UN UOMO CHE HA UNA VISIONE. Intervista a Gianni Milano

“…Un uomo che ha una visione non è in grado di servirsi del suo potere finché non ha rappresentato la visione sulla terra, davanti alla gente”

Alce Nero, 1863 – 1950, uomo di medicina Sioux

 

«Forse fu per questo motivo che centinaia di giovani, in Italia, si misero in strada per rappresentare brani della visione ed offrirli al mondo sociale. Nuovi camminanti, santi e guitti nel contempo, si ‘iniziarono’ così allo spirito della natura, della vita, dell’amore. Il codice di riferimento fu la trimurti Pace Amore Liberazione che assorbì in sé le più diverse forme di spiritualità istituzionalizzate apparse sul Pianeta. Non stupirà, quindi, il germogliare rigoglioso e diffuso di termini, comportamenti, icone anarchicamente apparse, fonti di meraviglia, stupore e tenerezza.

Le voci provenienti dall’Oriente non erano una novità ma ora diventavano comportamento, attenzione operativa, compassione. Così in molte case comparve Ganesh, in altre Krishna che flautando flautando indicava nella Bhagavad Gita un’etica rigorosa, lontana dall’insoddisfacente ipocrisia della ‘devozione’ consueta. Krishnamurti non era più il pargolo prodigioso individuato dalla teosofia ma diventava un compagno di viaggio, forse più austero e meno colorato dei ragazzi in autostop sulle strade del mondo; sempre, però, pronto al dialogo e non all’imposizione, all’indottrinamento. Gandhi e la sua ahimsa divennero strumenti di forte contestazione alla violenza istituzionalizzata, alle guerre (allora in Vietnam). Anche un piccolo povero uomo poteva arrestare la ruota ed indurla a girare in senso positivo bloccando gli effetti nocivi di un karma doloroso.

Persino dalla Svizzera giungeva un vento diverso con il Siddharta di Hermann Hesse a portare sulle onde del fiume il messaggio del Buddha con la riflessione di Lao-tze. Così non vuoti erano gli orizzonti, non àfone le strade, risuonanti, tra fame e repressione, di cimbali, colorate di fiori che a Milano, ad esempio, bionde ragazze regalavano agli acquirenti di Pianeta Fresco. Karuna (sorella Compassione) non vestiva sai di rozza tela, non si macerava in digiuni o auto-repressioni, ma fluttuava nella recitazione di mantram in sanscrito (di cui si ignorava il significato ma si conosceva il senso) e fumi di sandalo miscelato al profumo di patchouli.

Dall’Occidente poi, corrusco e triste già nel nome, come topi su una nave corsara giungevano testi, emozioni, illuminazioni urbane. Il termine dharma sempre più si familiarizzava con l’italica parlata e veniva veicolato tra istruiti ed ignoranti, tra poeti e testimoni. Kerouac aveva associato l’idea del nomadismo con la realizzazione del sentiero-dottrina. Aveva fatto provare l’emozione d’essere un nullatenente orgoglioso della sua povertà, in una sorta di francescanesimo poliglotta, eterodosso ed esaltante.

Si dormiva in soffitta, si mangiava quando ce n’era, si faceva la questua a volte, ci si voleva bene. Ecco un’ipotesi di fraternità tribale, senza padroni né (come si diceva allora) ‘capetti’ con la verità in saccoccia. L’Occidente corrusco sbarcato alla portata dei nuovi ‘santi’ (come definii in un poema i pellegrini di quegli anni) grazie alla complicità di zia Nanda (a lei pace – Om) rivelava un modo d’essere religiosi vitalistico, estremo anche, ruvido. “Se incontri il Buddha per strada uccidilo”, ricordava lo Zen, senza muovere ciglio, curando l’eterno giardino di pietra. E su tutti aleggiava la visione, nostra, dei Nativi americani, degli Aborigeni australiani, degli sciamani siberiani. Non apparire, sii!»

(Gianni Milano)

 

 Un panorama ricchissimo, quello del movimento Beat e poi di quello Hippy, che personalmente amo molto, pur senza aver vissuto in quegli anni. Cosa pensi avrei dovuto evidenziare meglio nell’articolo che ha preceduto questa intervista?

