Appunti per il discorso di chiusura di Pinot Gallizio al I° Congresso Mondiale degli Artisti liberi

a Jorn — che determinò col suo movimento la scomparsa di Max Bill dall’Università Ulm
agli amici di Ulm l’augurio di ritrovare la giusta e vecchia via della Bauhaus. Saluti cordiali ai lettristi coraggiosi — che colla loro internazionale hanno gettato giustamente lo scompiglio nel mondo della
biacca essi furono il primo e decisivo solvente del dopoguerra.
Agli amici cecoslovacchi che nel travaglio di una nuova umanità sono corsi a noi pieni di entusiasmo.
agli amici dei gruppi Cobra olandesi e belgi-danesi
agli amici dei movimenti nucleari —
agli architetti
Agli amici del Laboratorio — della rivista Eristica
La fabbrica crea attorno a sé la città
Siamo una natura nella natura stiamo accelerando i tempi geologici quasi affrettando una nuova glaciazione che congeli e decanti le nostre idee-forma per un’umanità concreta che dovrebbe ritornare fra milioni di anni
Oppure noi ci difendiamo inconsci sterilizzando altri esseri distruggendo loro gli elementi di vita – noi siamo dei costruttori non dei distruttori — costruttori di cose inutili ed utili mai dannose — mai noiose
siamo l’antinoia — antimonotono
siamo la vita — la natura lo sghiribizzo
preistoria della era atomica (macchina)
l’umanità lotta geologica per sopravvivere
come nella preistoria i clan erano artisti tutti
l’arte usciva dalla polemica quotidiana ed era funzionale-magica
con le iscrizioni rupestri — Monte Bego santuario
noi ci stiamo evolvendo come alimenti
prima la carne poi la vegetazione
dal macro alimento ora ritorniamo al micro-alimento – e cerchiamo negli insetti i nostri schiavi pappa reale fanghiglia delle termiti
la cellulosa creerà l’uomo-cellulosa con attrezzature
Urbanistica — musica urbanistica
città amaca
il nostro congresso è come un’enorme e sconosciuta reazione chimica —
esperienze acidi idee basi
catalizzatori = lettristi
non conosciamo il prodotto finale
come d’altronde è dimostrato
l’esplosione a catena
non sappiamo e non conosciamo perché noi siamo senza superbia
questi enormi fermenti che provocheranno risultati sconosciuti ed apparentemente inutili
se ieri il mondo fu dei cristalli in trasformazione
lenta sta a noi non lasciarlo polimerizzare
oggi il mondo è colloidale
noi della prima gioventù bruciata
non abbiamo imparato niente dalle accademie solo la Bauhaus ci permise di dare un senso alla nostra vita – questa interpretazione sperimentale della nostra azione ci indirizzò a seguire fra le nostre attività antidogmatiche ricerche – quelle utili e quelle inutili nulla scartando se non le noiose
può darsi che si pianga
può darsi che si ride
queste sono le espressioni – umorali dell’uomo
nella gioia e nel dolore noi siamo gli uomini della gioia e del dolore
soltanto la noia non sa né piangereridere
l’uomo annoiato non sa né vivere — né morire.

(8 settembre 1956)

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Intorno al drago – La droga e il suo spettacolo sociale

Dagli archivi di Nautilus: QUI il PDF del libro (esaurito)

Questo libro tratta di “droga”, del Drago, in maniera abbastanza inusuale, almeno secondo i modelli diffusi. Vuol essere essenzialmente una tessera nel mosaico unitario della critica allo spettacolare integrato. In questo caso, scegliendo il “fenomeno droga” come osservatorio privilegiato.
Vi sono state molte esitazioni nel redigerlo sotto questa forma che è, volutamente, sufficientemente teorica ma anche frammentaria, sufficientemente analitica ma anche “di battaglia”, sufficientemente polemica ma anche descrittiva, talora narrativa o poetica.
In realtà, c’era chi stava pensando e lavorando ad un libro sul Drago-droga da tempo. Però in un’ottica diversa e sganciata dalle immediatezze e dalle contingenze, con la pretesa di dire qualcosa di definitorio, se non di definitivo, sul tema. Sul suo carattere di merce per eccellenza, su ciò che ha significato nella gestione degli Stati contemporanei, sui suoi risvolti politici, ideologici, morali e repressivi, sulla sua immensa forza produttiva (di nulla) e riproduttiva (di società spettacolare e di merci).
In tempi recentissimi, è parso più utile sospendere momentaneamente quella ricerca ambiziosa e intervenire immediatamente, coagulando e restringendo le ricerche già compiute, ma valorizzandone le “tesi” fondative. Un testo di battaglia, quindi, ma anche di documentazione, di testimonianza, di analisi. Perché la traccia teorica è rilevabile comunque, e comunque questo libro non vuole inserirsi nelle diatribe da pollaio fra gli ultra e muscolosi repressori e gli anemici difensori delle “libertà” sotto l’egida, comunque, dello Stato.
Però ai nostri lettori si deve dar ragione di questa scelta. Non vi è dubbio che il clima di guerra “a tutto campo” lanciato da Bush e, si parva licet, da Craxi in Italia ha giocato la sua parte; come l’ha giocata la drogata attenzione massmediatica al “problema”, di modo che non v’è speranza che passi giorno senza dover leggere o ascoltare opinioni in merito da parte dei soliti politici ed “esperti”. Sì, tutto ciò ha avuto il suo peso. Ma, onestamente, non sarebbe bastato per far (momentaneamente) interrompere un lavoro di tutt’altro spessore, né per far “scendere in campo” chi scrive, né, soprattutto, per farci intervenire in una “polemica” già di per sé squalificata, rompendo così un nostro gusto per le cose ben fatte, la giusta lentezza e, se si vuole, l’amata pigrizia.
Due sono stati gli elementi decisivi.
Il primo è che non si riusciva, e sino ad ora non si è riusciti, a leggere, ascoltare, vedere alcunché di veramente accettabile, di davvero interessante, di non vieto e ripetitivo nel “dibattito” in corso, fatte salve alcune rarissime ed encomiabili eccezioni. E si dice solo accettabile, non buono od ottimale. Si è giunti così alla conclusione a cui già altri in passato erano giunti: se volevamo leggere qualcosa degno di interesse, capace di stimoli, ebbene: dovevamo scriverlo noi. E’ stata una molla fondamentale.
Il secondo è stato quello della solidarietà reale con tutte le vittime dello spettacolo integrato, dello Stato muscoloso ed etico, noi per primi. Se molte vittime – i più – non hanno voce o non la sanno usare o non sanno di possederla, è compito di chi sa riconoscerla, di alzarla ancora di più. Non per un avanguardismo che presupponga una delega, entrambi ripugnanti, ma come prima e legittima autodifesa. Di sé e, se possibile, di tutti. Tra cui soprattutto i “drogati”, materia prima, forza lavoro, utensili e consumatori in questo enorme mercato che avviene, letteralmente, sulla loro pelle, che scorre, letteralmente, nel loro sangue.

