ha bisogno di essere gestito da un gruppo, da un’élite o da una burocrazia massificata, ma che può tornare ad essere libero e sano.
Ciò a cui vengono attribuiti vari nomi – anarchismo ecologico, anticivilizzazione, primitivismo – trova la massima espressione in una vita come quella di Marco Camenisch.
La logica dell’addomesticamento o del dominio della natura è insita nella civilizzazione stessa e continua a manifestarsi. In tandem con una sempre maggiore divisione del lavoro e una rapida tecnicizzazione della vita su ogni piano, l’egemonizzazione sembra continuare a trovare nuovi terreni di applicazione.
Forme di vita geneticamente modificate, vegetali e animali, sono la nuova frontiera del nuovo millennio per approdare al Mondo Nuovo. Tutto nella vita non è altro che un ammasso di materia da progettare, programmare, clonare per mezzo di scienze che non sono mai state così totalmente asservite al paradigma dominante.
Questo modello contamina la nostra stessa percezione della realtà. Una società di consulenza New Age pubblicizza la sua competenza professionale proclamando: “L’amore non è un mistero: è una tecnologia”. Tutto è acqua da tirare al mulino del pensiero strumentale, nulla è al sicuro dall’avanzata della macchina, dall’analogia con la macchina.
La clonazione umana è ormai vicina e quali strumenti esistono per impedirla? La vita diventa sempre più sterile: riprogrammazione con antidepressivi, pianificazione del futuro attraverso l’analisi e la correzione genetica. La natura è ciò che la tecnologia e il capitale decidono che sia, ovvero la fine di qualsiasi sfera non addomesticata. Le foreste naturali diventano arboricolture; le nostre emozioni, agonizzanti sul suolo arido, hanno bisogno di una regolare manipolazione chimica.
Il nemico non sono solo le grandi imprese multinazionali. È l’addomesticamento stesso. Il disastro chiamato agricoltura diventa sempre più visibile e comprensibile ogni giorno che passa, con ogni nuovo livello di penetrazione e controllo. La salute e la libertà ne esigono la fine.
Marco ha lottato per porre fine all’incubo industriale da cui dipende la modernità stessa. Ecco perché può contare sull’affetto e il sostegno di così tante persone. Sono estremamente felice che gli ottimi compagni di Nautilus abbiano dato a noi tutti la possibilità di condividere parte della sua vita.”
(Tratto dall’introduzione di John Zerzan, A cura di Piero Tognoli: ACHTUNG BANDITEN! L’ecologismo radicale di Marco Camenisch).

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