A me pare che dovresti sottolineare i fattori entusiasmo, stupore, rigore, creatività. Importante fu il rifiuto delle ideologie a favore dell’esperienza profonda collegata ai fattori di cui sopra. Lo spirito anarchico fu un buon detersivo assieme allo Zen. L’occidente aveva bisogno di spogliarsi delle sovrastrutture intellettuali, maschere sovente dell’immutabile potere. Fratello corpo non fu più estraneo subalterno alla mente e la terra ridivenne cibo e contenitore.

Potresti descriverci il background culturale italiano a ridosso delle contestazioni che si diffondevano nel mondo?

Si viveva in un bolla illusoria ed illudente: la chiamavano ‘boom economico’ che riguardava, come sempre, i soliti e non coloro che più ne avrebbero avuto bisogno. Vero è che le merci giravano e il loro acquisto diveniva uno status symbol ma altrettanto vero è che questo non ampliava l’area di auto- liberazione ed emancipazione. I “più” divenivano “clienti” e consolidavano un sistema repressivo-paternalistico con la benedizione del Vaticano, a volte sornione, a volte corrucciato. Insomma: eravamo, in Italia, come ranocchie in uno stagno, senza grandi visioni, senza ampi respiri culturali e politici: nostalgie di durezze passate, che ogni 25 aprile, per breve tempo commemoravano slanci e morti, reali, mentre l’Italietta ansimava. Mancava, insomma, la percezione della vita come esistenza irripetibile e si preferiva recitare, male, il paludoso dramma d’una rivoluzione abortita nel “tutti a casa”. Anche le contestazioni, in Italia, scivolavano lungo canovacci già praticati: quasi si temeva di volare. Il moralismo,poi, che annichiliva in una burletta il senso dell’etica, ungeva i giorni. Si pativa, credo, la mancanza di “vere” prospettive e di vere domande. Io non mi ci trovavo bene e l’unica possibilità, faticosa e pericolosa, era nuotare controcorrente, tagliandosi fuori dallo stagno dei ranocchi e dal fumo delle cinquecento.

Quale la posizione di Nanda Pivano rispetto agli eventi della contestazione? E quale la tua?

Il 1968 fu letto, da coloro che si erano messi on the road già a partire dal 1964, come una variazione sul tema, un “affare” all’interno del groviglio del sistema che veniva anche definito Moloc. Ricordo che gli studenti universitari, a Torino, nelle loro assemblee mostravano un appetito di leader, parevano canonici che tentassero di decifrare il Verbo, di Marx, tra le righe de Il Capitale. In realtà, a Torino almeno, la polemica politica era contro il PCI. Il mondo delle Università era ristretto a minoranze che tendevano a gestire il mal contento. Io pensavo, e penso che, rispetto all’esperienza on the road, il 1968 nostrano fosse regressivo, addirittura ‘clericale’, alla ricerca d’un padre nuovo visto che quello vecchio era stato cannibalizzato. Ci definivano “leccaculi della borghesia” mentre percorrevano sentieri vecchi come bave di lumache. Temevano la psichedelia, che non comprendevano, e miravano, vecchia storia!, al potere.

Fernanda, maggiormente legata a ciò che avveniva tra la gioventù, e non solo, americana, faceva fatica ad orientarsi nei gergali vetero-sinistra. In Vietnam la guerra era reale e la morte aleggiava sulle masse USA. La domanda urgeva e non era ideologica ma esistenziale. Nanda era una pacifista antimilitarista. Pensava, ed io ero d’accordo con lei, che la vera e prima rivoluzione dovesse avvenire dentro ciascuno di noi, non soltanto come un NO ma in modo creativo, aperto, curioso, creativo. Le cosiddette contestazioni erano risposte provocate dal sistema, risposte prevedibili e meccaniche, escrescenze del sistema in un circuito chiuso.

Incuriosisce, tra l’altro, una presa di posizione di Nanda che in un’intervista ebbe a dire di non curarsi affatto di piacere alle donne: perché era così prevenuta a riguardo?

