C’è chi resiste ad accettare la convenienza della Catastrofe; e, non potendo credere nella capacità di ammenda del capitalismo —capacità di porsi dei limiti, di porre il freno, di “smettere di essere sé stesso”—, appoggia una “eco-tirannia”, una “eco-dittatura”: obbligare gli uomini a comportarsi bene, nella loro relazione con l’ambiente, come devono comportarsi per assicurare semplicemente la sussistenza della specie umana; obbligarli a vivere come è necessario per schivare quella catastrofe. Si tratterebbe, senz’altro, della più filantropica delle dittature, una tirannia veramente “umanitaria”. A questa “eco-dittatura” si riferiva Hans Jonas quando aggiungeva che, se deve esistere un’umanità sulla Terra, bisognerà rinunciare ai lussi della libertà; e, tra altri, le ha dedicato molte pagine Rudolf Bahro, nella sua Logica della Salvazione. Secondo quest’autore, «il governo della salvazione sarà totalitario, o eco-dittatoriale, o come si voglia chiamarlo, fino a quando gli individui non avranno il minimo proposito di porsi per convinzione propria all’altezza della sfida storica: assicurare la sussistenza della specie umana sulla Terra, per il quale scopo porre termine agli orientamenti economici e alle pratiche politiche “sterminatrici” oggi dominanti».
Certo che risulta peripatetica quest’idea di una “santa tirannia”, di una “dittatura filantropica”; certo che è scomodo accettare la postulazione di una catastrofe imminente (“imminente” è un termine relativo: vuol dire “immediatamente”, in un pugno d’anni o in pochi secoli). Ma, possiamo credere ancora nella volontà di “auto-correzione” del produttivismo? Possiamo fidarci del fatto che sarà riveduta e neutralizzata la logica di crescita, di produzione e consumo inarrestabile, che caratterizza il capitalismo e che pure ha fatto estinguere il Socialismo? È possibile immaginare formule di organizzazione politico-economica che, appartandosi dal produttivismo, e recuperando gli elementi positivi delle tradizioni collettiviste, cooperativiste, agrarie, ecc., istituiscano modelli di società infinitamente meno dannosi per la Natura che quello attuale e, in questo modo, garantiscano la non-estinzione degli esseri umani. La tradizione libertaria sa molto su questa possibilità: storicamente è stata fatta un’incursione per vie poco transitate che permetterebbero all’uomo di sorteggiare “santi dispotismi” e “catastrofi annunciate”. Però ci sono uomini (o sarà possibile averli) disposti ad accettare un cambio così drastico nelle loro abitudini politiche ed economiche; capaci di assumere che sono stati formati ed educati in una farsa sanguinosa, e che hanno investito tutta la loro vita nell’errore più stupido e nel concimare la perdizione dell’umanità? Se si potesse rispondere affermativamente a questa domanda rimarrebbe ancora uno spiraglio di speranza. Se la risposta è negativa, rimane solo una questione da esporre: cos’è quello che temiamo della Catastrofe? Che temiamo della Catastrofe quando la maggior parte dei nostri simili già vive nel suo seno (catastrofe di morire di fame, di veder morire i suoi figli nell’infanzia, di sapersi indifeso e alla mercè delle malattie, di non poter scappare dal terrore politico,…)? Non sarà che l’unica cosa che non ci sembra buona di quest’infortunio quotidiano, nel cui cuore vivono già milioni di persone, l’unica cosa che ci inquieta e ci scuote, è che domani potrebbe toccare anche a noi, gli occidentali, gli uomini e le donne che durante gli ultimi secoli abbiamo fatto tutto il possibile perché la catastrofe sia il destino degli altri e adesso retrocediamo spaventati davanti al sospetto, se non alla certezza, che dovrà essere anche il nostro?
Cos’è che tanto temiamo della Catastrofe? Pedro Garcìa Olivo
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