Nel silenzio della schiavitù si ode solo il rumore delle catene, la voce dei delatori e le grida dei moderni aguzzini – per parafrasare Châteaubriand. Prendere parola in difesa della verità, così negletta e maltrattata in quest’epoca di menzogna organizzata e diffusa, ci è parso un compito irrinunciabile, ancorché faticoso. E questa è stata una molla ancor più decisiva.
Il libro non sarà quello che alcuni di noi avrebbero voluto che fosse, nei loro motivati sogni radicali, ma per lo meno sarà, è.
Con l’esplicito impegno a non considerare chiusa la faccenda con questo intervento.
Tutt’altro. Una prima base, nulla più. Di lancio, si spera.
Perché i conti con il Drago, i suoi inventori e i suoi amici siamo ben lontani dall’averli regolati.
Un’ultima avvertenza. In questi testi, non cerchino suggestioni per facili slogan coloro che in passato hanno cercato, e tuttora lo fanno (ridotti, ahiloro, a ciò a cui i fatti li hanno ridotti), di usare la “lotta alla droga” come una “campagna” meramente politica ed ideologica, cadendo nella trappola voluta dal sistema spettacolare e costruendo formule riprovevoli, (tipo “sbirri e tossici fuori dai
coglioni” accomunando carcerieri e carcerati), per accattivarsi le simpatie dell’opinione cosiddetta pubblica e certamente drogata. Questo libro non è solo contro Bush o contro Craxi, ma contro l’insieme della società dello spettacolo, del dominio delle merci, del potere dello Stato.
Ci prendano sul serio, invece, coloro che ci accuseranno di essere degli “irresponsabili
fautori del permissivismo, di tutte le libertà”. Forse lo siamo, ma soprattutto, radicalmente, di una libertà: quella di vivere a gusto.

Riccardo d’Este

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Raoul Vaneigem – Efficacia e nocività del militantismo

Il peso dell’oppressione è tutto ciò che rimane al sistema che ci governa. Ha per sé la sua forza d’inerzia. Ciò che gioca a nostro favore è la potenza di una vita in continua rinascita. Essa potrebbe fornire di che rompere la macchinazione del profitto se non si piegasse anch’essa sotto il peso di un passato scombinato dall’espulsione della libertà, appesantito dall’amarezza ricorrente delle delusioni. Ogni sacrificio è un colpo inferto alla vita. Paga il prezzo della sua esuberanza. Ogni volta che il militantismo rinuncia al vivente con il pretesto di garantirne la difesa, si militarizza, restaura il principio gerarchico, traveste in Potere l’organizzazione dell’esperienza vissuta. L’autodifesa del vivente è una reazione spontanea manifestata da individui e comunità confrontate all’intrusione d’imprese devastatrici. Essa attiva delle reti immunitarie simili a quelle che il nostro organismo sollecita all’avvicinarsi di una malattia o di uno squilibrio. La coscienza umana risveglia il corpo a una realtà che è contemporaneamente personale e sociale. Fa delle collettività locali degli spazi dove il lasciare maturare la risposta alle aggressioni dà il tempo di sperimentare una lotta demilitarizzata, una sovversione la cui inventiva respinge l’aggressività e conduce, attraverso le molestie, la guerriglia di una vita che non uccide.

La radicalità elimina il radicalismo.

Anche nelle condizioni di estrema violenza che regnavano in Spagna nel 1936, Durruti rifiutava di dare priorità a una concezione militare del conflitto. Preferiva affidarsi a colonne di volontari armati che stabilissero ovunque l’autorganizzazione di città e villaggi, aprendo vasti e nuovi orizzonti oltre il conservatorismo e il progressismo. Assassinando Durruti, i partigiani della militarizzazione, sostenuta dal partito comunista, hanno offerto al franchismo una via d’accesso insperata. Con la scusa dell’attivismo, i militanti regrediscono a vecchie forme di lotta, del tutto inadeguate – come l’opposizione frontale alle milizie dell’ordine mercantile, come l’appello a una convergenza in cui l’anticapitalismo militante partorisce un nuovo partito. Abbiamo dimenticato la sollevazione degli Indignati diventati i pantofolai di un’organizzazione politica battezzata Podemos? La lotta della vita per la vita esclude il sacrificio. Non vogliamo né un destino da guerrieri né una vocazione da martiri.

