Henri Lefebvre (1901-1991) non ha bisogno di presentazioni, poiché è un assai noto, poliedrico studioso e intellettuale, geografo, urbanista e filosofo, di quel lungo «secolo breve», che egli attraversa quasi per intero, soprattutto nella sua culla centrale, in rapporto vitale e polemico, come fare altrimenti del resto, con quei rissosi visionari dell’Internazionale Situazionista di Guy Debord & co. Perché, dopo la fuga dal Partito Comunista Francese (1958), è con loro, tra bar, attraversamenti, derive e «situazioni» metropolitane, che Lefebvre percepisce la vitalità da recuperare nelle città, a partire da una «comune» rilettura della Comune parigina della primavera 1871. E così dobbiamo ad Henri Lefebvre (La Proclamation de la Commune, la descrizione della Comune parigina come festa permanente, anzi così recitava la seconda delle quattordici tesi contenute nel volantino dell’IS del febbraio 1963, Nelle pattumiere della storia:
La Comune è stata la più grande festa del XIX secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia, non tanto al livello della decisione politica «governativa», quanto invece a livello della vita quotidiana, in quella primavera del 1871 (per esempio il gioco di tutti con le armi; il che significa giocare con il potere). È anche in tal senso che bisogna capire Marx: «la più grande misura sociale della Comune è stata la sua esistenza in atto».
La figura della Comune torna centrale, come potenza dispiegata nella vita quotidiana per la riappropriazione di spazi, autogoverno, festa, da parte di quelle classi operose e pericolose espulse dal centro vitale di una città svuotata e neutralizzata dalla rendita fondiaria e finanziaria:
La Comune di Parigi può essere interpretata alla luce delle contraddizioni dello spazio, e non solo a partire dalle contraddizioni del tempo storico (patriottismo delle masse e disfattismo delle classi dirigenti). Fu una risposta popolare alla strategia di Haussmann. Gli operai, cacciati verso i quartieri e i comuni periferici, si riappropriarono dello spazio da cui il bonapartismo e la strategia del potere politico li aveva esclusi. Tentarono di riprenderne possesso, in una atmosfera di festa guerriera, ma radiosa.
Qui Lefebvre, si lega alla successiva capacità del capitalismo finanziario di mobilitare la ricchezza fondiaria e immobiliare. «Questo tipo di processo viene ora accelerato e diventa proprietà capitalistica dello spazio intero», in una dimensione urbana dove la nuda terra, il terreno, sempre meno edificabile in prossimità di centri cittadini già troppo edificati, è sfruttato dalla rendita immobiliare e finanziaria in una rincorsa tra speculazione e nuova, artificiale, «economia della scarsità» di tutti quei beni e risorse un tempo abbondanti e comuni: terra e spazio, appunto, ma anche aria, acqua, e perfino la luce. Il fallimento dell’urbanistica intesa come pianificazione inclusiva in favore delle cittadinanze, dinanzi alla mercificazione dello spazio pubblico e al vertiginoso consumo di suolo. Processo rispetto al quale è forse necessario tornare a scandagliare le quotidiane buone pratiche emancipatrici diffuse nei territori per l’affermazione di un «diritto alla città» inteso come progetto utopico e quindi possibile, perché, nota ancora Lefebvre, «chiamo utopico, opponendolo a utopistico, ciò che non è possibile oggi, ma che potrebbe esserlo domani», ma è già in atto nella vita quotidiana di porzioni magari piccole e minoritarie di una società complessa e frammentata. È la scommessa di pensare e praticare il diritto alla/della città non tanto come nuovo diritto amministrativo «partecipato», in un’ottica sussidiaria tra alto e basso, società e istituzioni, centro statuale e periferie locali, ma come occasione per ripensare la dimensione spaziale di autogoverno delle cittadinanze in modo scalare, valorizzando quella che da sempre sosteniamo sia l’essenza della cultura urbana, cioè la possibilità di agire insieme senza dover essere necessariamente identici. Immaginare quindi la città come stratificata opera d’arte, per rendere possibile l’impresa collettiva e intergenerazionale di invenzione artistica di un’altra città, come ci è capitato di scrivere, con la mente e il cuore alle possibilità sopite di una ennesima rinascenza urbana: spazio politico dove tornare a sperimentare progetti comuni di libertà, solidarietà e condivisione tra i molti.
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