Drizziamo le antenne – UN APPELLO

 

RESISTERE ALLA RETE 5G, ALLA DIGITALIZZAZIONE E ALLA MEDICALIZZAZIONE DELLE NOSTRE VITE

 

In cosa ci farà progredire, o meglio, cosa farà progredire questa nuova tecnologia?

Già da diverso tempo si sente parlare di Smart City, un insieme di alte tecnologie che permetteranno la gestione informatica e la messa in rete della maggior parte della vita e dei flussi urbani: mezzi di trasporto smart pubblici e privati (le famose auto a guida automatica), controllo e sicurezza smart tramite riconoscimento facciale grazie a telecamere onnipresenti e droni (attraverso il quale si potrà o non si potrà prendere
l’autobus o avere accesso a strutture o zone della città senza averne i prerequisiti, se sembra fantascienza si veda il sistema di credito sociale in Cina), elettrodomestici smart che ridurranno gli sprechi energetici e ti faranno trovare la cena pronta appena rientrati dal lavoro. Il tutto, ovviamente, controllabile con il dispositivo smart per eccellenza, ormai posseduto dai più, lo smartphone.

Cosa manca per far funzionare tutte queste nuove tecnologie all’unisono e senza intoppi? Per l’appunto la rete 5G. La caratteristica più sbandierata da parte dei suoi propugnatori è il famoso tempo di latenza brevissimo, cioè, per dirla semplicemente, il lasso di tempo che intercorre tra l’invio di un comando e la sua esecuzione, ancora più semplice, quanto tempo passa da che premiamo il tasto A sulla tastiera a quando questa A appare sullo schermo. Nel caso del 5G siamo nell’ordine di qualche millisecondo, quindi pochissimo.

Questo permetterà l’utilizzo in remoto di super computer in grado di gestire l’immane quantità di dati necessari al funzionamento della Smart City. Super elaboratori e server per l’immagazzinamento dati che magari saranno dall’altra parte del globo ma che grazie a questi tempi di latenza bassissimi saranno utilizzabili facilmente da amministrazioni locali, polizie e così via. L’innovazione del 5G non serve per scaricare
più velocemente un film sul proprio computer o per videoconferenze multiple.

Il progresso ha di volta in volta i propri apici, il 5G è l’apice attuale e non vi sarà progresso senza 5G. Tutti i meccanismi che stanno portando ad una società sempre più dipendente dalla tecnologia si trovano di fronte ad un imbuto tecnico che sarà sbloccato dal 5G. Non si tratta solo di criticare una nuova tecnologia perché dannosa per la salute, ma di criticare un modo di vivere e di esistere su questo pianeta.

 

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Luigi Assandri, un semplice operaio anarchico torinese

All’epoca, a Torino circolavano moltissime pubblicazioni realizzate per lo più dai gruppi extraparlamentari e dagli studenti. Quelle di Luigi si distinguevano tra tutte, naturalmente per i contenuti, ma soprattutto per lo stile: inconfondibile. I libri (che nessun altro stampava con il ciclostile) avevano la copertina in cartoncino verde o rosso e il dorso ricoperto con un nastro adesivo colorato; gli opuscoli, quasi tutti facsimili di vecchie pubblicazioni, con la copertina, ma più spesso con la quarta di copertina, illustrata da lui. è in quelle pagine e ancor più nei volantini e nei manifesti che produceva, che esprimeva il suo pensiero e l’estro creativo. Chi guardava quell’opuscolo intuiva immediatamente che non c’era nessun approccio intellettualistico in quelle pagine né tanto meno in chi gliele proponeva. Aveva di fronte un ex operaio, con mani dure come sassi, che non aveva alcun timore della discussione, anzi la cercava, e le sue pubblicazioni erano solo un mezzo per arrivarci. In una pagina si poteva trovare la scritta “sevizie mediovali” con a fianco un prete e le sue vittime, una A cerchiata e “autogestione”, un riferimento all’Associazione Internazionale dei Lavoratori e alla rivoluzione spagnola e in piccolo, ma impossibile da non leggere, «chi dice dittatura proletaria, dice carne di stato insaccata». All’interlocutore veniva fornito un menù poliedrico con più di uno spunto di discussione, che infatti avveniva. Spesso accesa, ma sempre corretta. Se si inquadra meglio cosa faceva Luigi, come lo faceva, l’ambito culturale ed etico di riferimento – quello operaio e quello anarchico – e le sue attività politiche ed editoriali, è inevitabile non considerarlo un esponente paradigmatico dell’autodidattismo e in particolare di quello anarchico.