Nanda non era “femminista” e non usava il “genere” per rivendicare. Non era contraria alle donne ma al fascismo in tutte le sue forme. Di conseguenza più che il “plauso” cercava di avviare una presa di coscienza nuova, alta e non pasticciata. Nanda non ragionava usando i canoni della lotta di classe – non era nella sua storia. Penso si riferisse di più all’universalismo ed al vitalismo dei suoi amici poeti.

Tra le grandi voci della letteratura del tuo tempo, quale consideri più dimostrativo di quegli ideali?

Allen Ginsberg di certo che divenne ponte tra America ed Europa. Lo slancio di Allen contribuì a produrre Pianeta Fresco, esplosione psichedelica e non-violenta nella cultura della seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso. La ruota fu messa in movimento, a mio parere, più dagli hippies che dagli intellettuali monaci laici del ’68. La psichedelia fu lo strumento per tentare di scardinare il sistema di pensiero e comportamento di quegli anni ma, ahimè!, oggi non se ne vede più traccia.

Cosa puoi dirci a proposito delle speranze di Nanda, se ancora ne serbava, che il mondo ritornasse agli ideali di pace e libertà? E quale il tuo parere a riguardo?

Nanda credeva fortemente in uno stare insieme pacifico e solidale, in un tribalismo libertario e creativo. Il mondo non aveva mai sperimentato una realtà alternativa allo sfruttamento ed alle guerre. Quindi non si sperava di “ritornare” ma di andare avanti e nell’andare costruire realtà nuove (pensiamo, in piccolo, alle ‘comuni’ anche italiche). Come poeta e pedagogista presente attivamente in quel tempo ed ora (compatibilmente con i miei 80 anni) questo movimento mi alimentava. Ora è la lotta No TAV che, al di là dei trucchi del sistema, mostra la faccia trucida e volgare . Non si tratta di correnti poetiche ma di lotta, al pari di quelle sostenute dai Nativi americani. Passano gli anni ma l’amor mio non muore.

La psichedelia, una corrente cui ti rifai e che sostieni sia stata abbandonata troppo presto, puoi parlarcene?

La caricatura di quegli anni, caricatura che secondo me, nascondeva un po’ di invidia, era “sesso, droga e rock and roll”. Smontiamo subito questa ridicola affermazione. Il “sesso era allora visto, per lo meno dalla popolazione maschile, e maschilista, come una pratica genitale, quasi esclusivamente. In realtà si sarebbe dovuto parlare di “sessualità” in una visione panica, base dell’essere. Gli stimoli che giungevano dall’India, il loro pansessualismo, fecero sì che l’area si dilatasse oltre lo “scopare”. In realtà il sesso, la pratica sessuale, portava ad una esperienza non frantumata, orgasmica, da inizio del tutto. La percezione unitaria e simbiotica della realtà era psichedelia. Altro argomento (proposto in chiave moralistica e scandalistica) era la “droga”. Dicevo allora che le droghe si acquistavano dal droghiere mentre, nel caso specifico, si trattava di “erbe”, usate in altre culture comunemente. Tali erbe, fumate allora in modo comunitario, miravano al decondizionamento della mente, come scriveva Allen Ginsberg. Io non fumo più nemmeno tabacco perché penso d’aver raggiunto l’obiettivo. Per quel che riguarda la musica, nata come risposta al potere culturale del tempo, vorrei ricordare che il movimento ossessivo è stato anche una pratica preparatoria alla “trance”, come i dervisci ci insegnano. I tre aspetti ridicolizzati dall’establishment erano in realtà una pulsione unica, quella per cui è difficile descrivere “oggettivamente” il movimento underground, somma di esperienze radicali e profonde individuali, soggettive. La poesia parve allora la forma più libera e propria per comunicare, attivamente, il cammino intrapreso, l’on the road di kerouachiana memoria. Almeno così avvenne per me e non posso che parlare della mia esperienza, ormai consolidata visti i miei 80 anni.

A proposito di questo ti trovi d’accordo con quello che oppose Ginsberg, al suo ritorno dall’India, ovvero che la meditazione trascendentale fosse una pratica altrettanto valida per oltrepassare i parametri apparenti della realtá?

