La disoccupazione: non un problema, forse una soluzione

Sappiamo tutti che la disoccupazione non sarà mai eliminata. La ditta va male? Si licenzia. La ditta va bene? Si investe nell’automazione e si licenziano le persone. Una volta i lavoratori servivano perché c’era il lavoro, oggi il lavoro serve perché ci sono i lavoratori, e nessuno sa cosa farsene, perché le macchine lavorano più velocemente, meglio e a costo inferiore. L’automazione è sempre stata un sogno dell’umanità. Il Disoccupato Felice Aristotele, 2300 anni fa diceva: «Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione dietro un comando o prevedendolo in anticipo [e dunque] le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi. Oggi il sogno si è avverato, ma in un incubo per tutti, perché le relazioni sociali non si sono evolute così velocemente come la tecnica. E questo processo è irreversibile: mai più i lavoratori sostituiranno robot e automi. Inoltre, laddove il lavoro “umano” è ancora essenziale, viene de localizzato in paesi a basso salario, o vengono importati immigrati sottopagati per svolgerlo, in una spirale discendente che solo il ripristino della schiavitù potrebbe fermare. Questo lo sanno tutti, ma nessuno può dirlo. Ufficialmente si tratta ancora di “lotta contro la disoccupazione”, di fatto contro i disoccupati. Le statistiche vengono manipolate, i disoccupati vengono “occupati” nel senso militare del termine, si moltiplicano controlli molesti. E poiché, nonostante tutto, tali misure non possono bastare, si aggiunge un tocco di moralità, affermando che i disoccupati sarebbero responsabili della loro sorte, richiedendo di dare prova della loro “ricerca attiva di un lavoro”. Il tutto per forzare la realtà a rientrare negli schemi della propaganda. Il Disoccupato Felice sta semplicemente dicendo ad alta voce ciò che tutti già sanno. “Disoccupazione” è una parolaccia, un’idea negativa, l’altra faccia della medaglia del lavoro. Un disoccupato è semplicemente un lavoratore senza lavoro. Il che non dice nulla della persona come poeta, come vagabondo, come ricercatore, come colui che respira. In pubblico si può parlare solo della carenza di lavoro. Soltanto in privato, lontano da giornalisti, sociologi e altri fiutatori di merda,ci permettiamo di dire quello che abbiamo nel cuore: «Mi hanno appena licenziato, fantastico! Finalmente potrò fare festa tutte le sere, mangiare qualcosa che non sia cotto al microonde, coccolarmi senza limiti.» Alla domanda se dobbiamo abolire questa separazione tra virtù private e vizi pubblici ci viene detto che non è il momento, che si trasformerebbe in una provocazione, che farebbe il gioco degli zoticoni. Vent’anni fa i lavoratori potevano ancora mettere in discussione il loro lavoro, e il lavoro. Oggi devono dire che sono felici per il solo fatto di non essere disoccupati, e i disoccupati devono dire che sono infelici per il solo fatto di non avere un lavoro. Il Disoccupato Felice se la ride di un simile ricatto.

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Aggiornamento del sito “Archivio della critica radicale”

In seguito alla pubblicazione dei due tomi del Volume 2 de “La critica radicale in Italia – Organizzazione Consiliare / Comontismo 1971-1974”, abbiamo aggiornato il sito https://www.criticaradicale.nautilus-autoproduzioni.org/, che riproduce tutti i documenti presenti nel 1° e 2° Volume, e molto altro.

In attesa di integrarlo con il materiale inerente il Volume 3 (che coprirà il periodo 1974-1981 circa), vi invitiamo a consultarlo, segnalarci eventuali errori o malfunzionamenti (già avvenuti in passato), oppure inviarci materiali che risultino assenti dai nostri elenchi.

Qui di seguito un volantino del 14 aprile 1971, firmato “Gli Hooligani”, distribuito alle entrate della Fiera di Milano il giorno dell’inaugurazione. Alcuni compagni che aiutavano a dare i volantini vennero fermati e denunciati a piede libero per istigazione a delinquere. I fumetti sono di Enzo Bridarolli, che non faceva parte del gruppo.

CLICCA QUI per visualizzare il volantino

CONTRO IL POTERE DELLA MERCE

TUTTO A SACCO

La Fiera costituisce – nel ciclico ritornare del tempo capitalista – il momento in cui la società mercantile, che parla ovunque di sé sotto falso nome (dalla religione allo sport, dalla politica all’arte), parla di sé in prima persona e, conseguentemente alla propria logica, vende la contemplazione di se stessa. La Fiera è dunque il punto di coagulo di tutte le alienazioni che dominano giorno per giorno la vita di ognuno; essa è insieme lo spettacolo della merce (in quanto esposizione di prodotti) e la mercificazione dello spettacolo (poiché paradossalmente si paga per contemplare il prodotto del proprio lavoro).
Aldilà del valore reale degli oggetti esposti e cioè quel valore che essi acquistano soltanto nell’uso, esiste il potere che essi detengono sull’uomo, nel momento in cui, tramite la mediazione del valore di scambio, la società capitalista se ne serve per sé sotto forma di merci. Tempio del valore di scambio (poiché il valore delle merci risiede precisamente nel loro essere oggetti di compravendita, fra un acquirente che è il produttore stesso e un venditore che va assumendo sempre più la forma astratta di “centro di distribuzione economica” che dà a ciascuno secondo i bisogni del capitale), la Fiera è la negazione del valore d’uso e, quindi, dell’uso reale della vita. Mediata dalle merci, la vita vissuta è stata degradata a contemplazione, a spettacolo di tutti per tutti. Ora, mentre l’estensione della abbondanza mercantile non significa altro che l’impoverimento generale di tutti, la rinuncia a vivere la propria vita, essa è insieme la garanzia per la realizzazione di un’effettiva abbondanza nel momento in cui gli uomini si impossessino dei loro prodotti e li usino. L’abbattimento della società spettacolare-mercantile e l’abolizione del lavoro salariato sono il punto obbligato per la realizzazione di una società in cui la creatività di ognuno assicuri la ricchezza sociale, in cui ciascuno sia padrone collettivamente dei prodotti collettivi, e possa riscoprire il senso dell’amore e dell’amicizia. Il rifiuto del valore di scambio è dunque il presupposto per il rifiuto della realtà mercantile che ne costituisce il modello, la motivazione e il fine ultimo. Si tratta di impossessarsi di tutto ciò che la pubblicità offre astrattamente e di riscoprire, con il furto e il dono, l’uso reale che smentisce la razionalità oppressiva della merce. Gli uomini, distruggendo la merce, impongono il potere della propria soggettività su tutti gli oggetti che li circondano.

 

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12 – 12 – 1969, Gli anarchici non dimenticano