Le peggiori dittature imposte al proletariato lo sono state in nome della sua emancipazione. Chi ha interesse a farlo dimenticare? Il gauchismo, la cui mancanza d’immaginazione sguazza nel pantano in cui i burocrati politici e sindacali hanno trascinato il movimento operaio! Schiacciando l’autogestione che muoveva i primi passi nel Movimento delle Occupazioni del maggio 68, l’influenza della sinistra riformista e burocraticamente rivoluzionaria ha gettato il proletariato nello sgomento. L’ha riportato, senza complimenti, nell’ovile delle rivendicazioni salariali e l’ha consegnato all’orco consumista, che ne ha fatto un sol boccone.

Abbiamo dimenticato che l’autogestione che stava timidamente prendendo forma nelle occupazioni delle fabbriche nel maggio 68 è stata aspramente combattuta dal sedicente partito comunista. L’insurrezione di maggio era nata da un rifiuto viscerale della “società del benessere”. Denunciava l’impostura di una felicità ridotta al suo spettacolo. L’ultima vittoria del Partito Comunista prima della sua scomparsa fu di porre fine al movimento puntando sul consumismo che avrebbe completato la demolizione della coscienza proletaria. L’officina operante sotto l’etichetta comunista, è scomparsa dallo schermo elettorale ma ha diffuso i suoi aborti ovunque il malcontento provocava disordini. Un gauchismo retro bolscevico si articola in comitati che strutturano le zone di autodifesa presidiandole con il loro autoritarismo. Questo gauchismo non scomparirà sotto il peso della sua stupidità militante, non ultima quella di stimare che, per garantire la felicità del popolo, sia sufficiente sostituire un potere con un altro. Marcirà per non aver dato all’umano una priorità assoluta (ci si accorgerà presto che senza di essa la lotta contro il populismo di stampo fascista è solo una scemenza).

Il fascismo è soprattutto pericoloso laddove gli individui non prendono coscienza né della mediocrità della loro esistenza quotidiana, né della possibilità di emanciparsene. Laddove manca l’intelligenza delle nuove condizioni, le vecchie riappaiono, favorendo la recrudescenza della peste emozionale. Se non opponiamo le risorse dell’aiuto reciproco e dell’inventiva individuale alla disumanizzazione e alla progressiva sterilizzazione del tessuto sociale, un conflitto assurdo e senza sbocco dissiperà la nostra energia vitale. Ci dissuaderà dal restaurare la gioia di vivere e, con una spinta, ci lascerà cascare nelle macabre celebrazioni dell’autodistruzione. L’antifascismo militante, anch’esso contaminato dalla peste emozionale, è solo un’impostura in più, esposta nel negozio delle rivoluzioni tradite.

 

Tratto da

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UN BIGLIETTO SENZA RITORNO E SENZA DESTINAZIONE – In ricordo di Gianni Milano

Il 5 febbraio è partito per il suo ultimo viaggio il nostro amico e compagno Gianni Milano. Anche se in questi ultimi tempi era costretto dalla malattia in carrozzella, non ha mai smesso di elargire al mondo il suo sorriso gentile che irradiava calma e serenità.

Nato nel 1938 in un paesino della provincia di Asti ma presto traferitosi con la famiglia in Borgo San Paolo a Torino, non è stato soltanto uno dei più importanti poeti beat italiani: anarchico non-violento, buddhista zen con lo pseudonimo Shantiananda, psiconauta liserigico, “maestro capellone” di scuola elementare e poi delle magistrali, pedagogo seguace di Célestin Freinet e molto altro ancora… Per la libertà assoluta del suo spirito ha subito la repressione anche giudiziaria e la sospensione dall’insegnamento.

Gianni ha lasciato tracce e ricordi del suo passaggio terrestre sia sulle pagine di molte riviste underground degli anni Sessanta e Settanta, sia nei suoi allievi e nei partecipanti al movimento No Tav che ha frequentato fin dai primi anni.

Con l’aiuto di Chiara Maraghini Garrone e assieme a Nautilus, Gianni ci ha regalato il racconto della sua vita nel libro del 2018 NON SOLO BEAT. Maestro poeta anarchico.

Vogliamo ricordarlo con alcune tra le sue innumerevoli produzioni letterarie:

Innanzitutto, alleghiamo uno dei testi più noti, la “poesia-diluvio” Uomo nudo, scritta nel 1966 ma pubblicata nel 1975 a Torino da Tampax Editrice, con la copertina di Matteo Guarnaccia. Trecento «righe mozzafiato» che concentrano «tutta la bellezza rabbiosa & creativa di una generazione che stava iniziando a provare l’ebrezza di cavalcare & domare la scimmia sacra dal mantello multicoloreo».