Io penso che la “meditazione” deve divenire “fiato” e non soltanto momento specifico e rituale. Inoltre credo che sia bello sentirsi dentro e avvolti dal mistero, olistico. Come dire: essere l’Alfa e l’Omega nel presente, ora e qui. I miei palloncini sono volati via e sono più leggero.

E qui Gianni Milano continua in versi:

La poesia
s’infilò le scarpe
e scese in strada.
Lentamente
la strada s’illuminò
e da ogni angolo inconsueto
emersero doni
e meraviglie e nomi.
Un flash colpì
il camminante
sulla strada dell’Utopia
per l’Utopia
e lo lasciò nudo
senza vili difese ed illusioni.
Quando, ripreso, il camminante
rimirò l’intorno
s’accorse che era giunto
in Utopia
per la brezza che smuoveva i
capelli
e la barba imbiancata.
Un ridere giulivo
senza motivo apparente
gli discendeva dalle labbra.
Il giorno era gioioso
e il sole caldo.
La luce riattivò le percezioni –
si stava bene pacificati e all’erta
quando anche l’erba era più
verde.

Intervista a cura di Jo Gabel, tratta dal sito www.artapartofculture.net. maggio 2018.

 

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LUDD ovvero dell’insurrezione permanente

n questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.

(Recensione di Sandro Moiso tratta da “Carmilla letteratura immaginaria e cultura d’opposizione” )

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NON SOLO BEAT di Gianni Milano

Il libro – a cura di Chiara Maraghini Garrone e introduzione di Matteo Guarnaccia-  è un lungo viaggio on the roadcon Gianni Milano a partire dalla sua nascita, il trasferimento a Torino dopo il 25 aprile 1945, la città bombardata e i plumbei anni cinquanta, l’esperienza beat, l’incontro, tra gli altri, con Fernanda Pivano, Allen Ginsberg, il Living Theatre… negli anni sessanta. Anni che vedono Gianni diventare prima poeta, poi maestro di scuola elementare. Seguace delle idee di Célestin Freinet, fautore di una a-pedagogia libertaria, il maestro che ha fatto scandalo con le sue idee, il suo comportamento, le sue poesie – tutte cose per le quali ha subito dei processi da cui è stato puntualmente assolto -, ha smesso di lavorare nel 2000, ma non ha mai abbandonato quelle che chiama le sue “tribù”. Nell’ultimo periodo, sono incarnate dai ribelli della montagna.
L’autobiografia raccoglie in appendice alcuni testi che documentano il periodo dell’underground di cui Gianni è testimone e attore. La grande produzione di scritti di Gianni sfugge ancora a una pubblicazione sistematica e resta sotterranea, una vena profonda che continua ad alimentare il desiderio di libertà e di non sopraffazione. 

Gianni Milano nasce a Mombercelli (AT) il 14 giugno 1938. È poeta e pedagogista. Entra giovane nella scuola dove, per quarant’anni, insegna ai bambini delle elementari di Torino e Cirié per ultimare la carriera scolastica a Lanzo dove si dedica alla didattica nelle magistrali. Verrà sospeso cinque anni dall’insegnamento per le sue idee libertarie. Protagonista dell’underground, ha affidato i suoi scritti prevalentemente a piccole case editrici e autoproduzioni. Pubblica Off Limits nel 1966. Un anno dopo fonda le edizioni Pitecantropus per le quali subisce anche un processo. Collabora, tra l’altro, con le riviste Paria, Pianeta Fresco e Puzz. Una sua autobiografia, Il Maestro e le Margherite, uscirà nel 1998 con Stampa Alternativa. Nel 2009 un’edizione privata a cura di Giulio Tedeschi proporrà una raccolta di poesie, Un beat con le Ali, poesie sparse 1965/1968. Numerosi anche gli scritti di pedagogia e la collaborazione con riviste che si occupano della scuola.
La povertà, l’anarchia, la filosofia on the road, l’antimilitarismo, il buddismo zen, la psichedelia, il Movimento di Cooperazione Educativa, la lotta No Tav, sono il caleidoscopio della strada eretica percorsa da Gianni Milano di cui questo libro vuole essere testimonianza.