La forza della disperazione compensò la nostra esiguità numerica, la nostra mancanza di mezzi. Da oggetto della repressione ci trasformammo in promotori della campagna di agitazione e di controinformazione. Il disegno che con le bombe del 12 dicembre e con l’assassinio di Giuseppe Pinelli voleva liquidare la sinistra rivoluzionaria e annullare le conquiste operaie del famoso autunno caldo non giunse a compimento. Noi anarchici, scelti come capro espiatorio per giustificare la repressione eravamo riusciti a inceppare (anche se solo parzialmente) il meccanismo repressivo del potere. Subito ci ponemmo due obiettivi: da un lato dimostrare l’innocenza degli anarchici e ottenere la scarcerazione dei compagni arrestati, dall’altro ritorcere la manovra provocatoria/repressiva contro i provocatori/repressori, capovolgere la situazione e mettere sotto accusa gli accusatori, contrattaccando lo stato.
Il più clamoroso successo di quella campagna fu la scarcerazione di Valpreda e degli altri anarchici. Un successo che faceva seguito ad una serie continua di piccoli successi, registrabili nel diverso atteggiamento che la cosiddetta “opinione pubblica” aveva dovuto prendere nei confronti degli anarchici e della strage. Certo la liberazione degli anarchici fu decisa dal governo sotto la pressione di questa opinione democratica, ma fu una vittoria nostra, perché noi abbiamo smosso i “democratici” dal loro abituale torpore, noi li abbiamo costretti a scandalizzarsi ed indignarsi. Fu una vittoria nostra perché, nonostante tutto le strutture repressive dello stato “democratico” uscirono malconce dalla faccenda nell’immagine pubblica, anziché ridipinte a nuovo di democraticità.
Tutto questo accadeva però sette anni fa. Da allora molte cose sono cambiate e non certo in meglio.
In quegli anni abbiamo, con tutta probabilità, toccato il livello più alto di discredito delle istituzioni. A quel punto l’azione antistatale doveva fornirsi di altri strumenti, non bastava continuare l’opera intrapresa, doveva esserci un salto qualitativo che sapesse collegare quella campagna con le altre forme di intervento, proprio nel momento in cui l’agitazione tendeva a spogliarsi dei suoi contenuti innocentisti per accentuare il suo carattere “politico”. Era un collegamento inevitabile data la sua natura di lotta allo stato, ma che doveva avere una coerenza organica tra temi diversi di un’unica tematica rivoluzionaria, un collegamento che nasce dal legame altrettanto organico che vi è tra sfruttamento economico ed oppressione politica. Tutto questo non avvenne. Il collegamento risultò essere una meccanica sovrapposizione di slogans propagandistici che artificialmente cercavano di ricondurre ad un unico disegno repressivo aspetti e momenti tra loro troppo differenziati.
Il salto qualitativo non ci fu e rivisitando criticamente quegli anni possiamo ritenere che anche da questa carenza prende l’avvio la crisi della sinistra rivoluzionaria. Per di più le istituzioni, lentamente ma progressivamente, recuperarono il terreno perduto. Da un lato, con astuzia bizantina, dilatando i tempi processuali, rinviando, attuando furbeschi ammiccamenti, dall’altro dando l’impressione di sapersi rinnovare, di espellere gli “elementi inquinanti”, ammettendo verità parziali per poter dire colossali falsi.
In questo modo lo stato è riuscito a stemperare la carica antiistituzionale che si era creata, mentre il movimento rivoluzionario perdeva la sua capacità propositiva e ripeteva quasi meccanicamente i temi degli anni precedenti. Il processo di recupero è arrivato al punto che la strage del 12 dicembre viene definita “strage di stato” anche dai mass-media, ma tutto questo (non avendo più quelle connotazioni antiistituzionali) non solo non produce tensione rivoluzionaria, ma paradossalmente assume una funzione stabilizzante per il sistema.
Dieci anni dopo il bilancio per il movimento rivoluzionario è purtroppo passivo, anche se all’attivo possiamo segnare una diffusa consapevolezza della criminalità del potere. Purtroppo questa consapevolezza oggi rimane allo stato passivo: la gente sa, ma ha perduto la volontà di agire. Si è generalizzato (pur con poche, anche se significative eccezioni) un senso di sfiducia nella possibilità rivoluzionaria. Quale senso ha allora per noi parlare ancora della strage di stato? Qualcuno potrebbe obiettare che se non altro si contrasterà la versione di regime, si farà udire una voce diversa nella marea di voci che reciteranno una versione addomesticata. Vero, verissimo, ma troppo poco.
Purtroppo non è obsoleta la tematica, ma è il movimento che ha perduto l’iniziativa e vive ripiegato su se stesso. Ma forse è proprio per questa ragione che noi dobbiamo andare controcorrente, non accettando la passività e la rinuncia. Allora con più impegno dobbiamo far sì che questo “anniversario” non passi sotto silenzio, perché la potenzialità sovversiva dimostrata da questo “caso” è norme. Esso è riuscito ad implicare direttamente od indirettamente quasi tutte le strutture statali a tutti i livelli, è riuscito a dimostrare praticamente quanto “ideologica” sia l’indipendenza della magistratura, quanto disprezzo criminale per la verità e la vita umana possa esprimere la giustizia di stato, è riuscito ad approfondire il solco di credibilità tra le istituzioni statali e i “sudditi”. Le bombe del 12 dicembre e l’assassinio del compagno Pinelli non sono un episodio di ingiustizia, ma un caso esemplare dell’ingiustizia generalizzata, sistematica e per questo nella coscienza popolare sono divenuti “la strage di stato” e “l’assassinio di stato”. (Dieci anni dopo di Luciano Lanza –Rivista Anarchica anno 9, n°9 dicembre 1979)

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John Lee “Sonny Boy” Williamson

Come per i blues singers meno classici, anche molti urban blues degli Anni Trenta appaiono oggi parecchio datati, e infatti quando il gusto popolare progredì questi blues restarono a becco asciutto senza che nessuno si sforzasse gran che di recuperarli. I migliori sono ancora pieni di espressività, e a modo loro divertenti, ma a differenza del vecchio country blues e dell’ urban blues degli anni seguenti non hanno creato intorno a sé un grande interesse, non hanno trovato dei sostenitori. Quando Big Bill Broonzy ha colpito l’immaginazione degli appassionati di folk music negli Anni Cinquanta, è stato apprezzato nel suo ruolo di country bluesman che si serviva semplicemente della voce e della chitarra: il clarinetto, la tromba, il contrabbasso, il piano e la batteria erano scomparsi. Un’influenza più duratura l’esercitò John Lee “Sonny Boy” Williamson, conosciuto anche come Sonny Boy No. 1, per distinguerlo dall’altro Sonny Boy (Rice Miller) Williamson che tra l’altro ha sempre dichiarato di essere lui il primo. Sonny Boy fece da ponte prima tra il country blues meridionale e il blues di Chicago degli Anni Trenta, e in seguito con il blues moderno di Chicago. Nato a Jackson, nel Tennessee, nel 1914, da ragazzino suonò l’armonica in un circuito di professionisti, assieme a Sleepy John Estes, Yank Rachel e Homesick James. Arrivò a Chicago a metà degli Anni Trenta e quando cominciò a incidere nel 1937 aveva ancora un forte sapore meridionale; con quel canto sommesso e mormorato e quell’armonica lamentosa sembrava proprio un ragazzo di campagna. Suonava usando tutte le raffinatezze ritmiche del miglior country blues, con le note dell’armonica legate e strascicate, e la voce e lo strumento erano quasi una cosa sola. Spesso lavorò con chitarristi come Robert Lee McCoy e Big Joe Williams e mandolinisti come Yank Rachel o Willie Watcher, che contribuivano a rinforzare l’atmosfera rurale. Ma a poco a poco lo stile campagnolo si evolveva, come se il country boy stesse imparando i modi urbani. Sonny Boy doveva rivoluzionare il blues contemporaneo facendo dell’armonica uno strumento di primo piano. Le “harps” avevano sempre avuto un loro ruolo nel blues, specialmente nelle jug bands, ma Sonny Boy era riconosciuto come solista, completamente legato al suono del suo strumento. La rapida interazione tra i brevi riffs strumentali e la voce, l’energia del suo soffio e i suoi manierismi vocali erano molto ammirati e lo portarono a diventare una personalità musicale di rilievo a Chicago: diventò una figura dominante, lavorò spesso con Big Bill sia su disco sia nei locali, aggiornando il suo sound con l’aggiunta di un piano, di un contrabbasso e di una batteria. La sua voce riceveva una espressività particolare da un piccolo difetto di pronuncia che lui superava con un borbottio rapido, ammucchiando le sillabe fino a confonderle con la linea ritmica in un flusso unico, e cantando dentro l’armonica. Il suo modo di conciliare l’intensità campagnola e un accompagnamento musicale moderno mostrava i primi segni dei futuri sviluppi del blues. Veloci e pieni di ritmo o lenti e intensi, leggeri e spiritosi o pieni di tristezza contenuta, tutti i dischi di Sonny Boy Williamson riflettevano la sua personalità, quella di un forte bevitore (come molti cantanti) che poteva a volte mettersi nei guai, ma che aveva la stima dei suoi contemporanei per il suo buon carattere e per la sua generosità. Come ricordava Billy Boy Arnold: “Era una delle persone migliori che io abbia conosciuto… lavorava per dare da mangiare e da bere agli altri. Quando arrivava il giorno della paga non aveva niente, non c’era giorno di paga per lui. Era proprio buono, pagava da bere e da mangiare, era generoso con quelli che gli stavano vicino, lavorava solo per loro”. Lui e sua moglie Lacey Belle, di cui parlava spesso nelle canzoni, erano noti per la loro cordialità e per la loro ospitalità, e Sonny Boy con pazienza infinita dava dimostrazioni di tecnica sull’armonica ai giovani che lo venivano a trovare, tra i quali lo stesso Billy Boy. La sua enorme popolarità, la sua influenza nella formazione del blues contemporaneo a Chicago, resero ancora più tragica la sua fine violenta, quando nel giugno del 1948 fu colpito alla testa. Lacey Belle lo trovò steso sulla soglia che rantolava “Signore, abbi pietà…” Poi entrò in coma e mori.

