Se si considera in tutta la sua estensione la crisi della società contemporanea non credo sia possibile guardare ancora agli svaghi come ad una negazione del quotidiano.
Per il capitalismo classico, il tempo perduto è ciò che è estraneo alla produzione all’accumulazione, al risparmio.
La morale laica, insegnata nelle scuole della borghesia, ha impiantato questa regola di vita.
Il fatto è che il capitalismo moderno, con un’astuzia inaspettata, ha bisogno di aumentare i consumi, di innalzare il livello di vita.
Possiamo dire quindi che questa espressione classica del tempo perduto è rigorosamente priva di senso.
Poiché contemporaneamente, le condizioni della produzione parcellizzata e
cronometrata sin nei particolari sono diventate perfettamente indifendibili, obsolete ed antieconomiche, la morale, già in atto nella pubblicità nella propaganda e, in tutte le forme dello spettacolo dominante, ammette invece apertamente che il tempo perduto è quello del lavoro, giustificato solo dai vari livelli del guadagno, che permette di comprare il riposo, i consumi, gli svaghi, cioè una passività quotidiana fabbricata e controllata dal capitalismo.
Ora se consideriamo l’artificiosità dei bisogni del consumo, creata dal nulla, ed incessantemente stimolata dall’industria moderna, se si riconosce il vuoto degli svaghi e l’impossibilità del riposo, si può porre la domanda in modo più realistico: che cosa non sarebbe tempo perduto? In altre parole: lo sviluppo di una società dell’abbondanza dovrebbe portare all’abbondanza di che cosa?
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