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Il morto Georges Bataille

Inquietante e osceno, è ciò che si sarebbe tentati di pensare nel leggere questo racconto di Georges Bataille perché testo come in altre sue opere accomuna, spingendole al parossismo, sessualità e morte.
Può sembrare crudele, oltraggioso, scandaloso, blasfemo, ma leggendolo con attenzione, si scopre molto più di questo. Al di la del carattere perverso, o pornografico, ciò che si rileva è un approccio diverso all’eros: piacere e dolore sessuale, entrambi intimamente connessi, appartengono al dominio del sacro. Non riconoscerlo non è darsi i mezzi per capire la natura umana.
Bataille ha incominciato a scrivere questa storia nel 1942, ma l’opera è stata pubblicata nel 1964, due anni dopo la sua morte. In quell’anno Bataille era affetto dalla tubercolosi e si trovava in Normandia; ed è nella prostrazione della malattia, in quello stato d’animo estremo che Il morto prende luce: “legato all’eccitazione sessuale delirante dove ero, (…) Ero malato, in un oscuro stato di sconforto, orrore ed eccitazione”. Da qui la sua intensità e il suo potere scandaloso, l’eccesso di desiderio mescolato al fascino dell’orrore, in un equilibrio tra passione e animalità.
L’intensità e lo scandalo della storia è dovuta al suo aspetto sacrilego e al disprezzo per la morale; raramente il lutto è stato descritto in modo così lussurioso. La morte e il sesso, il godimento frenetico, l’orrore e il sublime finiscono per confondersi: “Culo nudo e pancia nuda: l’odore del culo e del ventre insalubri era l’odore stesso della morte.”

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Paesaggi di una città immaginaria

Ma supponiamo che tutto il lavoro produttivo possa essere completamente automatizzato; che la produttività aumenti fino a quando il mondo non conosca più carenze; che la terra e i mezzi di produzione siano socializzati e come risultato la produzione globale razionalizzata.[…]
Qualora fosse, non potremmo più porci la stessa domanda, senza immediatamente tentare di rispondervi e immaginare, anche se nella più schematica delle maniere, un modello sociale in cui l’idea di libertà diventasse la vera pratica della libertà, di una “libertà” che per noi non significa la scelta tra molte alternative, ma lo sviluppo ottimale delle facoltà creative di ogni essere umano; perché non ci può essere vera libertà senza la creatività.[…]

Oggi la New Babylon conosce una rinnovata fortuna nell’ambiente culturale internazionale. Grandi retrospettive nei principali musei d’arte internazionale (l’ultima in ordine di tempo al Reina Sofia di Madrid nel 2015), imponenti monografie e un riferimento costante nel dibattito artistico e culturale riconoscono nella New Babylon un progetto profetico di alcune caratteristiche della società contemporanea; essa avrebbe anticipato l’architettura dei flussi, dell’evento, dell’iperconnettività.
Ma oggi lo stesso equivoco di allora banalizza quest’attualizzazione del progetto di Constant, dal momento che si continua a ignorarne la volontà rivoluzionaria. L’homo ludens che avrebbe dovuto costruire e abitare la New Babylon e a cui Constant faceva riferimento studiando Huizinga, collaborando con i situazionisti e attingendo al pensiero di Lefebvre, non può essere paragonato con l’uomo occidentale contemporaneo alienato che, grazie alle protesi sempre più sviluppate della tecnologia (computer, tablet, smartphone e social network), si vanta aver abbattuto i confini fisici e di muoversi “liberamente” negli spazi virtuali.
New Babylon doveva essere una dériville, una città in cui il nomadismo permanente di un’umanità liberata dal capitalismo doveva creare esso stesso gli spazi dell’interazione sociale. Oggi l’umanità è invece divisa tra un’infima minoranza di privilegiati che può permettersi di spostarsi ai quattro angoli del mondo secondo le logiche del turismo – più o meno preconfezionato o ecosostenibile – mentre la stragrande maggioranza di essa vive condannata a una misera stanzialità o, quando prova a sfuggire povertà e guerre, viene bloccata da confini, muri e nuovi campi di concentramento.
Dire – come fanno tanti critici d’arte e architetti che la New Babylon ha prefigurato la società odierna significa quindi traviarne completamente il senso.
L’ingenuo ottimismo postmarxista di Constant, che vedeva nel progresso tecnologico le basi per la liberazione dell’umanità, non può essere confuso con l’apologia di quel mondo che, dal periodo in cui egli ne progettava le forme postrivoluzionarie, si è invece perpetrato attraverso un innegabile peggioramento.
E’ un passaggio logico-metodologico tanto semplice quanto radicale: Constant progettò l’involucro di un mondo liberato dal capitalismo, il mondo di oggi è ipercapitalista. Fine della storia.
Chiamato a commentare i numerosi omaggi che archistar odierne come Rem Koolhas attribuiscono alle forme di New Babylon come ispirazione per i loro progetti, lo stesso Constant, pochi anni prima della morte (avvenuta nel 2005), è stato inequivocabile:
«Hanno preso soltanto la forma senza il contenuto. La mia era una forma per il contenuto. E del resto avevo sempre detto che la società esistente non sarebbe stata in grado di realizzare New Babylon. Non sarà realizzata con le mie forme, sarà realizzata dai neobabilonesi».(…) «Ho sempre avuto l’idea di cambiare la società. È terribile adesso. È una società detestabile. Ci sono soldi solo in una parte del mondo, nel resto del mondo è l’inferno… è un mondo atroce. Dicono che la realizzazione di New Babylon non è possibile, ma allora io mi chiedo: è la miseria l’alternativa alla città dell’Homo Ludens? Ecco quello che succede oggi e che succederà finché New Babylon non sarà realizzata»