Di seguito altri testi (cliccare sul titolo)

Om Mani Padme Hum (uno dei principali mantra del buddhismo mahāyāna, che significa “O Gioiello del Loto!”), dedicato “al mio guru Allen Ginsberg” e pubblicato su Pianeta fresco n° 2-3, equinozio invernale 1968;

I tempi alti, tratto da HIP – Stampa underground n° 2, supplemento a CIAO 2001, marzo 1970;

La non violenza e l’anarchia, pubblicato su Paria n° 13, febbraio 1974;

Introduzione alla rivista di poesia Satori: Rituali di liberazione, edita da La Stanza Editrice (senza data, 1974?), dall’intervento di Gianni al congresso “Oltre l’Underground” tenutosi a Milano nel settembre 1973.

Dichiarazione, poesia-manifesto presente nella stessa pubblicazione.

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La disoccupazione: non un problema, forse una soluzione

Sappiamo tutti che la disoccupazione non sarà mai eliminata. La ditta va male? Si licenzia. La ditta va bene? Si investe nell’automazione e si licenziano le persone. Una volta i lavoratori servivano perché c’era il lavoro, oggi il lavoro serve perché ci sono i lavoratori, e nessuno sa cosa farsene, perché le macchine lavorano più velocemente, meglio e a costo inferiore. L’automazione è sempre stata un sogno dell’umanità. Il Disoccupato Felice Aristotele, 2300 anni fa diceva: «Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione dietro un comando o prevedendolo in anticipo [e dunque] le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi. Oggi il sogno si è avverato, ma in un incubo per tutti, perché le relazioni sociali non si sono evolute così velocemente come la tecnica. E questo processo è irreversibile: mai più i lavoratori sostituiranno robot e automi. Inoltre, laddove il lavoro “umano” è ancora essenziale, viene de localizzato in paesi a basso salario, o vengono importati immigrati sottopagati per svolgerlo, in una spirale discendente che solo il ripristino della schiavitù potrebbe fermare. Questo lo sanno tutti, ma nessuno può dirlo. Ufficialmente si tratta ancora di “lotta contro la disoccupazione”, di fatto contro i disoccupati. Le statistiche vengono manipolate, i disoccupati vengono “occupati” nel senso militare del termine, si moltiplicano controlli molesti. E poiché, nonostante tutto, tali misure non possono bastare, si aggiunge un tocco di moralità, affermando che i disoccupati sarebbero responsabili della loro sorte, richiedendo di dare prova della loro “ricerca attiva di un lavoro”. Il tutto per forzare la realtà a rientrare negli schemi della propaganda. Il Disoccupato Felice sta semplicemente dicendo ad alta voce ciò che tutti già sanno. “Disoccupazione” è una parolaccia, un’idea negativa, l’altra faccia della medaglia del lavoro. Un disoccupato è semplicemente un lavoratore senza lavoro. Il che non dice nulla della persona come poeta, come vagabondo, come ricercatore, come colui che respira. In pubblico si può parlare solo della carenza di lavoro. Soltanto in privato, lontano da giornalisti, sociologi e altri fiutatori di merda,ci permettiamo di dire quello che abbiamo nel cuore: «Mi hanno appena licenziato, fantastico! Finalmente potrò fare festa tutte le sere, mangiare qualcosa che non sia cotto al microonde, coccolarmi senza limiti.» Alla domanda se dobbiamo abolire questa separazione tra virtù private e vizi pubblici ci viene detto che non è il momento, che si trasformerebbe in una provocazione, che farebbe il gioco degli zoticoni. Vent’anni fa i lavoratori potevano ancora mettere in discussione il loro lavoro, e il lavoro. Oggi devono dire che sono felici per il solo fatto di non essere disoccupati, e i disoccupati devono dire che sono infelici per il solo fatto di non avere un lavoro. Il Disoccupato Felice se la ride di un simile ricatto.

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Aggiornamento del sito “Archivio della critica radicale”

In seguito alla pubblicazione dei due tomi del Volume 2 de “La critica radicale in Italia – Organizzazione Consiliare / Comontismo 1971-1974”, abbiamo aggiornato il sito https://www.criticaradicale.nautilus-autoproduzioni.org/, che riproduce tutti i documenti presenti nel 1° e 2° Volume, e molto altro.

In attesa di integrarlo con il materiale inerente il Volume 3 (che coprirà il periodo 1974-1981 circa), vi invitiamo a consultarlo, segnalarci eventuali errori o malfunzionamenti (già avvenuti in passato), oppure inviarci materiali che risultino assenti dai nostri elenchi.

Qui di seguito un volantino del 14 aprile 1971, firmato “Gli Hooligani”, distribuito alle entrate della Fiera di Milano il giorno dell’inaugurazione. Alcuni compagni che aiutavano a dare i volantini vennero fermati e denunciati a piede libero per istigazione a delinquere. I fumetti sono di Enzo Bridarolli, che non faceva parte del gruppo.

