Il problema della violenza è intrinseco alla questione sociale

La stessa esistenza di una questione sociale indica, infatti, l’esistenza di un cattivo funzionamento della società. Palesemente, se nessuno subisse ingiustizie, soprusi, sfruttamento, truffe e imposizioni di vario tipo non ci sarebbe una questione sociale, ma ci sarebbe solo da rinnovare costantemente, correggendola in meglio, l’armonia di una società in cui ognuno troverebbe il proprio spazio per esprimersi e inventarsi forme diverse di felicità.

Nell’assenza programmata, interessata e voluta di quest’armonia sta la radice della violenza nelle sue forme sociali.

La prima violenza sociale è quando un sistema di governo nato da una volontà “quasi” generale si traduce nella gestione dell’interesse di pochi, si impone a tutti contro la loro volontà.

Il diritto alla rivolta di fronte all’oppressione e al sopruso fa parte dei diritti dell’uomo consacrati da quella stessa borghesia che ha fatto della democrazia rappresentativa il suo modello preferito di governo. Un metodo di governo così utile agli affari che è sopravvissuto alla borghesia stessa, assunta in leasing nella gestione di un capitalismo che considera ormai gli esseri umani – tutti gli esseri umani senza eccezione, pur nell’ineguaglianza redditizia dei ruoli e delle caste – necessari a produrre valore economico, ma superflui, e addirittura nocivi, per l’accumulazione senza fine di questo stesso valore.

Lo sfruttamento insensato della natura si è aggiunto, aggravandolo, a quello antico dell’uomo sull’uomo: da Kyoto a Cancun, passando per Copenhagen, lo spettacolo dello sviluppo sostenibile dell’economia programma la reale distruzione insostenibile del presente.

Chi è caduto nella trappola nichilista della lotta armata e degli anni di piombo ha seguito una nera disperazione nell’assenza di prospettive.

Dai precari della vita ai precari della sopravvivenza il passo è stato, del resto, assai lesto e sulla paura, gli sgherri del totalitarismo economicista hanno costruito il neoanalfabetismo dello spettacolo.

Dal punto di vista della rivoluzione necessaria e della democrazia diretta che la può organizzare e rendere operativa, la critica della violenza è semplicemente, e prima di tutto, strategica. 

Non si può combattere la società dell’alienazione con forme alienate e la violenza è il sintomo più evidente dell’alienazione, oltre che il suo riproduttore più fedele.

Esistono due terrorismi: quello delle organizzazioni mafiose private e quello di Stato.

Il terrorismo uccide volontariamente delle persone, per impossessarsi delle cose, anzi della cosa a cui riduce il senso della vita: il potere di cui il denaro è l’equivalente generale.

Il sabotaggio attacca le cose in nome delle persone e nega in principio il potere nella sua essenza. Si tratta allora di criticarne ogni volta gli effetti perversi, le derive che possono ridurlo a un ricatto utilitaristico.

Un buon sabotaggio è complice di chi subisce il sistema e, per esempio, anziché bloccare gli autobus li fa circolare gratis.

La gratuità è quanto il mondo degli affari sopporta peggio.

Un cattivo sabotaggio riporta, invece, le masse a rifugiarsi sotto l’ala sadica e paternalista del potere, così come sempre fa il terrorismo.

Alla fin fine la violenza ottiene sempre lo stesso scopo e anche per questo è una risposta ottusa all’ingiustizia e alla violenza del sistema.

Il grande compito di questo inizio secolo è di sottrarci al ricatto ignobile che vuole imporci la scelta tra continuità dello sfruttamento e alienazione capitalistica o una controrivoluzione autoritaria che ripristinerebbe l’antica sottomissione come il minore dei mali.

Questa voce è stata pubblicata in Critica Radicale, General e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.