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LA RIVOLUZIONE

La rivoluzione è qualcosa che principia nel tempo presente, nelle scelte odierne, sia positive, sia negative; nel modo stesso di agire, di operare, di riprodursi. La sua preparazione verte sia sulla costruzione di percorsi di affrancamento del singolo, sia sulla costruzione di spazi di discussione e decisione collettiva. In questo senso non esiste “frattempo”, dal momento che il tempo è totalmente impegnato nella costruzione di tali processi, la cui efficacia naturalmente potrà incontrare una piena verifica solo in presenza di uno scatenamento, possibile in ogni momento, ma mai garantito da qualche congiunzione socioastrale. Appare verissimo ciò che affermava tempo fa Scalzone: che, se mai, rispetto a cinquant’anni fa, i motivi per fare una rivoluzione sono divenuti più profondi, e numerosi, piuttosto che il contrario. Non si capisce se si abbia timore di desiderare troppo, o se si sia in fondo meno scontenti dell’esistente di quanto si va dicendo – e che nel mugugno libertario non si trovi già il necessario appagamento per non omologarsi al cento per cento ma solo al novantanove virgola nove. Sono un refrattario, non vedi come mi lagno? Non senti come strepito? Ma poi non reggono la paura dell’evento palingenetico che rischierebbe di creare l’homo novus

Il fine di una rivoluzione è evadere dalla società della necessità, e ancor di più dalla necessità della società, necessità che per millenni non erano mai comparse, ma che adesso pretenderebbero di essere considerate eterne. La nostra è una società fondata sulla proprietà e sullo scambio: perciò conviene farsi pagare e chiudere la porta a chiave. Se non lo fai, se dovessi provare a sottrarti individualmente, otterresti unicamente di farti vaso di coccio fra vasi di ferro e null’altro. Infatti, per ottenere l’adesione dei sudditi il capitalismo deve usare meno violenza di qualsiasi socialismo, nel quale evidentemente le buone intenzioni di chi sta sopra si convertono in cattive condizioni di chi sta sotto. Per questo motivo occorre la rivoluzione, che sgombererebbe lo spazio per una diversa efficienza, intorno alla quale stabilire nuove consuetudini, in sintonia con i nuovi equilibri. (Paolo Ranieri, tratto da: One solution revolution, La Critica Radicale in Italia, Comontismo 1971 – 1974,  Nautilus, 2023)

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MOLLA TUTTO – Annie LeBrun

«Io vivo nel terrore di non essere incompreso». (Oscar Wilde)
«je voudrais te parler cristal fèlé hurlant comme un chien dans une nuit de draps battants». (Benjamin Péret)

A sedici anni avevo deciso che la mia vita non sarebbe stata quella che altri avrebbero voluto che fosse. Questa determinazione e la fortuna, forse, mi hanno permesso di evitare la maggior parte degli inconvenienti tipici della condizione femminile. Se mi piace che le donne manifestino sempre più il desiderio di rifiutare i modelli che sono stati loro proposti fino ad ora, non mi dispiace che non esitino a riconoscersi nella negazione formale di quei vecchi modelli quando questo non sia un semplice adeguarsi alla moda del momento. Mentre oggi ci si compiace di ripetere un po’ dovunque che non si nasce donna, ma che lo si diventa, sembra che non ci si preoccupi affatto di non diventarlo. Proprio il contrario. Mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare la differenza illusoria che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, le neo-femministe degli ultimi anni si affannano a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio del quale le donne sarebbero state private. E questo a tal punto, che la
rivolta davanti ad una impossibilita di essere, tende a scomparire sotto i colpi della stupidità militante che instaura un obbligo di essere. È necessario ricordare: in materia di rivolta nessuno ha bisogno di antenati, ma anche aggiungere: e soprattutto non si ha bisogno di consigliere tecniche preoccupate di scambiare le ricette dell’insubordinazione femminile dall’a alla z.
Davanti all’ampiezza dei misfatti più o meno legalmente perpetrati, non solamente nei confronti delle donne, ma anche nei confronti di tutti i refrattari alla codificazione sociale dei ruoli sessuali (e fra loro, gli omosessuali, in particolare) io considero questa rivolta troppo necessaria, da non voler turbare il concerto di voci di quelli o di quelle che pretendono di strappare questa rivolta da quell’oscurità individuale dove essa prende corpo violentemente ed attinge le sue capacità di sconvolgimento. Insisto, quella rivolta è sempre un attentato alla morale della collettività, quali che siano le basi che la fondano. Allora, come non vedere che ogni donna si trova oggi virtualmente espropriata di questa riconquista individuale quando non si accorge che ciascuno dei suoi capricci rischia di essere deviato per servire alla costruzione di un’ideologia tanto contraddittoria nelle sue proposizioni quanto totalitaria nelle sue intenzioni?
Eccola più o meno tacitamente incoraggiata da ogni parte ad esporre le rivendicazioni del suo sesso dopo che la cosiddetta causa delle donne esibisce un’immagine della rivolta imprigionata nelle reti della normalizzazione negativa che la nostra epoca è così bene abituata a tessere fin negli angoli più nascosti del nostro orizzonte sensibile.
Avendo sempre disprezzato i padroni che hanno dei comportamenti da schiavi come gli schiavi impazienti di scivolare nella pelle dei padroni, confesso che gli scontri abituali fra gli uomini e le donne non mi hanno mai preoccupato molto. La mia simpatia va a quelli che disertano i ruoli che la società aveva loro preparato. Questi non hanno mai la pretesa di costruire un mondo nuovo, ed è in questo che risiede la loro fondamentale onestà: non faranno mai il bene degli altri loro malgrado, si accontentano di essere la eccezione che nega la regola, con una determinazione che, spesso, è capace di stravolgere l’ordine delle cose. Oscar Wilde mi interessa più di una qualsiasi borghese che ha accettato di sposarsi e di fare dei bambini e che, un bel giorno, si sente repressa nella sua molto ipotetica creatività. È così.
Non farò qui la lista delle mie preferenze a questo proposito: sarebbe inutile e opprimente per la causa delle donne. Che io abbia fatto di tutto per dare il minor spazio possibile alle conseguenze psichiche, sociali, intellettuali di un destino biologico non riguarda che me; non permetterò che si tenti di colpevolizzarmi in nome di tutte le donne per riportarmi nei limiti di questo stesso destino. Questa promiscuità improvvisamente ineluttabile nella ricerca dell’identità di ognuna, minaccia le donne nel più profondo della loro libertà quando l’affermazione di una differenza generica si fa a spese di tutte le differenze specifiche.
Consideriamo con calma quello che, uomini e donne, siamo stati costretti a subire indifferentemente in nome di Dio, della Natura, dell’Uomo, della Storia. Eppure sembra che non sia sufficiente, visto che tutto ricomincia oggi all’insegna della Donna. Gli specialisti in materia di coercizione non si sbagliano moltiplicando con zelo improvviso gli organismi nazionali e internazionali consacrati alla condizione femminile senza che per questo la legislazione cambi realmente. D’altra parte non saprebbero allontanarsi molto da questa strada da quando Aragon, canore della repressione, ha annunciato che «la donna è l’avvenire dell’uomo».
Ho dei grossi dubbi su questo avvenire quando può capitargli di prendere le sembianze di Elsa Triolet (La compagna di Aragon da più di mezzo secolo. Uno dei nodi non minori della polemica fra Aragon e il movimento surrealista).
In quel che si dice o si scrive in nome delle donne vedo ritornare – col pretesto della liberazione – a tutto ciò a cui la donna è tradizionalmente mutilata: ci si dichiara contro la famiglia ma si esalta il trionfalismo della maternità che la fonda, ci si attacca alla nozione di donna-oggetto, ma si lavora alla ricostruzione promozionale del mistero femminile; infine se i rapporti fra gli uomini e le donne sono denunciati come rapporti di forza è per diventare il punto di partenza di una teorizzazione delle lotte coniugali più opprimenti. Così, tante nuove ragioni di felicitarmi ancora per aver lasciato definitivamente il vicolo cieco della sensibilità cosiddetta femminile. Di più, niente saprebbe farmi ritornare sulla mia avversione naturale per le maggioranze soprattutto quando queste nei paesi occidentali si compongono principalmente di martiri a mezzo servizio.
Più il baccano di questa epoca si fa assordante, più ho la certezza che la mia vita sia altrove, scivolando lungo il mio amore le cui figure seppelliscono il tempo che passa, ti guardo. Noi ci incontreremo sul ponte delle trasparenze prima di tuffarci nella notte delle nostre differenze, nuoteremo vicini o lontani, distratti o tesi, risalendo la corrente del nostro enigma per ritrovarci nell’abbraccio incerto delle nostre ombre fuggenti. Noi non siamo i soli ad esserci levati un giorno dal più profondo delle nostre solitudini per andare incontro ai nostri fantasmi senza preoccuparci che siano maschi o femmine. E se esiste solo qualche uomo che non fatica a riconoscersi in questa confessione di Picabia «le donne sono depositarie della mia libertà», è forse perché ne va della conquista di un «meraviglioso» che le donne e gli uomini debbono ancora scoprire. È per questo che mi rifiuto di essere arruolata nell’armata delle donne in lotta, semplicemente per un caso biologico. Il mio forsennato individualismo si adatta perfettamente a tutto ciò che opera per l’intercambiabilità degli esseri.
Questo libro è un appello alla diserzione.