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Sul male incurabile di un malato

La resistenza non è solo quella bella, dannata, un po’ romantica, che si esercita in armi contro gli oppressori, come quella dei guerriglieri kurdi o dei partigiani contro tutti i fascismi.
E’ una cosa a cui ogni essere pensante è chiamato quotidianamente.
L’arroganza del potere si presenta con aspetti molteplici e multiformi, talvolta con insospettabili sorrisi suadenti, talvolta più esplicitamente con la divisa del poliziotto o col camice bianco del medico. Opporsi, stroncare le menzogne, acuire il pensiero critico, prendere autonomamente grandi decisioni sulla propria vita e sulla propria morte è un modo per resistere, per affermare dignità e libertà di fronte ad ogni sopruso.
Anche se si è malati, debilitati, anche se tutto sembra perduto.

Il cancro per molti aspetti è una malattia più politica che clinica, un formidabile strumento di oppressione e controllo, che sottostà ad una ideologia e ad una concezione della vita e del mondo che è necessario contrastare con lucida e determinata volontà di resistenza.

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La Rivolta delle macchine o Il pensiero scatenato

Nel giugno del 1921 nasceva l’idea di un film su pellicola, una Farsa Epica per cinema, e Romain Rolland e Frans Masereel si mettono all’opera: è un “saggio di arte nuova” quello che tentano. Il tema è quello della Rivolta delle Macchine che appassiona entrambi. Vengono realizzate le xilografie, scritta la sceneggiatura, ma il film non verrà mai prodotto… E anche il libro (edito da Les Edition su Sablier nel 1921), per essere diffuso, dovrà aspettare un’edizione del 1947 dopo la morte dello scrittore.
Rolland considerava La Rivolta delle macchine come un’idea burlesca, un Puck, un discorso folle! Ci siamo detti: “Andiamo! Gaudeamus igitur!”. E io mi sono divertito. La sceneggiatura è scritta. Masereel non si lamenterà. Il regista tanto meno. Per quanto riguarda me mi sento sollevato.
Anche per Masereel, autore dell 33 xilografie, è stato così: le idee dell’autore e dell’illustratore si fondono insieme, il racconto letterario e la visione del pittore si completano vicendevolmente.
Riproponiamo in queste pagine la genesi del libro  e la sua traduzione pensando all’attualità che rappresenta questo discorso, a quasi un secolo di distanza: una testimonianza profetica di quello che oggi rappresenta la deriva della comunità umana, lo sterminio della natura, l’occhio artificiale che controlla ogni movimento e sentimento dell’uomo e la barbarie del potere. In questa comunità di umani che si arrocca su una montagna possiamo assistere al laceramento di ogni rapporto sociale dovuto all’incubo che le macchine rappresentano. Ogni forma di civiltà viene meno e gli uomini ritornano a uno stato di abbrutimento dove vige soltanto la legge del più forte, del più prepotente, del più furbo. Ma c’è ancora qualcuno che non perde il lume della ragione, in questo caso una donna che sa rimettere sui giusti binari la vita delle persone dove i più deboli possano ancora trovare uno spazio privilegiato per loro. Forse non tutto è perduto, si può ancora intravedere uno spiraglio di luce, in un ritrovare antichi ritmi, in ribaltamenti o adeguamenti di ruoli secondo nuovi (antichi) principi di solidarietà, nell’amore che nasce un po’ spensierato e ironico. Anche se il rumore delle macchine riprende, ogni volta, sempre più minaccioso e gli uomini perdono il controllo di quello che hanno “creato”.