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Zone di tempo liberato

Crescere viene visto come accumulo, rassicurazione, rinuncia, ripetizione. Tutto questo è davvero molto triste. E, soprattutto, questo che chiamano crescere è scandito dall’ossessione del tempo. Così le persone si conformano all’età, e finiscono per essere giocate dalla loro età. Quello che chiamano crescere non è che un biglietto di sola andata per le terre aride della normalizzazione. È allevare un’immensa energia di vita, per poi lasciarla cadere nelle mani sterili di un sistema di esistenza che la soffoca. Molti hanno ben raccontato che questo tempo, questa età, sono essenzialmente trappole psicologiche. Krishnamurti ci ha raccontato che esiste una attività senza tempo. C’è un modo di vivere in cui il tempo, quale movimento da uno stato all’altro, è scomparso. Possedere la consapevolezza è un modo di vita, che è così superiore al tempo e all’età. E poi l’intensità con cui si vive può davvero portare alla luce il ritmo singolare dei nostri neuroni, facendoli scivolare fuori dal meccanismo del tempo. La passione è veramente il semplicissimo antidoto contro l’invecchiamento. Le esperienze più intense e felici, l’espansione più ampia dei sensi e dei sentimenti, ravvivano e rinnovano la struttura molecolare, il sistema nervoso, perfino la pelle. E non è forse vero che tutte le esperienze quin-tessenziali accadono con una sospensione del tempo, ci trasportano al di là del tempo e dell’età? L’estasi, le illuminazioni, tutti gli stati espansi attraversano il tempo e toccano un’essenza superiore. Umore stesso, e lo stesso amore dei corpi, generano lampi di vita dove il tempo svanisce. Usciamo dal tempo seriale, e accarezziamo un tempo biologico e un tempo cosmico. Zone di tempo liberato. Perfino certe esperienze collettive apparentemente legate a una data e a un luogo, il movimento psichedelico, ad esempio, sono accadute come squarci nel tempo storico, svelamenti di mondi paralleli con un loro senso del tempo autonomo ed espanso. È in questi eventi che sciolgono il tempo che gli esseri umani vivono il proprio stato di grazia; dove l’eternità non ha niente a che vedere con il tempo.

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IO DI FRONTE ALLA LEGGE SONO ASOCIALE

Luigi Assandri (1915-2008), il protagonista di questo libro, non è stato un teorico e nemmeno un dirigente politico, ma un semplice operaio anarchico torinese.
Avvicinatosi all’anarchismo nei primi anni del secondo dopoguerra (dopo essersi congedato dalla PS) è per molti anni uno dei più attivi militanti libertari del capoluogo piemontese.
Autodidatta, per mezzo della lettura si forma una vasta cultura sul pensiero e sulla storia dell’anarchismo, diventandone poi un grande divulgatore.
Se è pur vero che tutta la produzione editoriale degli anarchici è sempre dovuta allo sforzo personale di alcuni individui (o di piccoli gruppi di persone) la vicenda di Assandri è di per sé singolare. Completamente da solo (avvalendosi al massimo dell’ausilio della sua compagna, Adele Gaviglio) stampa e distribuisce nel corso della sua esistenza un’enorme mole di materiali di propaganda: bollettini, opuscoli, libri e manifesti. E il tutto servendosi di mezzi poverissimi: ciclostile e fotocopiatrice.
Questo ovviamente, pur essendo già di per sé materia di rilevanza storica, non esaurisce l’interesse riguardo la sua figura. Dopo aver attraversato negli anni della giovinezza i periodi più neri della storia dell’anarchismo, quelli della guerra fredda e dell’isolamento politico, si ritrova dopo il ’68 a stretto contatto con i giovani che allora, sempre più numerosi, si avvicinavano alle idee libertarie, lasciando un’eredità di insegnamenti di ricordi e di affetto che, per chi ha vissuto quella stagione, è doveroso ricordare.
La storia, per gli anarchici, non è fatta né da condottieri né dalle masse amorfe, ma da individui coscienti e determinati, anche se semplici lavoratori. Come è il caso di Assandri.