(Introduzione di Annie LeBrun per Làchez tout (Disertate), 1977, Le Saggitaire, Paris)

 

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Raoul Vaneigem – ABOLIRE LA PREDAZIONE RIDIVENTARE UMANI

Appello per la creazione mondiale di collettività
in lotta per una vita umana libera e autentica

Abbiamo fatto dell’Uomo la vergogna dell’umanità.

Dai tempi più antichi ai giorni nostri, nessuna società ha toccato il grado di umiliazione e di abiezione raggiunto da una civiltà agro-mercantile che passa come Civiltà per eccellenza da diecimila anni.

È innegabile che come umani in divenire abbiamo ereditato un istinto predatore e un altro tendente all’aiuto reciproco. Entrambi costituiscono la nostra quota di animalità residua. Tuttavia, mentre la consapevolezza di una solidarietà fusionale ha favorito la nostra progressiva umanizzazione, l’aggressività predatoria, al contrario, ha sviluppato in noi una tendenza all’autodistruzione. È così difficile da capire?

La comparsa di un’economia che sacrifica la vita al lavoro, al Potere, al Profitto, ha segnato una rottura con l’egualitarismo e l’evoluzione simbiotica delle civiltà preagrarie. L’agricoltura e l’allevamento hanno favorito l’istinto predatore, a discapito di una pulsione di vita che non ha mai rinunciato a ristabilire la propria sovranità usurpata.

L’appropriazione, la competizione, la concorrenza si compiacciono di esaltare la “belva civilizzata” la cui sublimazione spirituale serve a legittimare le loro imprese. Nella sua forma emblematica, il leone lascia credere che sia naturale dargli la caccia e opprimere le bestie. Ciò che così s’impone, in effetti, è la denaturazione dell’essere umano. Si cercherebbe invano, tra i carnivori più spietati, una crudeltà altrettanto deliberata, una ferocia altrettanto inventiva quanto quella esercitata dalla Giustizia, dalla Religione, dall’Ideologia, dall’Impero, dallo Stato, dalla Burocrazia.

Tenete bene in mente la smorfia dei trafficanti d’armi quando i loro prodotti tariffati fanno a pezzi donne, bambini, uomini, animali, foreste e paesaggi. “In guerra come in guerra”, non è vero?

Il Profitto esprime il cinismo del fatto compiuto. Non ci nasconde nulla di quei ristoranti senza cuore dove signore e signori si rimpinzano, mentre le loro calzature di lusso grondano sangue ed escrementi.

Perché preoccuparsi finché l’opinione pubblica preformattata si schiera dalla parte dell’uno o dell’altro belligerante, come se si trattasse di una partita di calcio tra Russia, Ucraina, Israele, Palestina? Le scommesse sono aperte e gli applausi degli spettatori sovrastano le urla delle folle massacrate.

Accontentarsi di un anatema nei confronti di una civiltà schifosa non le impedirà di perpetuarsi finché lasceremo che le leggi dell’avidità finanziaria orchestrino la nostra denaturazione, ritmino le nostre apatie, punteggino le nostre frustrazioni scatenando le esplosioni di un odio cieco e omicida. Aggiungere il rimprovero alla colpa? A che pro! Ciò non porterebbe che a rafforzare il senso di colpa personale che si esorcizza colpevolizzando gli altri. Il riflesso predatore vi troverebbe ancora una volta il suo tornaconto.

Le esortazioni rivolte alla moltitudine cadono sotto i colpi di un doppio discredito: da un lato, gli slogan e gli incitamenti militanti riavviano il vecchio motore del Potere in cui il radicalismo fa presto a spegnere la radicalità dell’esperienza vissuta; d’altra parte, ciò che sceglie di diffondersi sul podio delle generalità si diluisce facilmente nel miscuglio delle idee separate dal vivente.

A meno che una lettrice o un lettore vi scopra l’occasione per un dialogo intimo con se stesso. In altre parole, se l’una o l’altro si abbeverino alla fonte della coscienza umana che è in loro.

Piuttosto che indirizzarmi alla massa, preferisco quindi rivolgermi direttamente all’individuo autonomo. Perché questi è consapevole che la mia unica intenzione è confidargli il mio modo di vedere, in un dibattito fraterno dove non c’è bisogno di conoscersi per riconoscersi.

Esiste miglior garante del risveglio delle coscienze che il mutuo soccorso? Non è un caso che esso rinasca spontaneamente nella misura in cui la predazione cessa di dissimulare che essa si divora e ricava profitto dalla sua autodistruzione.

Il fallimento dell’avere propaga una noia peggiore della morte della quale agita costantemente lo spettro. Ed ecco che il soffio della vita riabilita l’essere. Il soggetto si emancipa dall’oggetto, si libera della cosa cui la reificazione lo riduceva. Non è forse quel che sottintende l’adagio “l’uomo e la donna non sono merci”?

La parte di femminilità rivendicata dall’uomo e la parte di mascolinità rivendicata dalla donna non fanno differenza. Dal momento in cui risparmieremo al bambino le devastazioni dell’educazione predatoria, non dovremo far altro che lasciare alla sua radicalità spontanea il compito di risvegliarlo al suo destino di essere umano.

Nessun bisogno di profeti per predire che quel si preannuncia avverrà: o il trionfo dell’abbrutito la cui clava funge da pensiero, o l’impeto di una vita tornata cosciente della sovranità che la sua umanità ha il compito di esercitare.

La comodità del fascismo e dell’antifascismo è che occulta la vera lotta finale, quella che, inseparabilmente esistenziale e sociale, comporta l’eradicazione della predazione, la sparizione del Potere gerarchico, la fine di quanti abbaiano degli ordini.

Il cinismo e l’assurdità redditizia delle guerre, fomentate dalle mafie statali e globali, hanno finito per stancare anche il più ottuso dei loro sostenitori. La successione dei conflitti per così dire intercambiabili incita l’opinione “pubblica” a disertare a poco a poco lo scacchiere degli imbrogli geopolitici.

È qui e ora che l’apparizione del maggio 1968, degli Zapatisti, dei Gilet jaunes, dei combattenti del Rojava apre alla vita e alla sua coscienza una via che il deragliamento storico della Civiltà agro-mercantile aveva ostruito e portato verso la morte.

Non sperare nulla non significa disperare di tutto. Il ritorno alla vita è una reazione violenta, naturale e spontanea. Ha la capacità d’impedire la desertificazione della terra da cui il profitto trae le sue ultime risorse. Il ritorno alla vita, alla sua autenticità, alla sua coscienza è la nostra vera autodifesa immunitaria. Poiché la denaturazione ostacola questo ritorno in nome del Profitto, perché non affidarsi alla natura presente in noi e intorno a noi per porre fine a una civiltà odiosa? Come? Non domandatelo a me, chiedetelo a voi stessi che navigate continuamente tra letargo e rivolta!

