Nel 1962 il poeta beat Ed Sanders scrisse un virulento saggio intitolato An Essay against the Culture. Suo obiettivo principale erano i costituenti culturali dell’immaginario dell’Occidente capitalista e borghese, rinchiuso in una logica incentrata sui valori del profitto e del consumo. La stessa sinistra, secondo Sanders, sembrava incapace di superare questo orizzonte limitato e di porsi la questione della liberazione dell’uomo in termini che mettessero radicalmente in discussione i valori fondanti della società opulenta. Negli anni successivi la fortunata locuzione di Sanders divenne l’etichetta per indicare gli esperimenti di vita, le proposte intellettuali e le elaborazioni politiche della cultura giovanile, che culminarono in eventi-avvenimenti tanto differenti quanto la ribellione studentesca del ’68 e la protesta hippy. La cosiddetta «controcultura» era il prodotto di una critica dell’esistente che fondeva un momento etico e un momento epistemologico. Da un lato si proponeva la trasgressione programmatica dei valori morali correnti (la famiglia, le norme sessuali, l’etica del lavoro, i doveri sociali, eccetera), prospettando una diversa organizzazione della convivenza civile e delle relazioni umane, sia a livello macrosociale (comunismo, comunitarismo, socializzazione delle forme di produzione e distribuzione), sia a livello microsociale (contestazione del matrimonio, allargamento della famiglia mononucleare, adozione di princìpi comunitari, eccetera). Dall’altro si confutavano i modelli dominanti della tradizione scientifica occidentale (giudicati funzionali all’ideologia repressiva messa in atto dalle istituzioni controllate dalle classi egemoni), rivalutando forme di conoscenza meno compromesse con il razionalismo conservatore (per esempio paradigmi gnoseologici non strettamente basati sulla comunicazione intellettiva) e riferendosi spesso a tradizioni olistiche (le filosofie orientali, o magari la psichedelia di uno dei massimi «santoni» hippy, Timothy Leary).
Al centro di questo coacervo di esperienze politiche, sociali e intellettuali ritroviamo i costituenti della tradizione libertaria. La controcultura degli anni Sessanta si configura infatti come uno dei più complessi esperimenti di liberazione individuale e collettiva del secolo. Le trasgressioni dei beat, degli hippy, degli psichedelici, dei cultori del libero amore, eccetera, lungi dall’essere semplice ritualizzazione apolitica delle forme di opposizione al sistema, si proponevano invece come una soluzione epocale dei problemi tipici non solo della società tardocapitalistica, ma di quella Weltanschauung occidentale imperniata sull’autoritarismo della ragion strumentale, sulla strategica (e artificiosa) distinzione postcartesiana tra soggetto e oggetto (uomo / natura, mente / corpo, eccetera), e infine sulla gestione precipuamente politica dei modelli di interazione. In altri termini, non è impossibile interpretare la controcultura americana come uno dei momenti più alti di strutturazione degli elementi della cultura libertaria: come molti hanno riconosciuto all’epoca, alcune dottrine e alcuni atteggiamenti intellettuali tipici dello stesso anarchismo – autonomia del sociale, democratizzazione radicale delle istituzioni e loro totale decentralizzazione, preminenza dell’individuo eccetera – sono alla base delle elaborazioni dei più noti esponenti del movimento. La diffusione delle droghe psichedeliche diventa, nella prospettiva di un Timothy Leary, un metodo per liberare gli individui dalle catene create dalla società, dallo stato, dal partito. La democrazia dei consigli di Cohn-Bendit si configura come l’attuazione del sogno anarchico di una società fondata sulla libera associazione dei singoli. Lo svelamento delle funzioni repressive delle istituzioni consolidate si unisce, nell’analisi di Ivan Illich, alla riscoperta di forme alternative di interazione e socializzazione. Per Alan Watts «la via dello Zen» indica uno dei percorsi possibili per una nuova (de)valutazione dei valori dominanti del capitalismo, mentre per Carlos Castaneda le forme di conoscenza associate alla tradizione razionalistica occidentale non esauriscono certamente le possibilità dell’uomo, ma anzi ne limitano artificiosamente la portata.
Al di là delle elaborazioni dei «santoni» del movimento, nei tardi anni Sessanta gli «esperimenti pratici» si moltiplicarono, producendo una significativa costellazione dell’immaginario anarchico: comunitarismo, libero amore, decentralizzazione, ripudio dell’etica del lavoro, valorizzazione del principio del piacere…
Tuttavia, non sono certamente mancate ambiguità e contraddizioni, che hanno indubbiamente avuto un ruolo rilevante nella sconfitta della controcultura. Il riflusso nella politica è divenuto, sostanzialmente, subordinazione ai movimenti (studenteschi e non) di matrice marxista. Gli esponenti della controcultura non hanno mai saputo proporre un progetto realmente concreto, né si sono realmente confrontati con le questioni chiave (per esempio, l’organizzazione del lavoro in una società tardocapitalistica). Timothy Leary, per esempio, all’epoca non trovò di meglio che riproporre un ritorno alla società tribale, con tanto di famiglia patriarcale, sottomissione della donna, eliminazione dei «diversi» (con grande perplessità del suo amico Ginsberg, omosessuale dichiarato) e divisione del lavoro.
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