A New York c’è il Museum of Reclaimed Urban Space — MoRUS, un museo sugli spazi occupati creato in un edificio in cui sono attive altre occupazioni. Lo spazio ripreso è stato trasformato in uno luogo di esposizione d’arte per attivisti, mantenendo i propri marcati elementi originari. A differenza di altri musei, le sue pareti non sono di un bianco ospedaliero, ma un assemblaggio di forme e colori, pareti con mattoni a vista e pilastri pieni di scritte a bomboletta. .Cartelli su cui si legge “Sostenibilità”, “Patrocinio della bicicletta” e “Risanamento pubblico” conducono allo scantinato pieno d’oggetti e di ritratti di occupanti del quartiere. Il Museo dello spazio urbano conserva la memoria dei movimenti che sono vissuti e, come nel caso di Occupy Wall Street, ancora vivono a New York City. La sua missione è promuovere e sostenere l’attivismo urbano per mezzo d’audio, video e fotografie. Sovente, i direttori del museo e i volontari alimentano discussioni invece di produrre documenti o volantini. Il MoRUS, amano dire, è un tipo di museo diverso: “è una forma proattiva di militanza. Non è un’istituzione.”
Il Novecento ci ha lasciato in eredità il concetto che le opere dell’ingegno umano, ormai trasformate in merce, trovano nei musei la loro tomba, il luogo dove, neutralizzati, sono destinati a pura contemplazione estetica che ne vanifica il messaggio, tanto più se di protesta o di rottura. Negli musei, della scienza, del cinema, del rock, eccetera, gli oggetti esposti, per il fatto di essere in quel luogo, si trasformano in altro di quello che erano, diventano ideologia. Che cosa si può sperare di trovare in un museo della tecnologia, se non il luogo di produzione di un valore simbolico che si vuole vendere, in questo caso l’idea che la tecnologia è una conquista dell’umanità? E in un museo della rivoluzione cubana o delle torture quale merce si va a comprare? E in un museo degli spazi occupati?