Segnali di angoscia e di giubilo si mescolano e si moltiplicano ovunque. Non cadete nell’errore! Il rifiuto rabbioso di una guerra intrapresa contro un paese specificamente preso di mira – la Palestina in questo caso – va ben oltre una sconfessione particolare. Esprime sempre più chiaramente l’esecrazione di una guerra condotta non solo contro la popolazione di una regione ma contro la popolazione di tutte le contrade del pianeta Terra. La quale ha capito che per l’avidità totalitaria, vivere è un crimine. Per questo le nuove insurrezioni mondiali fanno parte dell’autodifesa del vivente. In esse s’incarnano sia la volontà di abrogare un universo di psicopatici che rendono la morte redditizia sia l’attuazione di una nuova alleanza con la natura nutrice.

Si è fatta una guerra di troppo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non per le lobby statali e sovrastatali delle armi, non per i produttori di narco-neurolettici, ma per chiunque non sia disposto a morire prematuramente aderendo al partito della servitù volontaria, mobilitandosi sotto la bandiera del viva la muerte!

Il problema è dovuto soprattutto al dubbio, alla disperazione, alle delusioni che il partito preso della vita incontra di generazione in generazione.

Non è forse aberrante aspettarsi qualcosa dagli organi di governo che decidono per noi e ci vessano con i loro decreti, tutti più ridicolmente falsi gli uni degli altri?

Nell’oscurità dell’epoca, abbiamo almeno il piacere di vedere avvizzire davanti ai nostri occhi gli Dei, impostori che da diecimila anni hanno usurpato la facoltà di creare e di crearsi, mentre la vita, nella sua folle fertilità, l’aveva accordata come prerogativa della specie umana.

È giunto il momento di riprendere il corso del nostro destino. È giunto il momento di cambiare il mondo e diventare ciò che vogliamo essere: non i proprietari di un universo sterile ma gli abitanti di una Terra dove coltivarne l’abbondanza permetterebbe di godere liberamente. Basta con questo mondo alla rovescia dove il profitto s’impoverisce impoverendo le proprie risorse! Che la scomparsa delle energie nocive disinquini l’acqua, l’aria, il suolo, la terra in modo che il nostro ingegno creativo cancelli anche il ricordo di una sfortunata deviazione della nostra evoluzione.

Nell’intensità di un desiderio, il presente si risveglia alla presenza di una vita che non si preoccupa né di essere misurata né di essere programmata. La gioia di vivere introduce all’arte di armonizzarsi, perché porta in sé la facoltà specificamente umana di creare e di crearsi.

L’appropriazione del suolo e l’allevamento avevano impiantato nei costumi un gregarismo in cui l’individuo vedeva la sua intelligenza ridotta a quella del bestiame che aveva per funzione di nutrire. Ciò che sta emergendo oggi è una rinascita dell’individuo autonomo che si libera dell’individualismo e della sua coscienza alienata.

Siamo a un punto di svolta della storia in cui lo sviluppo di uno stile di vita soppianterà una sopravvivenza condannata al lavoro, un’esistenza dedita a un confort da cure palliative.

La consapevolezza che emana dai nostri impulsi vitali evidenzia un conflitto incessante tra una prospettiva di vita e una prospettiva di morte, tra l’attrazione dei nostri desideri, illuminati dalla nostra intelligenza sensibile, e l’influenza che l’intelligenza intellettuale esercita nei loro confronti. Perché il blocco delle nostre emozioni da parte di quello che Wilhelm Reich chiama la corazza caratteriale obbedisce agli imperativi di un’efficienza meccanica per la quale il corpo è tenuto al lavoro. Orbene, evidentemente, se il godimento che emana dalla gratuità del vivente non trova posto nell’avidità totalitaria, ciò significa anche che restaurare la gioia di vivere, sviluppare la combattività festosa, rafforzare l’innocenza del vivente che ignora sia i padroni sia gli schiavi, sono armi che per natura portano alla rovina del Profitto.

Siamo nella tormenta di una lotta emozionante. Essa marca la rinascita della nostra coscienza umana. In essa si esprime il risveglio di una dignità che è sempre stata al centro dei nostri tentativi di emancipazione, in particolare nel progetto proletario di una società senza classi. Abbiamo visto come il proletariato sia stato spodestato del suo progetto proprio da coloro che ne furono i difensori. Sarebbe meglio pensare a sradicare fin dall’inizio ogni forma di potere – che sia quello del sindaco, funzionario dello Stato, o del militante, funzionario dell’ideologia e della burocrazia contestatrice.

Tra i portavoce autoproclamati del popolo, è facile distinguere quanti sono già pronti a sostituire l’autorità dello Stato con la propria.

Non è una risoluzione salutare desiderare tutto senza aspettarsi nulla? Con questo intendo fare affidamento sui nostri impulsi di vita non come una fatalità ma come una presenza creativa che abbiamo la libertà di sperimentare prevenendo la loro congestione, evitando la loro inversione mortifera, generatrice di peste emozionale. Abbiamo sottovalutato l’importanza di affinare la collera in modo da evitare la trappola dell’urgenza, in modo da non lasciarci trascinare nel territorio del nemico, da non soccombere alla militarizzazione del militantismo. Soprattutto, però, la distanza implicata dall’affinamento delle emozioni è un luogo favorevole alla maturazione della creatività. Favorisce l’attuazione di una guerriglia dispensata dal ricorso ad altre armi che non siano quelle che non uccidono e che sono inesauribili.

Con il passare dei secoli, ci si accorgerà che un risveglio delle coscienze ha rianimato una lotta che il rinnovamento dell’aiuto reciproco sta gradualmente liberando dalle nebbie della confusione.

Alle generazioni future sembrerà inconcepibile che ci sia voluto così tanto tempo per rendersi conto che la vita aveva dotato l’uomo e la donna di una facoltà eccezionale, senza la quale non sarebbero andati oltre lo stadio dell’animalità. Nella sua cecità sperimentale, la vita ci ha dotato del privilegio di creare noi stessi e di ricreare il mondo circostante.

Le comunità preagrarie si erano evolute in simbiosi con un ambiente da cui traevano la propria sussistenza. L’emergere della Civiltà mercantile e delle sue città-stato portò ad una rottura con la natura, che, da soggetto vivente, divenne oggetto di sfruttamento. Un sistema di governo autoritario si è impiegato a mascherare l’aiuto reciproco creativo che aveva guidato, “da Lucy a Lascaux”, un’evoluzione che gli adulatori della civiltà mercantile sono oggi molto reticenti a scoprire.

La nozione di Fato come destino ineluttabile ha prevalso. Propagando uno spirito di sottomissione, essa ha instillato un’ontologia della maledizione, ha diffuso il mito di una caduta irrimediabile, alla quale bisogna rassegnarsi; così come si obbedisce all’arbitrarietà di un signore divinizzato.

Ciò che oggi rinasce tra coloro che aspirano ancora a vivere è il sentimento di essere stati ingannati. Mentre il crollo del patriarcato completa la sepoltura degli Dei nelle latrine del passato, ci insegna a scoprire una distinzione fondamentale tra Fato e destino. Il disprezzo della vita, programmato dalla civiltà mercantile, ha oscurato sotto il nome di Fato il principio attivo che io chiamo destino e che non è altro che la facoltà di creare se stessi ricreando il mondo.

Il Fato dipende dalla Provvidenza, non si può discutere, si fonda su quella Fatalità che reca un apprezzabile conforto al servilismo.

Il Fato si subisce, il destino si costruisce. Non c’è niente di metafisico in questo. L’atroce barbarie della nostra storia non è mai riuscita a soffocare la lotta viscerale manifestata, di generazione in generazione, da una volontà di emancipazione, al contempo senza tempo e tuttavia modulata dalle fluttuazioni economiche, politiche, psicologiche e sociali.

“Fato” e “destino” rappresentano un problema perché sono stati resi sinonimi. Per questo suggerisco di mantenere, per maggiore chiarezza, la loro distinzione.

La radicalità delle lotte per la vita chiede al destino umano di soppiantare il Fato, il Caso, la Provvidenza. Essa rifiorisce nel bel mezzo di una terra di nessuno dove una civiltà incontinente si svuota della sua sostanza esistenziale mentre una nuova civiltà si dibatte nel travaglio del parto.

