La Madre Macchina

Cosa resta da salvare dall’incendio? Le specie ele popolazioni decimate? Gli ambienti devastati? Le condizioni di vita sulla terra? L’acqua, l’aria, il suolo, l’atmosfera? Le foreste, i ghiacci, i fiumi? I bisonti, gli orsi, le api, i patagoni e i tasmaniani? … Ma cosa, allora? Le rovine delle città e le ceneri delle biblioteche rase al suolo, carbonizzate dai conquistatori, dagli autodafé dei fanatici e dai vigili del fuoco di Fahrenheit 451? Ma per quali lettori? E per quali “generazioni future”, per favore? – che giustamente non saranno “generate”, “partorite”, ma prodotte in laboratorio con mezzi artificiali (coltura cellulare, ectogenesi, clonazione, ecc.), senza unione carnale, senza padre né madre. Per quali inumani, desiderosi di emanciparsi dalla condizione umana e di elevarsi alla superiorità dei cyborg geneticamente modificati? Questi potrebbero benissimo essere i nostri successori, ma non saranno mai i nostri discendenti. Infatti, non siamo della stessa specie e lasceremo loro senza rimpianti i resti di questo mondo devastato dai loro precursori e da secoli di “distruzione creatrice”. Che sopravvivano nei resti, questi futuriani, rannicchiati nella loro Madre Macchina, la loro tecnosfera protettiva, poiché aspirano al funzionamento eteronomo piuttosto che a una vita autonoma.

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L’era della creazione abolisce il lavoro

Il lavoro è la forma che inaugura lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. È l’atto fondatore di una civiltà, dove il soggetto che trasforma la manna terrestre in merce diventa esso stesso un oggetto mercantile. Durante le guerre, apparse verso la fine del Neolitico, i vinti sfuggivano al massacro solo quando servivano come schiavi dei vincitori. A partire da quel tempo, la sopravvivenza è sempre stata il prezzo di una morte differita.
C’è stato un tempo in cui il dinamismo commerciale salvaguardava una parte di creatività utile al suo processo d’innovazione. Le libertà furtive del libero scambio trasmettevano lo spirito separato e disturbavano il conservatorismo dei regimi agrari. Per quanto scarsa ed emarginata fosse, la passione di creare rendeva attraenti dei lavori la cui utilità sociale sembrava indiscutibile. Sappiamo come le innovazioni originate dal capitalismo in fase d’industrializzazione abbiano alimentato il mito di un progressismo prometeico.
La graduale diserzione del settore produttivo a favore di quello dei consumi ha ridotto il lavoro alla necessità di un salario da dilapidare nelle oasi dei supermercati. Il lavoro socialmente utile ha ceduto poco a poco il posto a un lavoro parassitario che, come negli ospedali, avvantaggia una gestione della redditività e rovina l’efficacia sanitaria con il pretesto di migliorarne i servizi.
Il capitalismo è entrato in una fase di tagli finanziari, dove si arroga il diritto di rendere redditizia la sua morte programmando la nostra. Non abbiamo altra scelta che proteggere, difendere, ricreare la nostra vita e con essa, le risorse naturali che sono allo stesso tempo offerte e distrutte sotto i nostri occhi.
Le questioni ambientali vengono affrontate solo a livello globale e statisticamente – con i risultati che conosciamo – solo perché ci disinteressiamo di affrontarli alla base, a livello locale e regionale. Eppure è nel villaggio e nei quartieri che l’inquinamento, l’avvelenamento, la distruzione dell’insegnamento, degli ospedali, dei trasporti perpetuano i loro misfatti e dove un intervento diretto è possibile.
Gemere, gridare, pregare sono ugualmente ridicoli e rimarranno tali fino a quando l’audacia d’innovare non sarà riapparsa insieme con quella di vivere, finalmente.