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IL 5G

Questa nuova rete di comunicazione, si aggiungerà a quella già esistente di 3 e 4G e potenzierà il funzionamento di un sistema già ampiamente rodato, permettendo alle forze che gestiscono l’ordine un’acquisizione capillare di dati dei territori, delle persone e degli oggetti, grazie a un sistema potenziato di sensori e satelliti, telecamere e droni, di nuove e vecchie antenne e ripetitori. I nostri dati troveranno nuovi clienti e nuove applicazioni. Se qualcuno intravede dietro questa tecnologia dei possibili sviluppi “alla cinese” (controllo generalizzato di ogni persona, isolamento sociale dei recalcitranti, galera per i resistenti) non si sbaglia. Probabilmente è questa la strada segnata dalla trasformazione digitale, è solo questione di tempo. Come già avvenuto molte volte nel corso del recente passato, le innovazioni militari — e il 5G è frutto di una ricerca militare — presto o tardi raggiungono la “società civile”. È successo con Internet e il GPS, succede anche con il 5G. Ma le tecnologie non sono neutre. Quella finanziaria è diversa da quella economica o politica nascendo da presupposti culturali e visioni differenti; la tecnologia cibernetica ha l’imprinting di quella cultura di controllo, omologazione e distruzione caratteristica del mondo militare. Giusto qualche esempio. La tecnologia 5G comporta l’impianto di milioni di antenne e di satelliti che provocano radiazioni di cui conosciamo poco la pericolosità, un alto impatto ecologico dovuto alla costruzione e smaltimento di miliardi di nuovi “oggetti connessi”, l’abbattimento di alberi per favorire la trasmissione del segnale, disturbi neurofisici per insetti, uccelli, e altri animali, aumento di elettrosensibilità per gli umani, tracciabilità di ogni azione di uomini e cose e molto altro ancora. Il 5G favorirà enormemente il progetto di trasformare le città in smart city — città intelligenti — dove per intelligenza non s’intende quella umana, ma quella artificiale degli algoritmi, programmata sulla base delle esigenze di chi la gestisce e che ci spinge verso il nuovo corso del consumismo che diventa intelligente, del trasporto intelligente, della vacanza intelligente, del controllo intelligente. L’immagine della smart city e la relativa narrazione è fatta di persone sorridenti, famigliole che passeggiano in città luminose o abitano ambienti lindi, felici di poter far funzionare la lavatrice mentre si va in bici, o di controllare il figlio mentre si fa la spesa. È una città senza periferie, senza immigrati, senza code davanti agli istituti di carità, senza case occupate, difficile da inserire nell’immagine della città radiosa; per queste situazioni non c’è narrazione smart, c’è repressione intelligente.

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Theodore John Kaczynski

Theodore John Kaczynski nasce a Chicago il 22 maggio del 1942. Figlio di due immigrati polacchi dimostra fin da piccolo doti di intelligenza non comuni soprattutto in matematica. Termina infatti il liceo con due anni di anticipo e si iscrive ad Harvard. In questo periodo si concentra sullo studio della matematica ma frequenta anche altri corsi fra cui uno dedicato ai disturbi della personalità. La sua tesi di laurea attira l’attenzione di alcuni accademici: si tratta di un’analisi della teoria della funzione complessa che gli permette di accedere alla carriera universitaria. La sua tesi di dottorato viene giudicata dal professor Maxwell Reade con le seguenti parole: «Credo che forse 10 o 12 persone nel paese la capissero e la potessero apprezzare». Il professor George Piranian dirà, riferendosi alle capacità di Kaczynski: «Non è abbastanza dire che fosse intelligente» Dopo il dottorato insegna alla National Science Foundation e successivamente alla University of California a Berkeley, fino al 1969 quando, senza motivo apparente, si licenzia. Decide quindi di tornare nella casa dei genitori ma poco dopo disilluso dal mondo che lo circondava, cercò di acquistare terreni nel deserto canadese, ma nel 1971 si stabilì per un appezzamento di 1,4 acri vicino alla casa di suo fratello nel Montana, dove decide di arrangiarsi con poco, non lavorando e vivendo di caccia. Per i successivi 25 anni, Kaczynski visse da eremita, occasionalmente facendo lavori strani e viaggiando. Ha sviluppato una filosofia di ambientalismo radicale e opposizione militante alla tecnologia moderna e ha cercato di ottenere saggi accademici sugli argomenti pubblicati.
Theodore Kaczynski ha sviluppato sin da giovane un atteggiamento negativo nei confronti del sistema tecno-industriale. Fu nel 1962, nel corso del suo ultimo anno ad Harvard, che cominciò a provare un senso di disillusione verso il sistema. E afferma che si senti completamente solo. «Prima degli anni ’60 c’erano stati alcuni critici della tecnologia, ma per quanto ne sapevo non c’era gente che fosse completamente e totalmente contro il sistema tecnologico. Fu nel 1971 o nel 1972, poco dopo che mi ero trasferito in Montana, che lessi il libro di Jaques Ellul,  The Technological Society. E un capolavoro. Fui molto entusiasta quando lo lessi. Pensai: guarda un po’, questo tipo scrive cose che io desideravo dire da sempre». Perché — gli ho chiesto — sei giunto ad essere un oppositore totale della tecnologia? La sua risposta immediata è stata la seguente: «Secondo te perché? La tecnologia riduce le persone a essere nient’altro che un ingranaggio di una macchina, essa ci sottrae la nostra autonomia e la nostra libertà». Ma c’era ovviamente molto di più. Assieme alla rabbia che egli provava nei confronti della macchina, le sue parole rivelavano un chiaro amore per un luogo molto speciale nelle terre selvagge del Montana. Diventava sempre più animato, parlava sempre più appassionatamente, man mano che mi raccontava la vita che si era creato in montagna e che aveva cercato di difendere dall’invasione del sistema. «La verità è che non sono realmente orientato politicamente. Io volevo solamente vivere nei boschi. Se nessuno avesse iniziato a costruire strade laggiù, se nessuno avesse cominciato ad abbattere gli alberi e non avessero iniziato a ronzare attorno con elicotteri e gatti delle nevi, io starei ancora vivendo là e il resto del mondo, per me, poteva benissimo continuare a farsi gli affari suoi”.
(Prima intervista dal carcere a cura di Theresa Kintz, Nautilus 2006)