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DMT usi, fenomenologia e ipotesi

Il DMT è ampiamente diffuso in piante, funghi e animali, uomo compreso. Per l’uomo, il DMT endogeno potrebbe agire come neurotrasmettitore e ansiolitico, mediare i processi della percezione sensoriale, produrre l’attività onirica e i fenomeni ipnagogici, agire a livello di processi cellulari specifici e avere un’azione adattativo-protettiva in processi biologici, oltre a essere correlabile a fenomeni quali la genesi delle malattie mentali e la morte ed essere coinvolto nel nostro processo evolutivo. Le piante e i preparati contenenti DMT trovano uso in contesti tradizionali, mentre in contesti non-tradizionali per la sostanza si può parlare di uso magico, religioso, psiconautico-enteogenico, ludico-ricreazionale, psicofarmacologico e psicoterapeutico. La fenomenologia del DMT comprende essenzialmente l’accesso a realtà alternative ed a realtà multidimensionali (iperspazio), l’effetto dissociante, le esperienze fuori dal corpo (OBE), le esperienze prossime alla morte (NDE) e l’incontro con entità, alieni e UFO. Ma soprattutto, l’esperienza con il DMT ha profonde implicazioni su ciò che si intende per realtà, ponendo la domanda se il mondo in cui la sostanza ci proietta rappresenti una realtà autonoma come quella esperita nello stato di coscienza ordinario. Gli effetti visivi del DMT sono fonte di ispirazione artistica, sia nell’ambito dell’arte amerinda tradizionale che di quello dell’arte psichedelica moderna. L’uso di psichedelici in generale avrebbe permesso la nascita di intuizioni che hanno portato a importanti sviluppi in campo scientifico e tecnologico. Attualmente, esiste ciò che si può definire una “mitologia del DMT”, che si esprime attraverso forti connotati simbolici e di autoidentificazione tra gli utilizzatori. Essa si esprime soprattutto negli aspetti fenomenologici più caratteristici della sostanza e in un lessico specifico.

Toro G., 2017, “DMT. Usi, fenomenologia e ipotesi”, Avvicinamenti, Pinerolo (Autoproduzione). pag. 540, euro 15.

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DIGGERS, Rivoluzione e controcultura a San Francisco 1966-1968

Nell’estate del 1967 avvengono a San Francisco una serie di eventi che segnano, per certi versi, il momento culminante di un movimento controculturale che si stava affermando da qualche anno negli Stati Uniti. È la Summer of Love, l’estate dell’amore e i protagonisti di quei fatti sono gli hippy, i figli dei fiori.
Già da qualche anno negli Sati Uniti stavano venendo alla luce grazie al movimento beat (Kerouac, Ferlinghetti, Ginsberg…) le contraddizioni di una società votata a un consumismo vuoto e senza speranza, sconvolta dalle lotte razziali e dalla guerra in Vietnam e si stava affermando un’altra cultura che aveva come ideali  amore, pace, libertà e come strumenti per la loro diffusione i suoni, l’estetica e le droghe psichedeliche. A mettere in musica quegli ideali sono tra gli altri i Jefferson Airplane, i Grateful Dead, Janis Joplin e a diffondere nuove sensibilità etiche e spirituali Timothy Leary, Ken Kesey e molti altri. Haigth Ashbury, un quartiere di San Francisco, diventa l’epicentro di questo movimento; le sue strade, case e parchi, i luoghi dove si sperimenta questo nuovo sentire. Migliaia di giovani vi confluiscono da ogni parte degli Stati Uniti dando vita a una società che ripudia la guerra, il consumismo e tenta nuovi modelli di vita.
In quel quartiere da un paio di anni agisce un gruppo di attivisti che partendo dal teatro di strada sensibilizza alla condivisione e alla gratuità gli abitanti del quartiere distribuendo cibo a costo zero, creando negozi dove ci si può servire senza pagare, alloggi dove si può vivere e free clinic per curarsi. Sono i Diggers e incarnano con il loro agire l’aspetto più radicale del movimento a San Francisco. Non sono hippy, anzi, in una manifestazione ne celebrano il funerale, ma uomini e donne che tentano una sovversione dei valori che avrà una vasta eco nel sentire collettivo e una storia che continuerà ben oltre quegli anni.
 
