Io non sono un pentito, e neppure un dissociato, gli atti di cui i magistrati mi accusano ne sono la testimonianza. Appartengo anima e corpo alla comunità dei rivoluzionari incompatibili! Fin dalle prime parole la mia scrittura non ha cercato quindi di strapparmi a questa natura inespugnabile. Né a rendermi vendibile e perciò accettabile agli occhi di una folla di comparse che mi ha demonizzato e condannato perché la nostra lotta di rottura ha rivelato l’ampiezza della loro collusione con i regimi predatori dei centri imperialisti.
Non sono un intellettuale e non mi porto dietro nessun bagaglio universitario. Clandestino precoce, la mia educazione l’hanno fatta la lotta e la galera. I vecchi parlavano giustamente dell’università del popolo. Solo la pratica e lo spirito di resistenza intrattengono e sviluppano la cultura antagonista degli oppressi. È in questo filone che iscrivo le mie parole. Descrivono condizioni di sfruttamento e di oppressione, cioè situazioni di classe. Sono testimonianze. Né un’immagine, né un bel ritornello mi allontanano da questo impegno.
La scrittura di resistenza slegata dalla pratica reale non è nulla o è ben poca cosa. Solamente parole. Parole orfane, parole senza musica.
Dopo più di 20 anni di galera, di cui 10 in isolamento totale e 10 in carcere di massima sicurezza, la mia scrittura non sa che farsene degli stati d’animo. Assume tutto il suo senso e la sua ragion d’essere nella mia condizione di attore e quindi di testimone principale. Descrivo i meccanismi e i disastri della prigione cellulare che io stesso vivo giorno per giorno e a cui resisto. Lo scritto partecipa al mio rifiuto di soccombere. E al rifiuto di dimenticare la nostra storia e il motivo della rivolta della nostra generazione.
… Così, ad ogni passo in avanti, la mia scrittura non mi allontana mai dalle cause profonde del mio impegno per un mondo senza classi… né prigioni. (Jean Marc Rouillan)
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