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Due parole sul Covid-19

…Nello stesso tempo, appare non meno evidente che quel che ricopre e sommerge l’epidemia di coronavirus è una peste emozionale, una paura isterica, un panico che dissimula contemporaneamente le carenze di trattamento e che perpetua il male inquietando il paziente. Al momento delle grandi epidemie di peste del passato, le popolazioni facevano penitenza e confessavano la loro colpa flagellandosi. I manager della disumanizzazione mondiale non hanno forse interesse a persuadere i popoli che non esiste via d’uscita alla sorte miserabile che è loro imposta? Che non resta loro che la flagellazione della servitù volontaria? La formidabile macchina mediatica non fa che ripetere la vecchia menzogna del decreto celeste, impenetrabile, ineluttabile dove il denaro impazzito ha soppiantato gli Dei sanguinari e capricciosi del passato. Lo scatenamento della barbarie poliziesca contro i manifestanti pacifici ha mostrato ampiamente che la lotta militare è la sola cosa che funziona efficacemente. Essa confina oggi donne, uomini e bambini in quarantena. Fuori la bara, dentro la televisione, la finestra aperta su un mondo chiuso! È una condizione capace di aggravare il malessere esistenziale scommettendo sulle emozioni graffiate dall’angoscia, esacerbando l’accecamento della collera impotente. Tuttavia, anche la menzogna cede al crollo generale. L’istupidimento statale e populista ha toccato il limite. Non può negare che un’esperienza è in corso. La disobbedienza civile si propaga e sogna di società radicalmente nuove perché radicalmente umane. La solidarietà libera dalla loro pelle di montone individualista degli individui che non temono più di pensare autonomamente.
Il coronavirus è diventato il rivelatore del fallimento dello Stato. Ecco almeno un soggetto di riflessione per le vittime del confinamento forzato. Ed ecco che il fallimento avverato dello Stato-truffatore attesta una rovina economica e sociale che rende assolutamente insolvibili le piccole e medie imprese, il commercio locale, i redditi modesti, i gruppi familiari di agricoltori e persino le professioni cosiddette liberali. Il crollo del Leviatano si è rivelato più convincente delle nostre intenzioni di abbatterlo. Il coronavirus ha fatto anche meglio. L’arresto delle nocività produttiviste ha diminuito l’inquinamento mondiale, risparmiato una morte programmata per milioni di persone, la natura respira, i delfini tornano a scorazzare in Sardegna, i canali di Venezia purificati dal turismo di massa ritrovano un’acqua chiara, la Borsa crolla. 
(Tratto dal documento “CORONAVIRUS” di Raoul Vaneigem – 17 marzo 2020)

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Roberto Ambrosoli il creatore di Anarchik