CLICCA QUI per visualizzare il volantino

CONTRO IL POTERE DELLA MERCE

TUTTO A SACCO

La Fiera costituisce – nel ciclico ritornare del tempo capitalista – il momento in cui la società mercantile, che parla ovunque di sé sotto falso nome (dalla religione allo sport, dalla politica all’arte), parla di sé in prima persona e, conseguentemente alla propria logica, vende la contemplazione di se stessa. La Fiera è dunque il punto di coagulo di tutte le alienazioni che dominano giorno per giorno la vita di ognuno; essa è insieme lo spettacolo della merce (in quanto esposizione di prodotti) e la mercificazione dello spettacolo (poiché paradossalmente si paga per contemplare il prodotto del proprio lavoro).
Aldilà del valore reale degli oggetti esposti e cioè quel valore che essi acquistano soltanto nell’uso, esiste il potere che essi detengono sull’uomo, nel momento in cui, tramite la mediazione del valore di scambio, la società capitalista se ne serve per sé sotto forma di merci. Tempio del valore di scambio (poiché il valore delle merci risiede precisamente nel loro essere oggetti di compravendita, fra un acquirente che è il produttore stesso e un venditore che va assumendo sempre più la forma astratta di “centro di distribuzione economica” che dà a ciascuno secondo i bisogni del capitale), la Fiera è la negazione del valore d’uso e, quindi, dell’uso reale della vita. Mediata dalle merci, la vita vissuta è stata degradata a contemplazione, a spettacolo di tutti per tutti. Ora, mentre l’estensione della abbondanza mercantile non significa altro che l’impoverimento generale di tutti, la rinuncia a vivere la propria vita, essa è insieme la garanzia per la realizzazione di un’effettiva abbondanza nel momento in cui gli uomini si impossessino dei loro prodotti e li usino. L’abbattimento della società spettacolare-mercantile e l’abolizione del lavoro salariato sono il punto obbligato per la realizzazione di una società in cui la creatività di ognuno assicuri la ricchezza sociale, in cui ciascuno sia padrone collettivamente dei prodotti collettivi, e possa riscoprire il senso dell’amore e dell’amicizia. Il rifiuto del valore di scambio è dunque il presupposto per il rifiuto della realtà mercantile che ne costituisce il modello, la motivazione e il fine ultimo. Si tratta di impossessarsi di tutto ciò che la pubblicità offre astrattamente e di riscoprire, con il furto e il dono, l’uso reale che smentisce la razionalità oppressiva della merce. Gli uomini, distruggendo la merce, impongono il potere della propria soggettività su tutti gli oggetti che li circondano.

 

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12 – 12 – 1969, Gli anarchici non dimenticano

La forza della disperazione compensò la nostra esiguità numerica, la nostra mancanza di mezzi. Da oggetto della repressione ci trasformammo in promotori della campagna di agitazione e di controinformazione. Il disegno che con le bombe del 12 dicembre e con l’assassinio di Giuseppe Pinelli voleva liquidare la sinistra rivoluzionaria e annullare le conquiste operaie del famoso autunno caldo non giunse a compimento. Noi anarchici, scelti come capro espiatorio per giustificare la repressione eravamo riusciti a inceppare (anche se solo parzialmente) il meccanismo repressivo del potere. Subito ci ponemmo due obiettivi: da un lato dimostrare l’innocenza degli anarchici e ottenere la scarcerazione dei compagni arrestati, dall’altro ritorcere la manovra provocatoria/repressiva contro i provocatori/repressori, capovolgere la situazione e mettere sotto accusa gli accusatori, contrattaccando lo stato.
Il più clamoroso successo di quella campagna fu la scarcerazione di Valpreda e degli altri anarchici. Un successo che faceva seguito ad una serie continua di piccoli successi, registrabili nel diverso atteggiamento che la cosiddetta “opinione pubblica” aveva dovuto prendere nei confronti degli anarchici e della strage. Certo la liberazione degli anarchici fu decisa dal governo sotto la pressione di questa opinione democratica, ma fu una vittoria nostra, perché noi abbiamo smosso i “democratici” dal loro abituale torpore, noi li abbiamo costretti a scandalizzarsi ed indignarsi. Fu una vittoria nostra perché, nonostante tutto le strutture repressive dello stato “democratico” uscirono malconce dalla faccenda nell’immagine pubblica, anziché ridipinte a nuovo di democraticità.
Tutto questo accadeva però sette anni fa. Da allora molte cose sono cambiate e non certo in meglio.
In quegli anni abbiamo, con tutta probabilità, toccato il livello più alto di discredito delle istituzioni. A quel punto l’azione antistatale doveva fornirsi di altri strumenti, non bastava continuare l’opera intrapresa, doveva esserci un salto qualitativo che sapesse collegare quella campagna con le altre forme di intervento, proprio nel momento in cui l’agitazione tendeva a spogliarsi dei suoi contenuti innocentisti per accentuare il suo carattere “politico”. Era un collegamento inevitabile data la sua natura di lotta allo stato, ma che doveva avere una coerenza organica tra temi diversi di un’unica tematica rivoluzionaria, un collegamento che nasce dal legame altrettanto organico che vi è tra sfruttamento economico ed oppressione politica. Tutto questo non avvenne. Il collegamento risultò essere una meccanica sovrapposizione di slogans propagandistici che artificialmente cercavano di ricondurre ad un unico disegno repressivo aspetti e momenti tra loro troppo differenziati.
Il salto qualitativo non ci fu e rivisitando criticamente quegli anni possiamo ritenere che anche da questa carenza prende l’avvio la crisi della sinistra rivoluzionaria. Per di più le istituzioni, lentamente ma progressivamente, recuperarono il terreno perduto. Da un lato, con astuzia bizantina, dilatando i tempi processuali, rinviando, attuando furbeschi ammiccamenti, dall’altro dando l’impressione di sapersi rinnovare, di espellere gli “elementi inquinanti”, ammettendo verità parziali per poter dire colossali falsi.
In questo modo lo stato è riuscito a stemperare la carica antiistituzionale che si era creata, mentre il movimento rivoluzionario perdeva la sua capacità propositiva e ripeteva quasi meccanicamente i temi degli anni precedenti. Il processo di recupero è arrivato al punto che la strage del 12 dicembre viene definita “strage di stato” anche dai mass-media, ma tutto questo (non avendo più quelle connotazioni antiistituzionali) non solo non produce tensione rivoluzionaria, ma paradossalmente assume una funzione stabilizzante per il sistema.
Dieci anni dopo il bilancio per il movimento rivoluzionario è purtroppo passivo, anche se all’attivo possiamo segnare una diffusa consapevolezza della criminalità del potere. Purtroppo questa consapevolezza oggi rimane allo stato passivo: la gente sa, ma ha perduto la volontà di agire. Si è generalizzato (pur con poche, anche se significative eccezioni) un senso di sfiducia nella possibilità rivoluzionaria. Quale senso ha allora per noi parlare ancora della strage di stato? Qualcuno potrebbe obiettare che se non altro si contrasterà la versione di regime, si farà udire una voce diversa nella marea di voci che reciteranno una versione addomesticata. Vero, verissimo, ma troppo poco.
Purtroppo non è obsoleta la tematica, ma è il movimento che ha perduto l’iniziativa e vive ripiegato su se stesso. Ma forse è proprio per questa ragione che noi dobbiamo andare controcorrente, non accettando la passività e la rinuncia. Allora con più impegno dobbiamo far sì che questo “anniversario” non passi sotto silenzio, perché la potenzialità sovversiva dimostrata da questo “caso” è norme. Esso è riuscito ad implicare direttamente od indirettamente quasi tutte le strutture statali a tutti i livelli, è riuscito a dimostrare praticamente quanto “ideologica” sia l’indipendenza della magistratura, quanto disprezzo criminale per la verità e la vita umana possa esprimere la giustizia di stato, è riuscito ad approfondire il solco di credibilità tra le istituzioni statali e i “sudditi”. Le bombe del 12 dicembre e l’assassinio del compagno Pinelli non sono un episodio di ingiustizia, ma un caso esemplare dell’ingiustizia generalizzata, sistematica e per questo nella coscienza popolare sono divenuti “la strage di stato” e “l’assassinio di stato”. (Dieci anni dopo di Luciano Lanza –Rivista Anarchica anno 9, n°9 dicembre 1979)

