Alfred Jarry detto l’indiano, ama le inquietudini dell’esistente, le demoniache illuminazioni, le scienze occulte, l’araldica, la bicicletta, le rivoltelle. È lui che, con due pistole, durante uno spettacolo circense terrorizza i vicini nel tentativo di convincerli delle sue capacità di domatore. È sempre lui che in un giardino stappa bottiglie di champagne a pistolettate e che, alla madre imbufalita di due pargoletti che giocano lì accanto, risponde di non preoccuparsi in caso di decesso “ve ne faremo degli altri”. Una volta dopo aver sparato ad uno scultore reo, a suo dire, di avergli fatto proposte sconvenienti, si rivolge agli amici che lo trascinavano via dicendo: “Mica male come letteratura, vero?”. È il geniale inventore di re Ubù, l’incontinente, crudele, ingorda, proterva, vile, boriosa, tracotante e all’occorrenza schifosamente prona, simbolica incarnazione del potere.
Quando la commedia “Ubù re” viene rappresentata per la prima volta nel 1896 esplode l’entusiasmo e nasce un mito. Il senso eversivo ed anarchico della commedia, la critica delle istituzioni sono troppo simbolicamente vere per essere perdonate. Jarry è celebre, ma povero in canna. Nessuno vuole pubblicare o rappresentare cose sue. Sarà inevitabile per lui, che è ben lontano dall’accettare una vita incanalata nell’ordine della banalità, convivere con la miseria e la fame prima di morire in ospedale a 34 anni. Senza negarsi un ultimo sberleffo. In punto di morte, al medico che gli chiedeva se c’era qualche cosa che avrebbe potuto fargli piacere, risponde: “si, uno stuzzicadenti”.
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