Nelle balbuzie dell’autonomia, la potenza creatrice della donna e dell’uomo – per quanto tentennante sia – rivela improvvisamente che siamo capaci di svilupparci senza signori, senza guru, senza tutela. Se avessimo avuto l’opportunità di comprendere che nulla attira l’infelicità più dell’abitudine di compiacersi della sua compagnia, dovremmo convenire, al contrario, che il godimento della gioia di vivere è anch’esso contagioso, e in modo più piacevole.

L’irremovibile determinazione a coltivare contemporaneamente la nostra vita e quel giardino che è la nostra terra nutrice, offre un sostegno imparabile contro la paura, il senso di colpa, il sacrificio, il puritanesimo, il lavoro, il potere, il denaro. Essa alimenta la lotta contro lo spirito mercantile che garantisce ovunque la promozione dei valori antifisici, valori ostili alla natura.

La volontà di autonomia individuale è allo stesso tempo unica e plurima nel combattere per l’emancipazione dell’Io. Le questioni di salute, equilibrio, immunità, amicizia, amore, piaceri, creatività sono al centro dell’emancipazione della terra illuminate dalle nuove insurrezioni mondiali. L’obiettivo è identico: realizzare la libertà dei desideri creando una società attenta ad armonizzarli.

Nel corso della mia vita quotidiana, l’autenticità del vissuto è la garanzia naturale dei miei desideri. La loro libertà esclude le libertà commerciali – quelle di sfruttare, opprimere, uccidere.

La libertà e l’autenticità costituiscono per l’individuo in cerca di autonomia il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata.

Il sermone delle buone intenzioni non è mai stato così insopportabile come in questo ventunesimo secolo in cui la coscienza alienata non indossa più i guanti di velluto per mettere le parole al lavoro. Questa falsa coscienza designa con il nome di terrorista, assassino, psicopatico, fuorilegge quello che, ahimè, è solo uno stato di disumanità che la frenesia del Profitto a breve termine aggrava e accelera al ritmo delle sue grandi opere redditizie e inutili.

Ho sempre difeso il principio: libertà assoluta per tutte le opinioni, proscrizione assoluta per ogni disumanità. Secondo me, è la sola maniera d’affrontare la questione delle religioni e delle ideologie. Una tale scelta ci libera dall’ipocrisia umanitaria con cui si addobbano tante idee e credenze. Essa non ha nemmeno più bisogno di ripetere che la libertà di pensiero non è mai stata altro che una libertà mercantile.

Non vogliamo giudicare una disumanità, vogliamo condannarla e bandirla. Non abbiamo bisogno di spiegazioni, di giustificazioni, di circostanze attenuanti. Che provenga dai bei quartieri o dalle periferie, dal conservatorismo o dal progressismo, NESSUNA DISUMANITÀ È TOLLERABILE. Che ciò sia chiaro e inequivocabile!

Faremo di tutto per sradicare dai nostri costumi la propensione a uccidere, a ferire, a violentare, a maltrattare, qualunque siano le ragioni invocate per spiegare la comparsa e la recrudescenza del fenomeno. Basta con il tribunale universale in cui il soppesare, giudicare, scusare, condannare, punire, amnistiare, perpetua i balbettii dell’indignazione impotente. E la giusta collera rimarrà impotente finché sarà radicato in ognuno di noi il “levati di lì che mi ci metto!” che condanna alla giungla sociale e al riflesso predatore.

Basta con la caricatura d’esistenza che l’evangelismo narco-americano volgarizza in tutto il mondo! Il self-made man realizza e propaga soltanto la propria morte. È la taglia sulla sua testa, gloriosamente messa in mostra!

Non è forse nell’individuo autonomo che si afferma il piacere di non dover rendere conto a nessuno, di essere soli a districarsi, a dibattere, e prima o poi a effettuare, in modo alchemico, una trasformazione della squallida sopravvivenza che ristagna in noi? Di operare la trasmutazione di una materia prima – condannata a marcire – in una vita piena e intera cui da sempre abbiamo aspirato come esseri umani. L’arte di vivere disimpara a morire. Questo è l’unico insegnamento al quale desidero aderire.

Godere della mia autenticità vissuta, per quanto disordinata possa essere, mi libera dall’obbligo di assumere un ruolo, al quale vincolano l’individualismo e il gregge che lo guida. L’autenticità fa prendere coscienza di quanto sia irrisorio e patetico il dovere di mostrarsi, libera dalla dittatura dell’apparenza, dello spettacolo e dalla paura di essere pesati e giudicati costantemente. La vera felicità non è forse riscoprire l’innocenza di essere se stessi, di non doversi giustificare, di desiderare secondo il cuore senza aspettarsi nulla secondo la mente?

Ci stiamo incamminando verso un nuovo Rinascimento, verso una rinascita del Movimento Illuminista. Il nostro percorso trasversale sarà quello di una clandestinità apertamente rivendicata. Il pugno del profitto ci colpisce ovunque, colpiamo dovunque per smembrarlo!

La clandestinità inizia dentro di noi nella “camera oscura” dove siamo soli a discutere su quel che non vogliamo e su quello che desideriamo senza fine. Essa ci risveglia alla coscienza delle nostre pulsioni di vita, dei godimenti che la stimolano, delle contrarietà che la rovesciano e la tramutano in pulsioni di morte.

Il paradosso di una clandestinità apertamente rivendicata è attestato tanto dall’anonimato dei Gilet jaunes francesi, quanto dall’anonimato che ogni individuo rivendica quando si rifugia nella camera oscura dei propri desideri segreti. Laddove è solo a decidere se aderire al sistema di predazione e al calcolo egoistico dell’individualismo o se scegliere invece di dedicarsi alla trasmutazione della sua sopravvivenza in una vita piena e intera.

Nella sua opera teatrale “Fuente Ovejuna”, il drammaturgo Lope de Vega mette in scena gli abitanti di un villaggio che, stanchi della crudeltà di un governatore iniquo, l’hanno assassinato. Incaricati di scoprire il colpevole, giudici e carnefici si prodigano a interrogare gli abitanti del villaggio, ma l’unica risposta ottenuta è il nome del villaggio, Fuente Ovejuna. Cosicché, stanchi di lottare, un’amnistia generale è loro accordata.

L’anonimato rivendicato dagli individui in lotta per la loro autonomia solidale offre l’esempio di un’arma di vita. Essa federa la resistenza all’oppressione. Così come l’ostinazione dei Gilet jaunes non ha più bisogno dei gilet per diffondersi, si assiste alla crescente presenza di una vita che vuole essere libera e non s’ingombra di religioni, d’ideologie, di politica, né di strutture gerarchiche, statali e mondialiste. La vita prima di tutto è il fucile rotto che rompe la reificazione e insegna a sabotare la trasformazione dell’essere in avere. Essa radicalizza il riformismo militante dissuadendolo dal permettere che s’incrosti in lui il potere che pretende di combattere.

Il vivente porta in sé la fertilità del desiderio. Nessun deserto resisterà alla sua fecondità. Nella nostra intimità si configura la decisione di mettere termine all’istante che appartiene al tempo dell’usura, del lavoro, della morte, e di privilegiare il momento e il desiderio di vita che si manifesta nei piaceri dell’autenticità vissuta. Ne volete una prova al contrario? Osservate, mentre sto scrivendo, la formidabile ondata di nichilismo auto distruttore che sommerge le società divorate dal cancro della redditività.

Attribuisco meno importanza all’adesione di una moltitudine che all’intelligenza di individui autonomi il cui desiderio di autenticità è l’antidoto all’elitarismo intellettuale.

Lento ma ineluttabile, il rovesciamento di prospettiva illumina il rinnovamento, dove si realizza la riunificazione dell’esistenziale e del sociale. La lotta individuale e quella per una società autenticamente umana sono la stessa cosa.

La vita non ha bisogno né di padroni, né di culti, né di partito.

Il godimento è la violenza pacifica della vita che prolifera in noi e intorno a noi. È la gratuità che ci ha conferito una coscienza capace di umanizzarla. È quanto siamo determinati a tentare.

Ricostruiamo la terra, facciamo dei nostri comuni, dei nostri quartieri, delle nostre regioni delle oasi che il vivente renda inespugnabili!

