Ma basta parlare di strategia. C’era una richesta in Days of War, Nights of Love, che in nessuna forma potrebbe essere realizzata sotto il capitalismo: l’idea che la vita senza mediazioni possa diventare intensa e gioiosa. Nella nostra concezione di resistenza l’abbiamo espressa come un’avventura romantica in grado di soddisfare tutti i desideri prodotti, ma mai consumati nella società dei consumi. Nonostante tutta la tribolazione e la sofferenza degli ultimi dieci anni, questa sfida aleggia ancora come la speranza in fondo al vaso di Pandora.
Continuiamo a ribadire questa richiesta. Noi non resistiamo solo per dovere, abitudine o sete di vendetta, ma perché vogliamo vivere pienamente e far rendere al meglio il nostro potenziale illimitato. Siamo rivoluzionari anarchici, perché sembra non ci sia modo di scoprire cosa significa senza lottare almeno un po’.
Per quante difficoltà possa comportare, la nostra lotta è una ricerca della gioia; per essere più precisi, si tratta di un modo per creare nuove forme di gioia. Se perdiamo di vista questo, nessun altro si unirà a noi e nemmeno dovrebbero. Godersela non è semplicemente qualcosa che dobbiamo fare per essere strategici, per attirare simpatizzanti: è un segno infallibile per capire se abbiamo o no qualcosa da offrire.
Man mano che l’austerità diventa la parola d’ordine dei nostri governanti, i piaceri disponibili sul mercato saranno sempre più dei surrogati. L’interesse per la realtà virtuale vuol dire praticamente ammettere che la vita reale non è, non può essere appagante. Dobbiamo dimostrare il contrario, scoprendo i piaceri proibiti che indicano la strada per un altro mondo.
Ironia della sorte, dieci anni fa questa domanda sensata è stata l’aspetto più controverso del nostro programma. Nulla mette le persone più sulla difensiva che il suggerimento che possono e devono divertirsi: innesca tutta la vergogna dell’incapacità di farlo, tutto il risentimento verso quelli che sentono come i monopolizzatori del piacere, e una gran quantità di puritanesimo persistente.
In Frammenti di un antropologia anarchica, David Graeber ipotizza che:”se si vuole ispirare odio etnico, il modo più semplice per farlo è concentrarsi sui modi bizzarri, perversi, in cui l’altro gruppo avversario persegue il piacere. Se si vuole sottolineare comunanza, il modo più semplice sta nel sottolineare che anche loro provano dolore”.
Questa formula è tragicamente familiare a chi abbia visto i radicali sfottersi a vicenda. Dichiarare di aver provato un piacere celestiale – soprattutto per qualcosa che viola di fatto il regime di controllo, come il taccheggio o gli scontri con la polizia – è un invito a farsi rovesciare addosso disprezzo. E forse questa formula spiega anche perché gli anarchici possono trovarsi quando lo stato uccide Brad Will o Alexis Grigoropoulos, ma non riescano a mettere da parte le loro differenze per combattere altrettanto ferocemente per i vivi.
La morte ci mobilita, ci catalizza. La memoria della nostra mortalità ci libera, ci permette di agire senza paura; nulla è più terrificante della possibilità che si possano vivere i nostri sogni, che qualcosa è veramente in gioco nella nostra vita. Se solo sapessimo che il mondo sta finendo, si sarebbe finalmente in grado di rischiare tutto, non solo perché non avremmo niente da perdere, ma perché non si avrebbe più nulla da vincere.
Ma se vogliamo essere anarchici, dobbiamo abbracciare la possibilità che i nostri sogni possano divenire realtà, e lottare di conseguenza. Per una volta dovremo scegliere la vita invece della morte, il piacere invece del dolore. Dovremo cominciare ad iniziare.
Il testo completo: CRIMETHINC. LOTTANDO SU UN NUOVO TERRENO.
Cos’è cambiato dal XX secolo