Essere proprietario è arrogarsi un bene del godimento del quale si escludono gli altri; è, nello stesso tempo, riconoscere a ciascuno un diritto astratto di possesso. Escludendo dal diritto reale di proprietà, il possidente estende la sua proprietà sugli esclusi (assolutamente sui non-possidenti, relativamente sugli altri possidenti) senza i quali egli non è niente. Da parte loro, i non-possidenti non hanno scelta. Egli se ne appropria e li aliena come produttori della sua potenza mentre, per la necessità di assicurare la propria esistenza fisica, essi sono costretti a collaborare loro malgrado alla propria esclusione, a produrla e a sopravvivere nell’impossibilità di vivere. Esclusi, essi partecipano alla proprietà per il tramite del proprietario, partecipazione mistica perché, così, si organizzano all’origine tutti i rapporti di clan e tutti i rapporti sociali, che a poco a poco succedono al principio di coesione obbligata secondo il quale ciascun membro è funzione integrante del gruppo. La loro garanzia di sopravvivenza dipende dalla loro attività nel quadro dell’appropriazione privativa, essi rafforzano un diritto di proprietà da cui sono esclusi e, per questa ambiguità, ciascuno di essi si coglie come partecipante alla proprietà, come particella vivente del diritto di possedere, proprio mentre una tale credenza, nel momento in cui si rafforza, lo definisce ad un tempo come escluso e come posseduto. (Termine estremo di questa alienazione: lo schiavo fedele, il poliziotto, la guardia del corpo, il centurione che, per una sorta di unione con la propria morte, dà alla morte una potenza uguale alle forze di vita, e identifica in un’energia distruttrice il polo negativo dell’alienazione e il polo positivo, lo schiavo assolutamente sottomesso e il signore assoluto). Nell’interesse dello sfruttatore importa che l’apparenza si mantenga e si affini; la chiave non è in alcun machiavellismo ma in un semplice istinto di sopravvivenza. L’organizzazione dell’apparenza è legata alla sopravvivenza del proprietario, una sopravvivenza legata a quella dei suoi privilegi, ed essa passa per la sopravvivenza fisica del non proprietario, un modo di restar vivo nello sfruttamento e l’impossibilità di essere uomo. L’accaparramento e la dominazione ai fini privati sono così imposti e sentiti primitivamente come un diritto positivo, ma sotto la specie di un’universalità negativa. Valido per tutti, giustificato agli occhi di tutti per ragione divina o naturale, il diritto di appropriazione privativa si oggettiva in un’illusione generale, in una trascendenza universale, in una legge essenziale in cui ognuno, a titolo individuale, trova una giustificazione sufficiente per sopportare i limiti più o meno stretti assegnati al suo diritto di vivere e alle condizioni di vita in generale.
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