Anarchik è forse il primo tentativo di dare alla propaganda anarchica un tono meno paludato e serioso di quello tradizionale, almeno dal dopoguerra in poi. Sua madre quindi è certa, l’anarchia.
Il padre un po’ meno, perché oltre al genitore ufficiale, il disegnatore, autore di questo articolo, va tenuta in conto l’opera di un amico di famiglia suo fraterno compagno (A. B.), e chissà, anche di altri frequentatori della casa. Con qualche irriverenza verso la madre (che non ce ne vorrà, speriamo) si potrebbe dire che Anarchik è stato concepito in una situazione di promiscuità sessuale. Questa è la sua storia, fondata molto sul ricordo e poco sui documenti, e quindi anch’essa un po’ incerta in alcuni particolari. Per i motivi suddetti, oltre che per ragioni di privacy, la data esatta del concepimento è misteriosa, ma può essere collocata, più o meno, all’epoca del depliant Chi sono gli anarchici?, prodotto nel 1966 dal gruppo Gioventù Libertaria di Milano. Qui, a corredo dello scritto, compare un tizio già dotato di quegli elementi che poi caratterizzeranno il personaggio, cappellaccio a falda larga e ampio mantello, il tutto rigorosamente nero, come nera è la mise (non chiaramente definita) che sta sotto. Lo stile del disegno è di evidente derivazione fumettistica, sintetico ed essenziale nel tratto, molto contrastato, un po’ “americano” ma ancora tendenzialmente “naturalistico”, nel drappeggio del mantello, nei pantaloni spiegazzati, nelle scarpe deformate da piedi fuori misura. L’approccio è comunque caricaturale, e ironizza sullo stereotipo anarchico della vulgata reazionaria: sotto il cappellaccio il tizio esibisce un nasone e una barba mal curata (altri elementi destinati a rimanere, in seguito) e guarda il lettore con un sorrisetto complice, estraendo dal mantello parzialmente aperto il gadget tipico dell’anarchicità banalizzata, la bomba. Una bomba “classica” e dunque antiquata, sferica, anch’essa nera, con tanto di miccia già pericolosamente accesa e relativo filo di fumo. Questo Anarchik fetale, con i caratteri della specie già delineati ma dall’identità personale ancora incerta, sta in gestazione per circa un anno. Compare in pubblico ufficialmente, vale a dire con il proprio nome esplicitamente dichiarato e nella versione grafica definitiva, sul primo e unico numero della testata “Il nemico dello Stato”, nel 1967, sotto forma di striscia a quattro vignette, in cui conclude una rapida meditazione sui tempi e sulla necessità di intervento, con la programmatica dichiarazione “Farò del mio peggio!”. È sostanzialmente lo stesso tizio del feto originario (cappello, mantello, nasone, barbaccia), ma semplificato in stile cartoon, con il corpo rivestito da una calzamaglia nera aderente che ne sottolinea l’improbabile anatomia e insieme alla k finale del nome rimanda, in chiave sempre ironica, a certi eroi negativi (Diabolik, Satanik…) in voga nei fumetti dell’epoca. Rispetto a questi, però, manifesta fin da subito un atteggiamento derisorio e cialtronesco, evidenziato dal ghigno pieno di denti che porta quasi sempre stampato sul volto, in sostituzione del sorriso allusivo del personaggio iniziale. Segno, evidentemente, di un’evoluzione non soltanto morfologica, ma anche psicologica.
Dopo l’esordio su “Il nemico dello Stato”, Anarchik vive nel 1968 e nel 1969 una vita precaria su volantini e opuscoletti (ma anche su manifesti serigrafati), per approdare poi, nel 1971, sulle pagine di “A rivista anarchica”, dove rimane più a lungo, con una presenza all’inizio relativamente stabile e la funzione, nelle intenzioni del disegnatore, di fare del semplice “umorismo libertario”. L’impostazione del fumetto si fa leggermente più complessa, evolvendo dalla singola striscia al modello a nove vignette (tre file di tre) e grazie alla maggiore disponibilità di spazio le storie diventeranno meno verbali e più dinamiche. Vi compare, a volte, un tipico “antagonista-vittima”, il prete, grasso e un po’ patetico (niente a che vedere con gli omoni grotteschi e bestiali de “L’Asino”), che fugge con la tonaca alzata di fronte alla minaccia della bomba di Anarchik. La quale, invariabilmente coglie nel segno ed esplode, ma con effetti distruttivi modesti e non irreversibili, che consentono il periodico riproporsi della situazione. La bomba di Anarchik è dunque una bomba simbolica e umanitaria, cui non è affidato alcun compito risolutivo se non quello di fornire al disegnatore il piacere (auspicabilmente condiviso dal lettore) di rappresentare nella vignetta finale il prete affumicato e bruciacchiato, con ambigue mutande di pizzo che sporgono dalla tonaca sbrindellata, mentre sullo sfondo l’omino nero fugge emettendo il suo sgangherato sghignazzo (Hi!Hi! Hi!). Tale periodo spensierato termina presto.