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John Lee “Sonny Boy” Williamson

Come per i blues singers meno classici, anche molti urban blues degli Anni Trenta appaiono oggi parecchio datati, e infatti quando il gusto popolare progredì questi blues restarono a becco asciutto senza che nessuno si sforzasse gran che di recuperarli. I migliori sono ancora pieni di espressività, e a modo loro divertenti, ma a differenza del vecchio country blues e dell’ urban blues degli anni seguenti non hanno creato intorno a sé un grande interesse, non hanno trovato dei sostenitori. Quando Big Bill Broonzy ha colpito l’immaginazione degli appassionati di folk music negli Anni Cinquanta, è stato apprezzato nel suo ruolo di country bluesman che si serviva semplicemente della voce e della chitarra: il clarinetto, la tromba, il contrabbasso, il piano e la batteria erano scomparsi. Un’influenza più duratura l’esercitò John Lee “Sonny Boy” Williamson, conosciuto anche come Sonny Boy No. 1, per distinguerlo dall’altro Sonny Boy (Rice Miller) Williamson che tra l’altro ha sempre dichiarato di essere lui il primo. Sonny Boy fece da ponte prima tra il country blues meridionale e il blues di Chicago degli Anni Trenta, e in seguito con il blues moderno di Chicago. Nato a Jackson, nel Tennessee, nel 1914, da ragazzino suonò l’armonica in un circuito di professionisti, assieme a Sleepy John Estes, Yank Rachel e Homesick James. Arrivò a Chicago a metà degli Anni Trenta e quando cominciò a incidere nel 1937 aveva ancora un forte sapore meridionale; con quel canto sommesso e mormorato e quell’armonica lamentosa sembrava proprio un ragazzo di campagna. Suonava usando tutte le raffinatezze ritmiche del miglior country blues, con le note dell’armonica legate e strascicate, e la voce e lo strumento erano quasi una cosa sola. Spesso lavorò con chitarristi come Robert Lee McCoy e Big Joe Williams e mandolinisti come Yank Rachel o Willie Watcher, che contribuivano a rinforzare l’atmosfera rurale. Ma a poco a poco lo stile campagnolo si evolveva, come se il country boy stesse imparando i modi urbani. Sonny Boy doveva rivoluzionare il blues contemporaneo facendo dell’armonica uno strumento di primo piano. Le “harps” avevano sempre avuto un loro ruolo nel blues, specialmente nelle jug bands, ma Sonny Boy era riconosciuto come solista, completamente legato al suono del suo strumento. La rapida interazione tra i brevi riffs strumentali e la voce, l’energia del suo soffio e i suoi manierismi vocali erano molto ammirati e lo portarono a diventare una personalità musicale di rilievo a Chicago: diventò una figura dominante, lavorò spesso con Big Bill sia su disco sia nei locali, aggiornando il suo sound con l’aggiunta di un piano, di un contrabbasso e di una batteria. La sua voce riceveva una espressività particolare da un piccolo difetto di pronuncia che lui superava con un borbottio rapido, ammucchiando le sillabe fino a confonderle con la linea ritmica in un flusso unico, e cantando dentro l’armonica. Il suo modo di conciliare l’intensità campagnola e un accompagnamento musicale moderno mostrava i primi segni dei futuri sviluppi del blues. Veloci e pieni di ritmo o lenti e intensi, leggeri e spiritosi o pieni di tristezza contenuta, tutti i dischi di Sonny Boy Williamson riflettevano la sua personalità, quella di un forte bevitore (come molti cantanti) che poteva a volte mettersi nei guai, ma che aveva la stima dei suoi contemporanei per il suo buon carattere e per la sua generosità. Come ricordava Billy Boy Arnold: “Era una delle persone migliori che io abbia conosciuto… lavorava per dare da mangiare e da bere agli altri. Quando arrivava il giorno della paga non aveva niente, non c’era giorno di paga per lui. Era proprio buono, pagava da bere e da mangiare, era generoso con quelli che gli stavano vicino, lavorava solo per loro”. Lui e sua moglie Lacey Belle, di cui parlava spesso nelle canzoni, erano noti per la loro cordialità e per la loro ospitalità, e Sonny Boy con pazienza infinita dava dimostrazioni di tecnica sull’armonica ai giovani che lo venivano a trovare, tra i quali lo stesso Billy Boy. La sua enorme popolarità, la sua influenza nella formazione del blues contemporaneo a Chicago, resero ancora più tragica la sua fine violenta, quando nel giugno del 1948 fu colpito alla testa. Lacey Belle lo trovò steso sulla soglia che rantolava “Signore, abbi pietà…” Poi entrò in coma e mori.

