La forza della disperazione compensò la nostra esiguità numerica, la nostra mancanza di mezzi. Da oggetto della repressione ci trasformammo in promotori della campagna di agitazione e di controinformazione. Il disegno che con le bombe del 12 dicembre e con l’assassinio di Giuseppe Pinelli voleva liquidare la sinistra rivoluzionaria e annullare le conquiste operaie del famoso autunno caldo non giunse a compimento. Noi anarchici, scelti come capro espiatorio per giustificare la repressione eravamo riusciti a inceppare (anche se solo parzialmente) il meccanismo repressivo del potere. Subito ci ponemmo due obiettivi: da un lato dimostrare l’innocenza degli anarchici e ottenere la scarcerazione dei compagni arrestati, dall’altro ritorcere la manovra provocatoria/repressiva contro i provocatori/repressori, capovolgere la situazione e mettere sotto accusa gli accusatori, contrattaccando lo stato.
Il più clamoroso successo di quella campagna fu la scarcerazione di Valpreda e degli altri anarchici. Un successo che faceva seguito ad una serie continua di piccoli successi, registrabili nel diverso atteggiamento che la cosiddetta “opinione pubblica” aveva dovuto prendere nei confronti degli anarchici e della strage. Certo la liberazione degli anarchici fu decisa dal governo sotto la pressione di questa opinione democratica, ma fu una vittoria nostra, perché noi abbiamo smosso i “democratici” dal loro abituale torpore, noi li abbiamo costretti a scandalizzarsi ed indignarsi. Fu una vittoria nostra perché, nonostante tutto le strutture repressive dello stato “democratico” uscirono malconce dalla faccenda nell’immagine pubblica, anziché ridipinte a nuovo di democraticità.
Tutto questo accadeva però sette anni fa. Da allora molte cose sono cambiate e non certo in meglio.
In quegli anni abbiamo, con tutta probabilità, toccato il livello più alto di discredito delle istituzioni. A quel punto l’azione antistatale doveva fornirsi di altri strumenti, non bastava continuare l’opera intrapresa, doveva esserci un salto qualitativo che sapesse collegare quella campagna con le altre forme di intervento, proprio nel momento in cui l’agitazione tendeva a spogliarsi dei suoi contenuti innocentisti per accentuare il suo carattere “politico”. Era un collegamento inevitabile data la sua natura di lotta allo stato, ma che doveva avere una coerenza organica tra temi diversi di un’unica tematica rivoluzionaria, un collegamento che nasce dal legame altrettanto organico che vi è tra sfruttamento economico ed oppressione politica. Tutto questo non avvenne. Il collegamento risultò essere una meccanica sovrapposizione di slogans propagandistici che artificialmente cercavano di ricondurre ad un unico disegno repressivo aspetti e momenti tra loro troppo differenziati.
Il salto qualitativo non ci fu e rivisitando criticamente quegli anni possiamo ritenere che anche da questa carenza prende l’avvio la crisi della sinistra rivoluzionaria. Per di più le istituzioni, lentamente ma progressivamente, recuperarono il terreno perduto. Da un lato, con astuzia bizantina, dilatando i tempi processuali, rinviando, attuando furbeschi ammiccamenti, dall’altro dando l’impressione di sapersi rinnovare, di espellere gli “elementi inquinanti”, ammettendo verità parziali per poter dire colossali falsi.
In questo modo lo stato è riuscito a stemperare la carica antiistituzionale che si era creata, mentre il movimento rivoluzionario perdeva la sua capacità propositiva e ripeteva quasi meccanicamente i temi degli anni precedenti. Il processo di recupero è arrivato al punto che la strage del 12 dicembre viene definita “strage di stato” anche dai mass-media, ma tutto questo (non avendo più quelle connotazioni antiistituzionali) non solo non produce tensione rivoluzionaria, ma paradossalmente assume una funzione stabilizzante per il sistema.
Dieci anni dopo il bilancio per il movimento rivoluzionario è purtroppo passivo, anche se all’attivo possiamo segnare una diffusa consapevolezza della criminalità del potere. Purtroppo questa consapevolezza oggi rimane allo stato passivo: la gente sa, ma ha perduto la volontà di agire. Si è generalizzato (pur con poche, anche se significative eccezioni) un senso di sfiducia nella possibilità rivoluzionaria. Quale senso ha allora per noi parlare ancora della strage di stato? Qualcuno potrebbe obiettare che se non altro si contrasterà la versione di regime, si farà udire una voce diversa nella marea di voci che reciteranno una versione addomesticata. Vero, verissimo, ma troppo poco.
Purtroppo non è obsoleta la tematica, ma è il movimento che ha perduto l’iniziativa e vive ripiegato su se stesso. Ma forse è proprio per questa ragione che noi dobbiamo andare controcorrente, non accettando la passività e la rinuncia. Allora con più impegno dobbiamo far sì che questo “anniversario” non passi sotto silenzio, perché la potenzialità sovversiva dimostrata da questo “caso” è norme. Esso è riuscito ad implicare direttamente od indirettamente quasi tutte le strutture statali a tutti i livelli, è riuscito a dimostrare praticamente quanto “ideologica” sia l’indipendenza della magistratura, quanto disprezzo criminale per la verità e la vita umana possa esprimere la giustizia di stato, è riuscito ad approfondire il solco di credibilità tra le istituzioni statali e i “sudditi”. Le bombe del 12 dicembre e l’assassinio del compagno Pinelli non sono un episodio di ingiustizia, ma un caso esemplare dell’ingiustizia generalizzata, sistematica e per questo nella coscienza popolare sono divenuti “la strage di stato” e “l’assassinio di stato”. (Dieci anni dopo di Luciano Lanza –Rivista Anarchica anno 9, n°9 dicembre 1979)
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