Il maggio 1968, la strage di Stato e tutto ciò che ne segue impongono un atteggiamento più consapevole e il nostro si dedica, sempre a modo suo, a commentare o sottolineare aspetti considerati importanti di quanto va accadendo. Si sveglia da un incubo in cui alcuni leader rivoluzionari svelano le proprie intenzioni autoritarie (allusione a certe componenti marx-leniniste delle lotte studentesche e operaie), oppure si presenta alla polizia munito di certificato medico, per giustificare con motivi di salute l’esigenza di essere interrogato a finestre chiuse (allusione al volo di Pinelli dalla finestra della questura milanese). È la fase certamente più intensa della vita pubblica di Anarchik, durante la quale l’accresciuto impegno politico determina la scomparsa della bomba, dimenticata in giro, o nascosta nell’attesa di tempi migliori, come preferite. In un momento segnato dalla ricorrente presenza di altre bombe, non anarchiche e assolutamente non umanitarie, l’uso di un simile strumento per scopi ludici appare inopportuno. Aumenta invece la presenza dell’uomo nero fuori delle vignette dei fumetti, ad accompagnare con la sola immagine il testo di articoli, di volantini, di manifesti, diventando una sorta di logo dell’area militante frequentata dai suoi genitori più o meno ufficiali, ripreso occasionalmente da altre aree del movimento anarchico, non solo italiano. In conseguenza di ciò compaiono in giro anche alcuni “falsi”, di cui il disegnatore ama segnalare con pignoleria, in privato, le difformità dall’originale, pur riconoscendo benevolmente le buone intenzioni (grafiche e politiche) dei falsari. Così, per mantenere un minimo controllo “morale” sull’evoluzione morfologica della sua creatura, il disegnatore ricorre a volte all’espediente di aggiungere accanto al nome o a uno svolazzo del mantello un cerchietto con la c di un inesistente copyright, invito sottinteso a una falsificazione libera ma rispettosa.
La tendenza di Anarchik ad abbandonare la vita “attiva” trasformandosi in un simbolo (accade a tutti gli eroi, dicono) si accentua col trascorrere del tempo, anche a causa (riconosciamolo) di un decadimento dell’ispirazione dei suoi genitori, distratti e travolti da altri compiti, dal mutare dei tempi, da vicende personali. Il disegnatore, soprattutto, sente la sua mano rattrappirsi e parallelamente va diminuendo la propria produzione, limitando sempre più la varietà degli atteggiamenti rappresentati. Questi, nel giro di qualche anno, finiscono per ridursi a due opzioni principali, entrambe destinate a una funzione più estetica che ideologica: Anarchik con il mantello aperto, svolazzante all’indietro, sì da lasciare scoperto il corpo, e Anarchik intabarrato, con il mantello sempre svolazzante ma chiuso ad avvolgere la persona. Nel primo caso è visibile il famoso sorriso e le mani sono libere per reggere oggetti, cosicché l’immagine può esser adattata a situazioni diverse nelle quali si voglia comunque trasmettere simpatia. Nel secondo, il volto è parzialmente coperto e l’espressione più torva, usabile per manifestare sentimenti di ostilità verso possibili nemici. Sono ormai le immagini “classiche” di Anarchik, quelle che hanno sfidato le traversie della nostra epoca e del movimento anarchico, trasmettendo fino ai nostri giorni un messaggio implicito, vago ma inequivocabile, di sovversione libertaria. Grazie all’opera di chi, a differenza dello stolto disegnatore, ha saputo conservarle.
(Roberto Ambrosoli “Anarchik il nemico dello stato” Bollettino Archivio G. Pinelli, n°23)