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LA RIVOLUZIONE

La rivoluzione è qualcosa che principia nel tempo presente, nelle scelte odierne, sia positive, sia negative; nel modo stesso di agire, di operare, di riprodursi. La sua preparazione verte sia sulla costruzione di percorsi di affrancamento del singolo, sia sulla costruzione di spazi di discussione e decisione collettiva. In questo senso non esiste “frattempo”, dal momento che il tempo è totalmente impegnato nella costruzione di tali processi, la cui efficacia naturalmente potrà incontrare una piena verifica solo in presenza di uno scatenamento, possibile in ogni momento, ma mai garantito da qualche congiunzione socioastrale. Appare verissimo ciò che affermava tempo fa Scalzone: che, se mai, rispetto a cinquant’anni fa, i motivi per fare una rivoluzione sono divenuti più profondi, e numerosi, piuttosto che il contrario. Non si capisce se si abbia timore di desiderare troppo, o se si sia in fondo meno scontenti dell’esistente di quanto si va dicendo – e che nel mugugno libertario non si trovi già il necessario appagamento per non omologarsi al cento per cento ma solo al novantanove virgola nove. Sono un refrattario, non vedi come mi lagno? Non senti come strepito? Ma poi non reggono la paura dell’evento palingenetico che rischierebbe di creare l’homo novus

Il fine di una rivoluzione è evadere dalla società della necessità, e ancor di più dalla necessità della società, necessità che per millenni non erano mai comparse, ma che adesso pretenderebbero di essere considerate eterne. La nostra è una società fondata sulla proprietà e sullo scambio: perciò conviene farsi pagare e chiudere la porta a chiave. Se non lo fai, se dovessi provare a sottrarti individualmente, otterresti unicamente di farti vaso di coccio fra vasi di ferro e null’altro. Infatti, per ottenere l’adesione dei sudditi il capitalismo deve usare meno violenza di qualsiasi socialismo, nel quale evidentemente le buone intenzioni di chi sta sopra si convertono in cattive condizioni di chi sta sotto. Per questo motivo occorre la rivoluzione, che sgombererebbe lo spazio per una diversa efficienza, intorno alla quale stabilire nuove consuetudini, in sintonia con i nuovi equilibri. (Paolo Ranieri, tratto da: One solution revolution, La Critica Radicale in Italia, Comontismo 1971 – 1974,  Nautilus, 2023)

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MOLLA TUTTO – Annie LeBrun

«Io vivo nel terrore di non essere incompreso». (Oscar Wilde)
«je voudrais te parler cristal fèlé hurlant comme un chien dans une nuit de draps battants». (Benjamin Péret)