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Quando la critica radicale incontra un pugno

COMUNICATO DELL’ASSEMBLEA POPOLARE DI BUSTO ARSIZIO
Succede sempre più di frequente che iniziative pubbliche nelle quali si affronti la questione delle nuove tecnoscienze legate al controllo, alla manipolazione, alla programmazione e al dominio di tutte le forme di vita vengano sabotate da gruppi di persone che vogliono impedire anche solo la possibilità di discussione e di approfondimento. È ciò che è avvenuto a Busto Arsizio il 4 giugno scorso durante l’incontro pubblico organizzato dall’Assemblea popolare con alcuni membri della Nave dei Folli–bollettino radiofonico di critica radicale alla società cibernetica, quando tre persone si sono presentate muovendo accuse infondate e calunniose di fascismo e transfobia sia all’assemblea che agli invitati e dichiarando espressamente di voler sabotare l’incontro. A nulla sono serviti la disponibilità al confronto e il chiarimento che non si volesse mettere in discussione le scelte individuali di chi si rivolge alla scienza ufficiale ma il fatto che le élite economico-finanziarie strumentalizzino i problemi di salute, il malessere e l’infelicità, le nocività ambientali e le ingiustizie sociali, da loro stesse causati, per portare avanti i loro progetti deliranti di trasformazione dell’essere umano (e di tutti gli esseri viventi) in una chimera tecnobiologica (imposizione e integrazione di trattamenti/apparecchi neotecnologici nel corpo organico, piegando il bios alle logiche e alle esigenze della macchina cioè ai fini del controllo e dell’efficienza performativa). L’azione di sabotaggio si è conclusa con l’aggressione fisica a uno dei nostri invitati; l’incontro è poi continuato quando le tre persone si sono finalmente allontanate. Siamo solidali con i nostri ospiti della Nave dei Folli e li ringraziamo per il loro contributo alla conoscenza e alla critica radicale della società cibernetica che si è andata affermando negli ultimi decenni e che intende portare l’assalto definitivo ai nostri corpi. Per quel che ci riguarda non tollereremo più tentativi di censura nei confronti di alcuno e da chiunque essi arrivino. Non vogliamo essere complici o neutrali rispetto a questa nuova caccia alle streghe, pena la nostra – e di tutti coloro che si oppongono ai diktat della tecnocrazia globale – agibilità di iniziativa pubblica. La questione che si pone è semplice e imprescindibile: la possibilità, adesso e in futuro, di esprimere pubblicamente l’indisponibilità e il rifiuto a farsi manipolare, innestare e colonizzare i corpi da bio/nanotecnologie, tecnologie digitali e da chissà quali altre diavolerie tecnologiche, senza essere tacciati di fascismo e transfobia e quindi essere mostrificati. Rivendichiamo il diritto naturale e inviolabile di ognuno di decidere sul proprio corpo, che non può subire deroghe o eccezioni, senza dover motivare o giustificare il rifiuto ad un qualunque trattamento sanitario (che faccia bene o male non importa) o impianto di protesi tecnologiche. L’habeas corpus, principio che tutela l’inviolabilità personale (“abbi il [tuo] corpo [libero]”), non deve essere sacrificabile in nome di una qualsiasi presunta e pretesa ragione di “salute pubblica”. La libertà individuale viene sempre prima di una qualsiasi supposta “emergenza” (sanitaria, climatica, energetica, alimentare, bellica che sia). PER L’AUTODETERMINAZIONE DEI CORPI

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Mara e le origini del Punx a Torino