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A CHI NON VUOLE ADATTARSI ALLE NOCIVITÀ MA SOPPRIMERLE

La questione ecologica si impone fin dall’epoca della World Transumanist Association, antenata dell’odierna Humanity+. Vivere 120 o 150 anni, spingere i limiti della fertilità femminile attraverso tecniche di procreazione assistita, non provocherà forse l’esplosione della popolazione mondiale, non metterà sotto torchio gli ecosistemi, non accelererà il sorgere di irregolarità climatiche, non provocherà carestie?

I transumanisti statunitensi si preoccupano di tutto questo e, a partire dagli anni duemila, mobilitano il saggista e romanziere cyberpunk Bruce Sterling. Costui, nel gennaio 2000, fa circolare un manifesto per una nuova politica ecologista “verde smeraldo”. Le sue proposte per soppiantare le inquinanti città industriali del XX secolo sono: «prodotti profondamente glamour ed ecologicamente razionali; oggetti completamente nuovi fabbricati con materiali nuovi; sostituzione della materialità con l’informazione; creazione di un nuovo rapporto tra la cibernetica e la materia.»

Riguardo la questione della sovrappopolazione, i transumanisti ripetono che «allungandosi la durata della vita, ci sentiremo molto più responsabili delle conseguenze ecologiche dei nostri comportamenti.» (Humanity+) Detto in altri termini dall’utilitarista Peter Singer, «è preferibile che ci sia meno gente ma che viva più a lungo, perché chi è nato sa di che cosa la morte lo priva, mentre chi non esiste non sa cosa si perde.» Logico, no? Da parte dei “tecnoprogressisti” francesi, si sostiene che “là dove i cittadini vivono più a lungo, fanno meno figli”. E perciò il progresso tecnico accelererà la transizione demografica. Ma se dovessimo verificare il rapporto rischioso che c’è tra speranza di vita e responsabilità ecologica, il XX secolo dovrebbe smentirlo, tanto l’aumento della durata di vita sembra correlato, tra le altre cose, con l’aumento dei conflitti (e in alcuni casi si tratta di genocidi), delle catastrofi ecologiche o della messa a punto di bombe apocalittiche.

Per combattere il riscaldamento climatico un certo Matthew Liao, professore di filosofia alla New York University, assieme a Anders Sandberg e a Rebecca Roach di Oxford (dunque, non dei gestori di oscuri blog), hanno delle salde proposte transumaniste. La più semplice sarebbe di natura farmaceutica, come ad esempio l’assunzione di pillole in grado di provocare il disgusto per la carne o che aumenterebbero la nostra empatia. Sempre grazie alla selezione e all’editing genetico del tipo CRISPR, potremmo anche aumentare le nostre pupille con geni di felino per vedere di notte (e ridurre così gli impianti di illuminazione che divorano energia), e diminuire il peso e la taglia dell’umanità: «Riducendo la taglia media degli americani di 15 cm, si ridurrà la massa corporea del 21% per gli uomini e del 25% per le donne.» Una minore massa corporea significa minori bisogni energetici e nutritivi. D’altronde si creano maiali nani destinati ai laboratori farmaceutici. Perché non ci abbiamo pensato prima? Perché lo stato in cui si trovava l’ingegneria genetica non ce lo permetteva.

L’ecologia transumanista è impregnata di ideologia della “resilienza” – termine che viene dalla psicologia, sinonimo di adattamento alla degradazione delle condizioni di esistenza –, che oggi prevale perfino nelle Conferenze sul clima. «A priori non bisogna scartare alcuna idea se questa può sfociare in un migliore adattamento dei corpi al loro ambiente. […] Sul breve o medio termine, l’essere umano mi sembra infinitamente più flessibile e malleabile rispetto al pianeta che ci ospita.» Questa idea apparentemente nuova non è altro che una rimasticatura di Norbert Wiener che, già nel 1950, ci poneva di fronte a questo obbligo: «Abbiamo modificato così radicalmente il nostro ambiente che adesso dobbiamo modificare noi stessi per sopravvivere nel nostro ambiente nuovo.» Si tratta, nel solco della tradizione del darwinismo sociale, di permettere la sopravvivenza a chi meglio si adatta. Muoiano i deboli e gli inadatti.

Da qui la richiesta di trasformazioni genetiche. Ecco l’impostura. Dietro il volontarismo tecnico, domina la sottomissione; la degradazione del nostro ambiente è un fatto ineluttabile, a cui non ci resta altro che adattarci.

