Lungi dall’annunciare l’avvento del “migliore dei mondi” urbani, la promozione della smart city da parte dei servitori del capitalismo tecnologico (responsabili politici, ingegneri, urbanisti, architetti, ricercatori in scienze sociali e “comunicatori” vari) non farà che contribuire a spingere al parossismo la disumanizzazione della vita sociale e dell’essere umano stesso.
La smart city rappresenta il culmine: l’uomo-macchina nella sua “macchina per abitare”, nella città-macchina, in un mondo-macchina; l’uomo come insieme di dati numerici la cui vita — se si può ancora adoperare questo termine per definire la sua esistenza meccanizzata — è guidata da un supporto algoritmico. È questo l’ideale che stanno recuperando i padroni della Silicon Valley e tutta la casta di ingegneri che pianificano la “città del domani”. In California, in Cina, a Parigi, a Barcellona e in qualunque altra parte del mondo, nasce la smart city, la versione 2.0 della polizia urbanistica, dell’organizzazione ottimizzata dell’ordine pubblico al servizio dei poteri privati (il cosiddetto “partenariato pubblico-privato”); questa “città intelligente” costellata di sensori, attraversata da “flussi”, da “reti”, da innumerevoli virtualità”, e popolata da cretini “connessi e aumentati” che battono febbrilmente sulle tastiere o sugli schermi dei loro computer, tablet o i phone per non perdere il contatto con ciò che credono sia la realtà. Non è che il reale stia scomparendo, ma è di volta in volta modellato per soddisfare le “preferenze” dell’utente, facendogli perdere il senso del limite attraverso l’illusione di onnipotenza data dalla manipolazione compulsiva delle sue protesi elettroniche.
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