Le prime iniziative del nostro sparuto gruppo di punk anarchici torinesi partono dall’esigenza di farci sentire, di far sapere che esiste la voglia di essere “contro”, la voglia di comunicare/urlare, vestirsi fuori da tutti gli schemi conosciuti, pur rendendoci conto dei limiti che il punk stesso ha in se.
Il primo volantino “ufficiale” risale al Marzo 82, distribuito ad un concerto dei Tuxedomoon, contro i prezzi elevati dei concerti, ma soprattutto per “pubblicizzare” che i punk vogliono un posto, uno spazio autogestito. La nostra non era una proposta speranzosa o una speranza ingenua; sappiamo benissimo di non essere in grado di occupare qualche locale, ma l’importante è che la gente smettesse di pensare ai punk come fascistelli, dementi o altro. In quel periodo la scena punk era molto eterogenea e non era facile unire le esigenze di tutti.
Si gestiva la discoteca per una sera la settimana, ci si trovava in giro, ma si aveva l’esigenza ormai di avere un locale, un posto dove trovarci.
La sede anarchica di via Ravenna era l’unica situazione disponibile che non ci facesse sentire “quelli che bisogna capire perché forse anche il punk ha qualche cosa di buono”.
Cominciamo a trovarci tutte le settimane e alla fine del maggio 82 riusciamo ad organizzare il primo concerto autogestito “CONTRO LA DISPERAZIONE URBANA”, in un centro d’incontro a Torino.
Fu questo il primo momento di comunicazione, la prima grossa uscita del punk politico nella nostra città, con una discreta affluenza di pubblico. Fu anche un momento molto importante all’interno del nascente collettivo per prendere le distanze da chi il punk lo viveva esclusivamente in un modo musicale o come nuova moda. Le discussioni tra noi non mancavano e non è stato affatto facile raggiungere la compattezza che c’è ora.
Veniamo da esperienze molto diverse e quasi nessuno da esperienze politiche precedenti.
Da allora le cose sono andate sempre meglio; sono stati organizzati cinque concerti autogestiti in meno di un anno che oltre a quello già citato, sono: “Punk oltre la musica” (19/9), “Punk contro Comiso” (12/11), “Concerto per l’Autogestione” (febbraio 83),”Contro il monopolio delle case discografiche”(23/4/83) e inoltre qualche Fanzine (anche se nessuna ha avuto purtroppo seguito), alcuni demo-tape, e una serie di volantini distribuiti per evitare di ghettizzarci, che vanno da una critica pubblica a Radio Flash ad una protesta contro l’aumento del biglietto ATM.
Attualmente il collettivo sta crescendo notevolmente, riuscendo a riunirci settimanalmente, non solo noi di Torino, ma anche dei punk che vivono nell’hinterland.
L’ultima iniziativa è stata la creazione di una etichetta indipendente, la “CONTROPRODUZIONI” per la quale è già uscito il primo disco di un gruppo di Torino, chiaramente facente parte del collettivo PUNX.
I soldi per la realizzazione del disco sono stati presi in gran parte dai concerti organizzati in precedenza, mentre il resto del gruppo stesso che ha inciso. Con il ricavato della vendita verrà finanziato il prossimo disco che verrà prodotto… e così via.
Abbiamo gusti, modi di essere, di suonare, di vivere giustamente diversi, ma questo non disturba molto. Non ci interessa far rinascere un “movimento”, ma di reagire, ognuno in modo strettamente personale, alla repressione fisica e psichica che ci perseguita anche al cesso. (Mara e Sergio per Bodosproject, 1983)

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L’ INFINITO AZZURRO – Claudio Veriol

IO sono un poeta,
io voglio l’ infinito azzurro!
TUTTI i poeti vogliono l’ infinito azzurro!…ma, ahimè!
Ora, guardando il cielo, non si prova più la sensazione infinita.
Tutto cominciò quando Magellano,
il navigatore, fece la circumnavigazione del globo.
La terra fu allora rotonda e finita, non piatta e infinita!
Maledetto Magellano! potevi stare a casa,
invece di andare in giro a rovinare i sogni dei poeti?
Si, perché era così bello, una volta,
tanti secoli fa, andare sul mare con un grande vascello.
Era così bello sapere che terra e mare erano infiniti.
Dove si poteva arrivare?
Sperduto sul vascello in mezzo al mare infinito
il poeta poteva alzare gli occhi e guardare il cielo azzurro. Guardava di qua, di là ,
e tutto era così azzurramente infinito.
Infinito azzurro.
Ora sappiamo che la Terra è rotonda e finita…
così abbiamo perso l’ antico contatto cosmico azzurro degli uomini antichi.
Che me ne facevo di un Universo senza infinito azzurro?
IO sono un poeta, non posso vivere senza infinito azzurro!
La civiltà, le scoperte, le invenzioni,
non sempre sono un bene per l’ uomo.
Evolvendosi,
l’ uomo ha perso l’ infinito azzurro.
Infinita sensazione di grandezza: nessun uomo mai piu’ ti proverà!…
ma io sono un poeta: ho bisogno dell’ azzurro!
Con la civiltà l’ uomo ha scoperto il mondo, ma a quale prezzo?
Ha perso la sensazione più bella.
Ha perso l’ infinito azzurro.