Raoul Vaneigem, gennaio 2024

Traduzione dal francese di Sergio Ghirardi Sauvageon

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Il diritto alla città come opera d’arte collettiva

Henri Lefebvre (1901-1991) non ha bisogno di presentazioni, poiché è un assai noto, poliedrico studioso e intellettuale, geografo, urbanista e filosofo, di quel lungo «secolo breve», che egli attraversa quasi per intero, soprattutto nella sua culla centrale, in rapporto vitale e polemico, come fare altrimenti del resto, con quei rissosi visionari dell’Internazionale Situazionista di Guy Debord & co. Perché, dopo la fuga dal Partito Comunista Francese (1958), è con loro, tra bar, attraversamenti, derive e «situazioni» metropolitane, che Lefebvre percepisce la vitalità da recuperare nelle città, a partire da una «comune» rilettura della Comune parigina della primavera 1871. E così dobbiamo ad Henri Lefebvre (La Proclamation de la Commune, la descrizione della Comune parigina come festa permanente, anzi così recitava la seconda delle quattordici tesi contenute nel volantino dell’IS del febbraio 1963, Nelle pattumiere della storia:
La Comune è stata la più grande festa del XIX secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia, non tanto al livello della decisione politica «governativa», quanto invece a livello della vita quotidiana, in quella primavera del 1871 (per esempio il gioco di tutti con le armi; il che significa giocare con il potere). È anche in tal senso che bisogna capire Marx: «la più grande misura sociale della Comune è stata la sua esistenza in atto».
La figura della Comune torna centrale, come potenza dispiegata nella vita quotidiana per la riappropriazione di spazi, autogoverno, festa, da parte di quelle classi operose e pericolose espulse dal centro vitale di una città svuotata e neutralizzata dalla rendita fondiaria e finanziaria:
La Comune di Parigi può essere interpretata alla luce delle contraddizioni dello spazio, e non solo a partire dalle contraddizioni del tempo storico (patriottismo delle masse e disfattismo delle classi dirigenti). Fu una risposta popolare alla strategia di Haussmann. Gli operai, cacciati verso i quartieri e i comuni periferici, si riappropriarono dello spazio da cui il bonapartismo e la strategia del potere politico li aveva esclusi. Tentarono di riprenderne possesso, in una atmosfera di festa guerriera, ma radiosa.
Qui Lefebvre, si lega alla successiva capacità del capitalismo finanziario di mobilitare la ricchezza fondiaria e immobiliare. «Questo tipo di processo viene ora accelerato e diventa proprietà capitalistica dello spazio intero», in una dimensione urbana dove la nuda terra, il terreno, sempre meno edificabile in prossimità di centri cittadini già troppo edificati, è sfruttato dalla rendita immobiliare e finanziaria in una rincorsa tra speculazione e nuova, artificiale, «economia della scarsità» di tutti quei beni e risorse un tempo abbondanti e comuni: terra e spazio, appunto, ma anche aria, acqua, e perfino la luce. Il fallimento dell’urbanistica intesa come pianificazione inclusiva in favore delle cittadinanze, dinanzi alla mercificazione dello spazio pubblico e al vertiginoso consumo di suolo. Processo rispetto al quale è forse necessario tornare a scandagliare le quotidiane buone pratiche emancipatrici diffuse nei territori per l’affermazione di un «diritto alla città» inteso come progetto utopico e quindi possibile, perché, nota ancora Lefebvre, «chiamo utopico, opponendolo a utopistico, ciò che non è possibile oggi, ma che potrebbe esserlo domani», ma è già in atto nella vita quotidiana di porzioni magari piccole e minoritarie di una società complessa e frammentata. È la scommessa di pensare e praticare il diritto alla/della città non tanto come nuovo diritto amministrativo «partecipato», in un’ottica sussidiaria tra alto e basso, società e istituzioni, centro statuale e periferie locali, ma come occasione per ripensare la dimensione spaziale di autogoverno delle cittadinanze in modo scalare, valorizzando quella che da sempre sosteniamo sia l’essenza della cultura urbana, cioè la possibilità di agire insieme senza dover essere necessariamente identici. Immaginare quindi la città come stratificata opera d’arte, per rendere possibile l’impresa collettiva e intergenerazionale di invenzione artistica di un’altra città, come ci è capitato di scrivere, con la mente e il cuore alle possibilità sopite di una ennesima rinascenza urbana: spazio politico dove tornare a sperimentare progetti comuni di libertà, solidarietà e condivisione tra i molti.

Se vuoi approfondire:

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IL BLUES

Nessun singolo individuo aveva dato vita al blues, il blues era emerso in tutti gli Stati meridionali allo stesso tempo: Mississippi, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas e cosi via; centinaia di cantanti anonimi o dimenticati, raccoglitori di cotone, lavoratori delle dighe e degli argini, delle segherie, dei campi di trementina, scaricatori e braccianti agricoli, cantavano e suonavano il blues da soli o in gruppo, al lavoro o nel tempo libero. Il blues si caratterizzò alle origini come l’espressione di sentimenti individuali, come un racconto personale di estrema semplicità. C’è chi dice che il blues cominciò nel 1903, altri dicono nel 1890 o nel 1902, e comunque attorno a questi anni. Nel 1960 James Butch Cage disse: «Il blues risale ai tempi della schiavitù. Quando eravamo schiavi – voglio dire la gente di colore – mangiavamo ossi e cotenna di maiale. Ecco cosa si mangiava allora, e i bianchi si pappavano tutta la ciccia. Erano tempi duri, e ci facevano su delle canzoni. Mia mamma me le insegnava; non era mica una schiava, lei, ma mia nonna si, e cantavano:
«Negretto nero, piedi neri e occhi lucenti,
tutto nero fino all’osso, coscette di caucciù.
Fallo girare, quel negro, e picchialo sulla zucca,
dicono i bianchi “Lo facciamo secco, quel negro”.
I bianchi mangiano il maiale in casseruola,
i negri niente bene, ne prendono cosí poco,
e Zio Spadino-Trafficone si pappa il grasso, e fa:
“Voi state su, al mattino, e io ho finito già!”
Io, negretto nero, starò bene attento a me stesso,
porterò sempre un rasoio bello grande e una pistola nella giacca.
Fai girare quel negro e picchialo sulla zucca,
dicono i bianchi: “Lo facciamo secco, quel negro!”».
Un altro blues singer, Booker White, è della stessa opinione. «Volete sapere da dove viene il blues. Il blues viene dal didietro del mulo. Be’, oggi puoi avere il blues anche seduto a mangiare, ma il blues è stato fondato camminando dietro un mulo ai tempi della schiavitù.»
Ma come forma musicale o come genere di canzone, il blues non viene .dai tempi della schiavitù. Nessuno schiavo cantava quel che oggi si chiama blues, e il termine blues non era usato in riferimento alla musica.
La vita dei negri in America è stata segnata fondamentalmente dall’esperienza razziale della schiavitù; il ricordo della schiavitù forzata del passato ha modellato atteggiamenti, suoni e modi di sentire nel presente, e ha condizionato la posizione dei negri d’America nel mondo. Dalla fine della schiavitù le comunità nere hanno cercato una loro identità in rapporto alla cultura bianca, a se stessi e al loro passato, e gran parte di quella ricerca è dominata dal ricordo della schiavitù e delle sue implicazioni.

Per approfondire:

 

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MAX CAPA

L’artista e fumettista Nino Armando Ceretti, meglio noto con il nome d’arte di Max Capa, è morto a Parigi all’età di 79 anni il 20 novembre del 2023.
Tra le certezze rimaste della eredità lasciatami dai miei vent’anni, una continua ad esistere, anzi a persistere, malgrado le aggressioni ripetute e petulanti alle quali ho dovuto far fronte. La certezza si identifica con il confuso ricordo di una frase che suppergiù suona cosi’: “L’obbligo di produrre aliena la passione di creare”. E il citato di turno dovrebbe essere un tal Raul Varieigem, ma potrebbe anche non esserlo. Ecco, PUZZ aveva, ed ha, per me questa connotazione, o se si preferisce, questa giustificazione. Certamente mi sarebbe piaciuto pubblicare su “Linus” e non mi è riuscito non certamente per colpa di “Linus”, ma non ho disegnato per PUZZ come ripiego. PUZZ era il modello di pubblicazione che meglio si adattava al mio orgoglio di essere figlio di operai aristocratici cioè operai che disprezzavano il lavoro alla catena e adoravano il loro lavoro di operai di mestiere. PUZZ non imponeva scadenze editoriali e quindi non dovevo obbligatoriamente, produrre l’idea e i disegni. Contemporaneamente, era il luogo che mi permetteva di pubblicare un lavoro interamente pensato e realizzato da me. Sbagliando, ma solo rispetto al senno del poi, credevo che una condizione fondamentale di questo modo “liberato” di produrre fosse quella di essere ermetici ed elitari, cosa che in PUZZ mi riusciva benissimo. Ma in fondo più che un errore era un necessario passaggio del desiderio di affermazione che mi stimolava a dimostrare di esistere, pur se con idee confuse. Sono esistito sulle pagine di PUZZ e non su quelle di “Linus”, ma ho dimostrato a me stesso di esistere. Con una tiratura infima, con un pubblico di lettori forse ancora più scarso, ma sono esistito da allora. Eccolo l’indistruttibile muro di PUZZ. Ciò che ha dato a chi come me cercava di dimostrare di esistere. A ben vedere poi non era tanto il pubblicare che mi dava la sensazione di esistere. Era l’insieme delle cose da fare per assicurare l’esistenza di PUZZ a garantire questa certezza. Dalla distribuzione, alle sottoscrizioni, alle discussioni.