«Dobbiamo mettere in comune le nostre risorse e fare interagire le nostre energie per garantire la libertà delle nostre attività personali.
In ogni città del mondo c’è un underground competitivo e frammentario, composto di gruppi i cui obiettivi si sovrappongono, entrano in conflitto e in generale finiscono per fiaccare lo slancio verso l’autonomia. Oggi tutti abbiamo armi, sappiamo usarle, conosciamo il nostro nemico e siamo pronti a difenderci. Sappiamo che non ci lasceremo più mettere i piedi in testa da nessuno. Perciò è giunto il momento di agire in modo più deciso per dedicarci alla creazione di città libere nelle aree urbane del mondo occidentale.
[…] A questo punto della nostra rivoluzione è indispensabile che le famiglie, le comuni, le organizzazioni di neri e le bande di ogni città in America si coordinino per creare Città libere in cui qualsiasi cosa necessaria possa essere ottenuta gratuitamente da chi partecipa alle varie attività dei singoli gruppi.
Ogni fratello deve avere quello di cui ha bisogno per fare quello che deve essere fatto.»

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PUNKAMINAZIONE

Ancora, ancora, ancora verso questo ignoto da esplorare, alla ricerca della nostra energia vitale di quel nocciolo che ci brucia e sconvolge le viscere + nascoste, che dà elettricità alle nostte dita, che contrae le mascelle, flusso incontenibile del dolore, sofferenza, disperazione, gioia piacere, stimolo, movimento. Ancora una volta lo sforzo tra gli sforzi di codificare tutto ciò in ina azione nazionale e tangibile, di andare al di là del lavoro di scribacchino di professione e usare le parole come martelli. Fulcro scardinare – scavare – comunicare. PUNKAMINAZIONE ha come scopo proprio questo, collegare ogni sforzo individuale o di situazione impegnata a sua volta in questa direzione. Ma non è chiaramente abbastanza perché non si è ancora riusciti a raggiungere quella continuità del flusso di materiale ai cosiddetti centri di raccolta. Questo meccanismo va ancora oliato x essere fatto partire, perché per rendere effettivamente valido lo sforzo produttivo e distributivo di Punkaminazione bisogna riuscire a farlo entrare nella quotidianità di tutti i collaboratori o potenziali tali.

Punkaminazione è nata x incarnare “collaborazione” nella sua forma + diretta e non per includerla, in sostanza ciò significa che il meccanismo che ne stabilisce l’uscita di un nuovo numero non vuole risiedere nella volontà di una redazione (o qualsiasi cosa che ne faccia le veci) e che al fatidico momento richiede l’opera, appunto, del collaboratori (+ o – interni + o – esterni). Bensì molto + semplicemente nella quantità e qualità del materiale che si auspica prenda a fluire costantemente dalle situazioni, collaboratrici/redattrici, ovvero che PUNKAMINAZIONE esca (ogni qualvolta, ognuno di noi “collaboratori/redattori” ritenga il momento di far conoscere le proprie situazioni, azioni, movimenti ecc… a chiunque venga in possesso di questo foglio/gli vagante/i) ogni qualvolta si sia raccolto materiale sufficiente x stipare 1-2-3-4 ecc… fogli.

(Brani tratti da Punkaminazione, n. 3, 1984, Bologna) 

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