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POESIA ILLUMINAZIONE – Lenore Kandel

siamo stati tutti fratelli, ermafroditi come ostriche
donando le nostre perle spontaneamente
nessuno aveva ancora inventato la proprietà
né la colpa né il tempo
guardavamo le stagioni passare, eravamo cristallini
[come neve
e ci fondevamo dolcemente in forme nuove
mentre le stelle ruotavano attorno a noi
non avevamo conosciuto il tradimento
noi stessi eravamo perle
sostanze irritanti tramutate in splendore
e ci offrivamo spontaneamente
le nostre perle sono diventate più preziose e i nostri
[sessi statici
con la mutazione è nato un guscio, abbiamo concepito
[lingue diverse
nuove parole per nuovi concetti, abbiamo inventato
[le sveglie
i recinti la lealtà
eppure … anche adesso … simulando una comunione
infinite percezioni
io ricordo
siamo stati tutti fratelli
e ci offriamo spontaneamente

Lenore Kandel: The Love Book

Recita Daria di Bernardo
Suona Antonio Monti

Domenica 29 maggio Dalle ore 20.30
Inizio spettacolo ore 21.00
Gelateria popolare Via Goffredo Mameli 6 – Torino

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FRANCO SERANTINI – Morte di un anarchico

Domenica 7 maggio 1972 è morto nelle carceri di Pisa il giovane anarchico Franco Serantini, massacrato di botte da “ignoti” poliziotti. Il massacro era iniziato il venerdì precedente, durante una manifestazione indetta per protesta ad un comizio fascista. Durante la prima carica eseguita poco dopo le 18 dalla polizia contro gli antifascisti, Serantini rimaneva fermo senza opporre alcuna resistenza alla furia costituzionale dei poliziotti, furia che si è coperta in passato di innumerevoli encomi solenni presidenziali e di elogi di ministri vari. Circondato da una decina di poliziotti, il compagno Serantini viene bestialmente picchiato: la furia costituzionale degli “agenti dell’ordine” contro il compagno Serantini raggiunge delle punte talmente violente che un commissario della stessa polizia è costretto ad intervenire e ad arrestare Serantini “per sottrarlo alla furia degli agenti” come lo stesso commissario ha dichiarato. Dopo l’arresto, Serantini viene condotto nella caserma della celere dove rimane a disposizione dei locali poliziotti sino alle ore 1.30 della notte. Che cosa sia successo a Serantini all’interno della caserma della Celere non è dato sapere, ma vi sono buoni motivi per ritenere che i poliziotti si siano serviti di tale arresto soltanto per permettere che il pestaggio continuasse in maniera razionale e senza pericolosi testimoni. Nessun commissario inoltre poteva più intervenire per arrestare ulteriormente Serantini e “sottrarlo alla furia degli agenti”. Alle 1.30 della notte Serantini viene finalmente trasportato nel carcere Don Bosco e nello stesso istante che Serantini supera il portone del carcere si verifica una violazione al cosiddetto regolamento carcerario, violazione che – detto per inciso – ormai è diventata una regola ed una precisa prassi intoccabile del sistema repressivo italiano. Il regolamento carcerario prescrive infatti che tutti coloro che entrano in un carcere nella condizione di arrestati debbano passare obbligatoriamente attraverso un controllo medico. E tuttavia non si contano più i casi di compagni e di non compagni i quali hanno denunciato – anche nelle aule dei tribunali – di aver subito violenze fisiche da poliziotti di differente estrazione ministeriale, e soltanto dopo essere stati ridotti a stracci di uomini ricevettero finalmente la grazia di venir passati alle carceri senza che nessun medico si curasse di prendere atto delle loro condizioni fisiche. L’autopsia eseguita sul corpo di Serantini ha preso atto dell’esistenza di tumefazioni esterne grosse quanto un pugno, di