Questo transumanismo che si fregia di valori ecologisti e democratici contesta la vecchia amministrazione del disastro da parte delle “burocrazie verdi”. Non vuole presentarsi come un’ecologia della costrizione ma dell’aumento. O piuttosto, attraverso ogni aumento, mettere l’umanità allo stesso livello di un ambiente propriamente disumano. Sia perché ci surclassa – è la tesi di Ray Kurzweil, pioniere del transumanismo secondo il quale l’intelligenza artificiale ci costringe ad aumentare le nostre capacità cognitive – sia perché è ecologicamente invivibile. Probabilmente, entrambe simultaneamente. Ecco qual è la loro ambizione, un insulto ai fondatori dell’ecologia, agli Ellul, Charbonneau, Illich.

Portando avanti un discorso che si pretende ecologista, i transumanisti auspicano certamente disinnescare la critica e far aderire alla propria opinione. Ma l’impostura resta. Esiste una corrente “ecologista” tecnica. Il prodigio del Club di Roma, con il suo studio I limiti dello sviluppo del 1972, non è stato forse quello di aver elaborato il modello del mondo sul computer, qualche mese prima che la NASA lanciasse il suo primo satellite di osservazione e di monitoraggio della Terra?

Il progetto transumanista è l’esito della nostra sottomissione alla perizia tecnica. Si tratta di un progetto anti-umanista, per quanto ne dica Luc Ferry ne La révolution transhumaniste. Quando il saggista ci assicura che il transumanismo è un “iper-umanesimo”, mente. Quando afferma che non si tratta più «di subire l’evoluzione naturale, ma di padroneggiarla e condurla noi stessi», evita di definire questi “noi stessi”. Si tratta del popolo? O dei tecnocrati dirigenti, della loro stessa casta di ingegneri delle anime e dei corpi? Ma d’altronde cosa possiamo aspettarci dall’autore di Il nuovo ordine ecologico (1992), in cui assimilava l’ecologismo al nazismo e all’anti-umanesimo?

Nella favola transumanista, l’umanità non è composta da animali politici ma da animali-macchine. Questa favola riduce la storia al solo progresso tecnologico.

Ecologisti, se volete sopprimere le nocività e non adattarvi a esse, dovete ristabilire la storia. Non confondere progresso tecnologico con progresso sociale e umano. Bisogna scegliere, restare degli umani di origine animale oppure diventare inumani dall’avvenire meccanico.

 

TomJo, ottobre 2016 (tratto da Ecologismo e transumanismo)

 

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P. K. Dick e le anfetamine

Le anfetamine sono state le droghe preferite da Dick, che iniziò ad assumere da adolescente contro vertigini, attacchi di panico e agorafobia per poi continuare regolarmente fino ad abusarne, soprattutto tra il 1970 e 1972 dopo il divorzio da Nancy e fino al ricovero dopo un tentativo di suicidio. Dick avrebbe usato amfetamine per 18 anni, prescritte per la depressione, in un periodo in cui i loro effetti dannosi non erano ancora noti.. Le usò per mantenere un alto livello quantitativo di produzione letteraria, poiché era pagato poco e doveva provvedere al proprio sostentamento, a tal punto che il collega R. Nelson credeva che fosse stato tentato di liberarsi dai suoi problemi finanziari spacciando droghe. In particolare, durante la fine degli anni ’50 aveva iniziato ad assumerle per fronteggiare l’obiettivo che si era imposto, ovvero quello scrivere 60 pagine al giorno lavorando fino a tarda nette. Dal momento in cui sviluppò assuefazione, aumentò costantemente la dose con conseguenze a livello psichico. Aveva disturbi percettivi, vuoti di memoria, terrori irrazionali, attacchi di paranoia e pulsioni suicide che trattava con tranquillanti e sedativi. I ricoveri per depressione e attacchi di panico, oltre che per spasmi al piloro, sono forse da attribuirsi alle amfetamine. Dick comprava le amfetamine anche per strada, il che comprometteva il controllo della situazione che vantava di avere, in quanto la loro qualità era incerta. Sembra che questo uso imputasse una sorta di cristallizzazione della propria scrittura, per esempio in La fede dei nostri padri, che lo induceva a considerare con diffidenza qualsiasi idea narrativa perché sarebbe potuto risultare evidente che era un autore senza futuro. Stando ad Anne, una delle sue mogli, in un caso acquistò da uno spacciatore alcune amfetamine contaminate e fu ricoverato per pancreatite acuta. I prodotti usati erano metedrina (metamfetamina) e benzedrina (solfato di amfetamina) ed era contento di condividerle con chi avesse avuto voglia di ascoltare i suoi discorsi.

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