A sedici anni avevo deciso che la mia vita non sarebbe stata quella che altri avrebbero voluto che fosse. Questa determinazione e la fortuna, forse, mi hanno permesso di evitare la maggior parte degli inconvenienti tipici della condizione femminile. Se mi piace che le donne manifestino sempre più il desiderio di rifiutare i modelli che sono stati loro proposti fino ad ora, non mi dispiace che non esitino a riconoscersi nella negazione formale di quei vecchi modelli quando questo non sia un semplice adeguarsi alla moda del momento. Mentre oggi ci si compiace di ripetere un po’ dovunque che non si nasce donna, ma che lo si diventa, sembra che non ci si preoccupi affatto di non diventarlo. Proprio il contrario. Mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare la differenza illusoria che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, le neo-femministe degli ultimi anni si affannano a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio del quale le donne sarebbero state private. E questo a tal punto, che la
rivolta davanti ad una impossibilita di essere, tende a scomparire sotto i colpi della stupidità militante che instaura un obbligo di essere. È necessario ricordare: in materia di rivolta nessuno ha bisogno di antenati, ma anche aggiungere: e soprattutto non si ha bisogno di consigliere tecniche preoccupate di scambiare le ricette dell’insubordinazione femminile dall’a alla z.
Davanti all’ampiezza dei misfatti più o meno legalmente perpetrati, non solamente nei confronti delle donne, ma anche nei confronti di tutti i refrattari alla codificazione sociale dei ruoli sessuali (e fra loro, gli omosessuali, in particolare) io considero questa rivolta troppo necessaria, da non voler turbare il concerto di voci di quelli o di quelle che pretendono di strappare questa rivolta da quell’oscurità individuale dove essa prende corpo violentemente ed attinge le sue capacità di sconvolgimento. Insisto, quella rivolta è sempre un attentato alla morale della collettività, quali che siano le basi che la fondano. Allora, come non vedere che ogni donna si trova oggi virtualmente espropriata di questa riconquista individuale quando non si accorge che ciascuno dei suoi capricci rischia di essere deviato per servire alla costruzione di un’ideologia tanto contraddittoria nelle sue proposizioni quanto totalitaria nelle sue intenzioni?
Eccola più o meno tacitamente incoraggiata da ogni parte ad esporre le rivendicazioni del suo sesso dopo che la cosiddetta causa delle donne esibisce un’immagine della rivolta imprigionata nelle reti della normalizzazione negativa che la nostra epoca è così bene abituata a tessere fin negli angoli più nascosti del nostro orizzonte sensibile.
Avendo sempre disprezzato i padroni che hanno dei comportamenti da schiavi come gli schiavi impazienti di scivolare nella pelle dei padroni, confesso che gli scontri abituali fra gli uomini e le donne non mi hanno mai preoccupato molto. La mia simpatia va a quelli che disertano i ruoli che la società aveva loro preparato. Questi non hanno mai la pretesa di costruire un mondo nuovo, ed è in questo che risiede la loro fondamentale onestà: non faranno mai il bene degli altri loro malgrado, si accontentano di essere la eccezione che nega la regola, con una determinazione che, spesso, è capace di stravolgere l’ordine delle cose. Oscar Wilde mi interessa più di una qualsiasi borghese che ha accettato di sposarsi e di fare dei bambini e che, un bel giorno, si sente repressa nella sua molto ipotetica creatività. È così.
Non farò qui la lista delle mie preferenze a questo proposito: sarebbe inutile e opprimente per la causa delle donne. Che io abbia fatto di tutto per dare il minor spazio possibile alle conseguenze psichiche, sociali, intellettuali di un destino biologico non riguarda che me; non permetterò che si tenti di colpevolizzarmi in nome di tutte le donne per riportarmi nei limiti di questo stesso destino. Questa promiscuità improvvisamente ineluttabile nella ricerca dell’identità di ognuna, minaccia le donne nel più profondo della loro libertà quando l’affermazione di una differenza generica si fa a spese di tutte le differenze specifiche.
Consideriamo con calma quello che, uomini e donne, siamo stati costretti a subire indifferentemente in nome di Dio, della Natura, dell’Uomo, della Storia. Eppure sembra che non sia sufficiente, visto che tutto ricomincia oggi all’insegna della Donna. Gli specialisti in materia di coercizione non si sbagliano moltiplicando con zelo improvviso gli organismi nazionali e internazionali consacrati alla condizione femminile senza che per questo la legislazione cambi realmente. D’altra parte non saprebbero allontanarsi molto da questa strada da quando Aragon, canore della repressione, ha annunciato che «la donna è l’avvenire dell’uomo».
Ho dei grossi dubbi su questo avvenire quando può capitargli di prendere le sembianze di Elsa Triolet (La compagna di Aragon da più di mezzo secolo. Uno dei nodi non minori della polemica fra Aragon e il movimento surrealista).
In quel che si dice o si scrive in nome delle donne vedo ritornare – col pretesto della liberazione – a tutto ciò a cui la donna è tradizionalmente mutilata: ci si dichiara contro la famiglia ma si esalta il trionfalismo della maternità che la fonda, ci si attacca alla nozione di donna-oggetto, ma si lavora alla ricostruzione promozionale del mistero femminile; infine se i rapporti fra gli uomini e le donne sono denunciati come rapporti di forza è per diventare il punto di partenza di una teorizzazione delle lotte coniugali più opprimenti. Così, tante nuove ragioni di felicitarmi ancora per aver lasciato definitivamente il vicolo cieco della sensibilità cosiddetta femminile. Di più, niente saprebbe farmi ritornare sulla mia avversione naturale per le maggioranze soprattutto quando queste nei paesi occidentali si compongono principalmente di martiri a mezzo servizio.
Più il baccano di questa epoca si fa assordante, più ho la certezza che la mia vita sia altrove, scivolando lungo il mio amore le cui figure seppelliscono il tempo che passa, ti guardo. Noi ci incontreremo sul ponte delle trasparenze prima di tuffarci nella notte delle nostre differenze, nuoteremo vicini o lontani, distratti o tesi, risalendo la corrente del nostro enigma per ritrovarci nell’abbraccio incerto delle nostre ombre fuggenti. Noi non siamo i soli ad esserci levati un giorno dal più profondo delle nostre solitudini per andare incontro ai nostri fantasmi senza preoccuparci che siano maschi o femmine. E se esiste solo qualche uomo che non fatica a riconoscersi in questa confessione di Picabia «le donne sono depositarie della mia libertà», è forse perché ne va della conquista di un «meraviglioso» che le donne e gli uomini debbono ancora scoprire. È per questo che mi rifiuto di essere arruolata nell’armata delle donne in lotta, semplicemente per un caso biologico. Il mio forsennato individualismo si adatta perfettamente a tutto ciò che opera per l’intercambiabilità degli esseri.
Questo libro è un appello alla diserzione.

(Introduzione di Annie LeBrun per Làchez tout (Disertate), 1977, Le Saggitaire, Paris)

 

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