un ematoma polmonare provocato da un colpo violentissimo, di lesioni, lividi in ogni parte del corpo, e ben due fratture craniche: una posteriore ed una parietale. Non si può che constatare che il compagno Serantini è stato massacrato a furia di botte, e ciò non può certamente essere accaduto prima che egli venisse trasferito nelle celle della polizia, cioè in piazza, perché un uomo ridotto in tali condizioni non sarebbe stato in grado di reggersi sulle proprie gambe. Se l’avessero visitato e conseguentemente ricoverato in ospedale, Serantini non sarebbe forse morto. Dunque oltre ai sadici poliziotti che l’hanno massacrato ed ai loro dirigenti che hanno ordinato o consentito il pestaggio, anche la direzione del carcere è responsabile della morte di Serantini. Sabato a mezzogiorno Serantini viene interrogato dal sostituto Procuratore Sellaroli, ed anche tale interrogatorio rientra nelle formalità previste dalla legge. Il Procuratore non deve infatti che appurare la reità possibilmente confessa dell’accusato. Durante l’interrogatorio formale che il Procuratore Sellaroli sagacemente conduce, con totale soddisfacimento della parte lesa (la polizia!) il compagno Serantini dimostra visibilmente di stare male. È stato trasportato a braccia dagli agenti carcerari e dichiara di sentirsi molto male. Durante tutto il periodo dell’interrogatorio, egli mantiene il capo appoggiato sulla superficie del tavolo, e l’ematoma che gli era stato prodotto sulla parte posteriore del cranio, è ben visibile. Il Procuratore Sellaroli non si degna nemmeno di appurare se il cittadino che egli sta interrogando sia stato sottoposto al controllo medico previsto dal regolamento carcerario. Unica preoccupazione del degno sostituto Procuratore è quindi evitare accuratamente ogni possibile intervento che possa avere delle noiose conseguenze per la polizia. Se il sostituto Procuratore l’avesse fatto ricoverare forse Serantini poteva ancora salvarsi e dunque anche Sellaroli è responsabile della sua morte. Ecco che già la catena di responsabilità per l’assassinio di Serantini passa attraverso le principali istituzioni repressive dello stato: la polizia, il carcere, la magistratura. Un esemplare assassinio di stato. Domenica 7 maggio alle ore 9.30 del mattino Serantini muore, e con perfetto tempismo un funzionario della questura si precipita in Municipio per ottenere l’autorizzazione a rimuovere il corpo, tentando così di evitare il necessario esame medico, formalità decisamente scocciante anche questa e che secondo i poliziotti di larghe vedute andrebbe eliminata per non intralciare il “giusto compito delle forze dell’ordine”. A questo punto scoppia lo scandalo. I giornalisti si lanciano sull’episodio e scoprono che “un giovane studente è stato ucciso”. Ma neppure tanto scandalo: si tratta di un anarchico e per di più di un figlio di genitori ignoti; i suoi assassini sono poliziotti e figli di buona donna. Perciò la vicenda non giunge mai in prima pagina e dopo un paio di giorni i giornali non ne parlano più. Intanto si sente la solita fitta rete di omertà, di reticenze mafiose, di scaricabarili. Ed a tappare la bocca ai compagni di Serantini ci pensa la polizia impedendo comizi, sequestrando volantini, incriminando. Una sola cosa ci consola. Ai funerali del compagno Serantini non abbiamo ricevuto l’offesa di corone inviate dal Presidente della Repubblica nè di corazzieri in alta uniforme, né di mafie tricolori che si contendessero la bara come nei film di Al Capone. Quando la bara è apparsa uscendo da una fredda sala d’obitorio, nessuna folla di borghesi e piccolo-borghesi, accecati dalla disinformazione televisiva si è istericamente accalcata per applaudire. (A Rivista Anarchica, n° 13 Giugno 1972)