PUZZ? “ma che è ‘sta cosa!?”
Pensate un cerchio o una sfera che contengano tutto ciò che per i vostri mezzi di conoscenza e d’informazione sia “il mondo”, questo tessuto spesso di sollecitazioni che vi pervengono di forza in tutti i modi ed in ogni momento (tranne nel sogno, forse), che si pongono spesso come antagoniste, nella loro complessa binarietà, nelle loro opposizioni fittizie, nella loro “complicità” fattuale. Ebbene, “Puzz” può essere descritto come un tentativo di porre il punto di vista critico-radicale fuori, oltre il cerchio e la sfera, o in questa tendenza. Pur se partito da basi “gauchistes” e impressionato dalla sinistra COMUNISTA olandese e tedesca e italiana (Bordiga, il movimento dei CONSIGLI) non è mai stato DI SINISTRA. Per forza… Cosa rara ma non proprio unica, i “fumetti” di “Puzz” sono stati immersi quasi di solito in un’atmosfera plumbea e drammatica, dentro difficoltà d’ogni sorta e, talvolta, rischi non ordinari. I rischi del ludico scatenato…
“Tu cerchi la pallottola che ti cerca, magari vi incontrate…”
Tuttavia, ci pare ancora strano; il nostro gusto per il sarcasmo, l’ironia piuttosto feroce, volevano essere utili pure alle intelligenze medesime che ne erano l’oggetto, purtroppo queste hanno in genere mal preso la nostra sconsideratezza che certo si spostava gaiamente al di là dei limiti del comprensibile. In fondo ci si diceva: “Si, parla pure, ma parla come me.”… Eh, no!

Verso l’inizio degli anni ’70, tra le sollecitazioni retinali che stavano inesorabilmente “iniziando” la mia sensibilità visiva e formando una bizzarra e selvaggia pinacoteca ottica, by-passando i “canali sinattici non autorizzati della psiche”, mi imbattei nelle folaghe totemiche di Max Capa. Erano stampate con colori incerti su un giornaletto praticamente illegibile per la qualità pre-gutemberghiana della stampa. Ma accipicchia, era la prima volta che vedevo in Italia un giornaletto autoprodotto di fumetti. Certo c’erano fogli e riviste underground, ma visivamente erano desolanti, cultura visiva zero, un look da oratorio o da sezione di partito. Pareva che gli eccessi visivi della rivoluzione psichedelica ed underground non avessero avuto presa nelle testoline dei pochi accoliti della nostra italietta paranoica e intollerante del periodo (come si poteva far finta che non esistesse OZ o i comix americani, le copertine dei dischi di rock?). Wow! Dinamite e miele per il nervo ottico! Ma Puzz (questo il titolo del giornaletto) mi accorsi subito, era perfettamente sintonizzato, era diverso, disegni originali e canaglieschi, storie surreali, mostriciattoli e le folaghe totemiche di Max Capa. Poi c’era la storia cosmica di un amico di strada: Mizio. Puzz nasceva dal ricco humus di menti che si riuniva nel quartiere milanese di Brera, non ancora sterilizzato dall’efferata arroganza craxiana: osterie, salumerie, focaccine notturne, labirintiche case di ringhiera aperte a chiunque, poeti beat, paesaggisti, lazzaroni, barboni, viaggiatori, file di sacchi a pelo sul marciapiede, amore nei portoni, retate, complicità, flauti e bonghi, anarchici barbuti, cagnini, e planimetrie di Kathmandù, pullmini VW pronti per traversate intercontinentali. Finalmente incontrai Max Capa l’allevatore delle folaghe totemiche, in una di quelle strane case-antri-officine del periodo, lui disegnava con la stessa attenzione con cui un nichilista avrebbe preparato della nitroglicerina, con la sua china e i suoi pennini; piegato sul tavolo aveva un’aria poco raccomandabile da cospiratore, ed era incazzato… Mi invitò a cospirare su Puzz, cosa che feci volentieri, poi più o meno ci perdemmo di vista, ma i nostri disegni continuarono a dialogare su tutta una miriade di pubblicazioni che nel frattempo erano sbucate dall’area “contro culturale”. Diventammo una sorta di strana coppia per la scena radical-hippie-situazionista: Max era il cantore delle paranoie urbane ed io quello della dolcezza bucolica, a distanza di tanti anni posso dire solo di essere felice ed orgoglioso di aver avuto con lui (e gli altri artisti con cui ci dividevamo tutto) l’impudenza di stendere sulla carta un mondo interiore scoppiettante, senza censure, e senza strizzatine d’occhio alle varie mode. E le folaghe totemiche continuano a riprodursi a dispetto dei paperi rintronati e servili. (Matteo Guarnaccia)

PUZZ – Nasce a Milano nel 71 come “contro-giornale di sballofumetti”. L’animatore è Max Capa che ben presto passerà dal fumetto tout-court ad approfondimenti sempre più esasperati delle tematiche situazioniste, fino ad arrivare alle ultime uscite al “negazionismo critico ultraradicale”. Da Puzz passera di tutto, decine di fumettari, militanti incazzati, giovani proletari di Quarto Oggiaro, comunardi di Cuggiono, autoriduttori via via scivolando dalla controcultura ai confini della lotta armata. Uscirà in formati sempre diversi, dotato di una notevole inventiva dal punto di vista grafico. I numeri dovrebbero essere 21, più alcuni volumetti a parte e “Manuale del piccolo provocatore/I banali fumetti di Puzz” edito dall’Ottaviano di Milano. Dopo innumerevoli disavventure di tutti i tipi Max Capa abbandonerà l’Italia per stabilirsi in Francia.

GATTI SELVAGGI – Attivi a Milano tra il 74 e il 75, emanazione di pratica politica delle teorie espresse in Puzz da Max Capa e compagnia, si potrebbero considerare come i precursori dell’Autonomia. Divennero famosi nel ’75 quando al Palalido di Milano impedirono il concerto di Lou Reed e tutta la stampa si stracciò le vesti per il misfatto. Troppo radicali nella pratica, le radici culturali cominciarono a perdersi in mille rivoli e dalla critica ai concerti si passò a forme sempre più dure di organizzazione. Il Nucleo Informale Puzz, il Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro e il Collettivo Informale Situazione Creativa diverranno prima ultraradicali e subito dopo negazionisti.
Si cominciava a non capir più niente anche se la pratica di riappropriazione dell’esistenza era molto più chiara che tutte le chiacchiere teoriche. Comunque, sotto la denominazione ‘Gatti Selvaggi’ uscirono 3 numeri, distribuiti ai concerti e nelle Situazioni Creative.
SITUAZIONE CREATIVA – A Castelletto di Cuggiono, sulle rive del Ticino, la banda di Puzz e Co. organizza, dal 13 al 16 giugno 1974, una festa autogestita con musica, teatro e incontri vari. Dichiaratamente “alternativa” al festival di Re Nudo che si teneva, negli stessi giorni, al Parco Lambro.

POESIA METROPOLITANA – In un certo senso derivato dalle esperienze tipo Puzz e Gatti Selvaggi, ma completamente diversa nella sostanza pubblica poesie di poeti milanesi, tra gli altri dei fratelli Meo che sapranno mettere in versi la tensione della metropoli e degli uomini che ci devono vivere. Nel 76 esce un numero speciale dedicato ai testi di Woody Guthrie.

Per approfondire:

 

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