 

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Luigi Assandri – Autodidatta

Luigi Assandri è stato uno dei miei primi contatti anarchici a Torino (nella sede di Via della Rocca) quando vi sono arrivato nel ’62. All’inizio, devo dire, non mi aveva fatto una grande impressione. La sua “semplicità” espositiva non si accordava con le mie idee da neofita un po’ fanatico. Poi, negli anni successivi, ho cambiato atteggiamento.
La presenza anarchica era piuttosto modesta, allora, rappresentata da personaggi con un passato militante degno e anche storicamente importante, ma ormai comprensibilmente poco attivi nella diffusione dell’idea. C’era Ilario Margarita, testimone vivente della rivoluzione spagnola del ’36. C’era Gaspare Mancuso, che aveva continuato in Italia la lotta antifranchista in Spagna. E c’era un gruppo di compagni anziani (residuo del nucleo “storico” dell’anarchismo torinese del dopoguerra) che nel ’66 avevano aperto una nuova sede in Via Arsenale, più che decorosa ma poco utilizzata.
Con questi compagni Luigi aveva un rapporto (reciproco) di scarsa sintonia, in parte perché si trovava a disagio nei conflitti ideologici che avevano agitato l’anarchismo del dopoguerra e sopravvivevano tra i vecchi anarchici torinesi, ma soprattutto perché (a quanto potevo vedere) sentiva il bisogno di un impegno propagandistico che, invece di perdere tempo nelle diatribe interne, si desse da fare per testimoniare al mondo esterno le caratteristiche dell’anarchismo.
Questa era la sua concezione della militanza, forse un po’ ingenua ma perseguita con convinzione imperterrita allora, quando l’ho conosciuto, e in seguito, per tutta la sua vita, con il supporto costante della compagna Adele Gaviglio, essa stessa una figura esemplare di quell’ambiente, anche lei, come Luigi, di estrazione proletaria e autodidatta: poca “ideologia” e molta passione. (Adele meriterebbe una citazione biografica a parte, per la sua storia personale di ex-mondina vercellese poi emigrata a Torino, oltre che per il carattere a dir poco burbero di “donna del popolo” e l’altrettanto burbero affetto on cui difendeva il “suo Luigino” dalle critiche ingenerose).
In seguito, già prima del mitico ’68, la presenza anarchica a Torino si è andata arricchendo per l’ingresso di nuova linfa, che all’inizio era rappresentata soltanto da Gerardo Lattarulo, al momento unico “giovane” disponibile sulla scena (col quale il sottoscritto ha stipulato un sodalizio non solo ideologico ma di grande e imperitura amicizia). Poi, pian piano, sono arrivati altri compagni, tutti desiderosi di darsi da fare, e ciò ha portato alla formazione di gruppi d’intervento innegabilmente più attivi di quello dei “vecchi” (come con anagrafica sufficienza li definivamo). E Luigi Assandri è uscito progressivamente dal suo isolamento e ha preso a frequentare le riunioni e le iniziative dei nuovi compagni, partecipando ai cortei e alle manifestazioni con i suoi slogan personali (“guelfo o ghibellino, il potere è sempre assassino” e altri simili). Pur senza aderire formalmente a questo o quel gruppo, è stato direi quotidianamente presente (sempre con la compagnia di Adele) non solo nelle discussioni e nei momenti organizzativi locali, ma anche nei contatti che si tenevano con i militanti di altre città e fuori dell’Italia, soprattutto in Francia.
Con Luigi tutti noi “giovani” abbiamo così sviluppato un rapporto ben al di là della semplice consuetudine, anche perché il suo contributo non era solo di presenza, ma pratico. Si era dotato di un’attrezzatura completa per ciclostilare, messa a disposizione dei compagni per la produzione di volantini e manifesti (il che ci portava frequentare continuamente la sua casa) e che con gran lena utilizzava per riprodurre testi o parti di testi anarchici, classici o meno, da offrire in giro per l’educazione libertaria di curiosi e simpatizzanti. Queste “edizioni Assandri” (una bella massa di materiale, va detto) sono state l’altra faccia dell’attività di Luigi, svolta in parallelo a quella di collaborazione con i gruppi, proseguimento evoluto della sua tendenza a fare propaganda per conto proprio (anch’esso meritevole, se possibile, della considerazione di una trattazione ad hoc).
Quanto è andato avanti, tutto ciò? Ben oltre gli anni Novanta, direi, a lungo, comunque, fino alla morte di Luigi. (Roberto Ambrosoli)

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Avete mai provato una volta il desiderio di arrivare in ritardo?

Il carattere principale della nostra epoca è l’alta velocità che hanno assunto le merci, siano esse prodotti industriali, informazioni o essere umani ridotti alla condizione di lavoratori-consumatori. Le reti telematiche, telefoniche e satellitari, le rotte del traffico aereo, automobilistico, ferroviario e marittimo stanno ingabbiando in modo sempre più accelerato la quasi totalità dello spazio e del tempo e con essi i sogni e i bisogni degli uomini: sembra non esserci più via di uscita, un altrove, in un mondo ovunque uguale a se stesso.
Per cambiare questo mondo occorre costruire assieme la pratica del rifiuto unilaterale dell’esistenza imposta dal capitalismo globale, attraverso l’autogestione delle proprie vite e l’autoproduzione singola e collettiva di quanto ci chiedono necessità e desideri, passando per l’autocostruzione dei luoghi in cui vogliamo vivere e dei modi in cui vogliamo interagire. Abbandonare il proprio posto nella catena ciclica del consumo di oggetti, spettacoli, per inventare nuovi modi di produzione e distribuzione, di autogestione dei luoghi in cui si abita attraverso decisioni minime, locali e condivise, sperimentare ognuno nei propri mondi arti e mestieri, quello di vivere liberi. Le nostre accademie e laboratori saranno palazzi e orti, boschi e acque. Anche se narcotizzata nella drogheria mediatica, un’insofferenza al modello di vita imposto e propagandato come democratico insorge nei modi più disparati, dappertutto: si aprono brecce, scoppiano ire, sfoghi di violenza ma anche sommosse, rivoluzioni, senza obiettivi né palazzi d’inverno. Sarà dura e toccherà a ciascuno, con le sue ragioni e la sua sensibilità, rendere questa avventura appassionante.

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Gli uomini sono solo più mediatori tra le macchine

In questa società la tecnologia — processo che riunisce scienza, tecnica, economia e politica — è la forza che presiede a ogni cambiamento; sta alla base di ogni sistema di produzione, circolazione e consumo. È il mezzo grazie al quale la produzione può essere automatizzata e delocalizzata, la natura colonizzata, le sue forze domate e le sue risorse saccheggiate; infine crea lo spazio sociale in cui la merce diventa spettacolo. La tecnologia non può essere ridotta a un insieme di macchine e di conoscenze: costituisce di per sé un sistema divenuto autonomo. L’economia è alle sue dipendenze, ed essa si è diffusa a tal punto che si può parlare di una società artificializzata o “coltivata fuori suolo”. Gli uomini si limitano a essere nient’altro che mediatori tra le macchine, vero soggetto della storia alienata: nel linguaggio dei commentatori più oscurantisti viene definita “società della conoscenza”. E quando le macchine rappresentano la principale forza produttiva questa diventa, spronata dagli imperativi della crescita, la principale forza distruttiva.
La logica tecnicista travalica gli ambiti nazionali e si impadronisce del pianeta intero: ci troviamo in una società mondializzata votata allo sviluppo, in cui le
popolazionidei paesi in via di sviluppo non sono altro che animali da laboratorio.

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