UN UOMO CHE HA UNA VISIONE. Intervista a Gianni Milano

“…Un uomo che ha una visione non è in grado di servirsi del suo potere finché non ha rappresentato la visione sulla terra, davanti alla gente”

Alce Nero, 1863 – 1950, uomo di medicina Sioux

 

«Forse fu per questo motivo che centinaia di giovani, in Italia, si misero in strada per rappresentare brani della visione ed offrirli al mondo sociale. Nuovi camminanti, santi e guitti nel contempo, si ‘iniziarono’ così allo spirito della natura, della vita, dell’amore. Il codice di riferimento fu la trimurti Pace Amore Liberazione che assorbì in sé le più diverse forme di spiritualità istituzionalizzate apparse sul Pianeta. Non stupirà, quindi, il germogliare rigoglioso e diffuso di termini, comportamenti, icone anarchicamente apparse, fonti di meraviglia, stupore e tenerezza.

Le voci provenienti dall’Oriente non erano una novità ma ora diventavano comportamento, attenzione operativa, compassione. Così in molte case comparve Ganesh, in altre Krishna che flautando flautando indicava nella Bhagavad Gita un’etica rigorosa, lontana dall’insoddisfacente ipocrisia della ‘devozione’ consueta. Krishnamurti non era più il pargolo prodigioso individuato dalla teosofia ma diventava un compagno di viaggio, forse più austero e meno colorato dei ragazzi in autostop sulle strade del mondo; sempre, però, pronto al dialogo e non all’imposizione, all’indottrinamento. Gandhi e la sua ahimsa divennero strumenti di forte contestazione alla violenza istituzionalizzata, alle guerre (allora in Vietnam). Anche un piccolo povero uomo poteva arrestare la ruota ed indurla a girare in senso positivo bloccando gli effetti nocivi di un karma doloroso.

Persino dalla Svizzera giungeva un vento diverso con il Siddharta di Hermann Hesse a portare sulle onde del fiume il messaggio del Buddha con la riflessione di Lao-tze. Così non vuoti erano gli orizzonti, non àfone le strade, risuonanti, tra fame e repressione, di cimbali, colorate di fiori che a Milano, ad esempio, bionde ragazze regalavano agli acquirenti di Pianeta Fresco. Karuna (sorella Compassione) non vestiva sai di rozza tela, non si macerava in digiuni o auto-repressioni, ma fluttuava nella recitazione di mantram in sanscrito (di cui si ignorava il significato ma si conosceva il senso) e fumi di sandalo miscelato al profumo di patchouli.

Dall’Occidente poi, corrusco e triste già nel nome, come topi su una nave corsara giungevano testi, emozioni, illuminazioni urbane. Il termine dharma sempre più si familiarizzava con l’italica parlata e veniva veicolato tra istruiti ed ignoranti, tra poeti e testimoni. Kerouac aveva associato l’idea del nomadismo con la realizzazione del sentiero-dottrina. Aveva fatto provare l’emozione d’essere un nullatenente orgoglioso della sua povertà, in una sorta di francescanesimo poliglotta, eterodosso ed esaltante.

Si dormiva in soffitta, si mangiava quando ce n’era, si faceva la questua a volte, ci si voleva bene. Ecco un’ipotesi di fraternità tribale, senza padroni né (come si diceva allora) ‘capetti’ con la verità in saccoccia. L’Occidente corrusco sbarcato alla portata dei nuovi ‘santi’ (come definii in un poema i pellegrini di quegli anni) grazie alla complicità di zia Nanda (a lei pace – Om) rivelava un modo d’essere religiosi vitalistico, estremo anche, ruvido. “Se incontri il Buddha per strada uccidilo”, ricordava lo Zen, senza muovere ciglio, curando l’eterno giardino di pietra. E su tutti aleggiava la visione, nostra, dei Nativi americani, degli Aborigeni australiani, degli sciamani siberiani. Non apparire, sii!»

(Gianni Milano)

 

 Un panorama ricchissimo, quello del movimento Beat e poi di quello Hippy, che personalmente amo molto, pur senza aver vissuto in quegli anni. Cosa pensi avrei dovuto evidenziare meglio nell’articolo che ha preceduto questa intervista?

A me pare che dovresti sottolineare i fattori entusiasmo, stupore, rigore, creatività. Importante fu il rifiuto delle ideologie a favore dell’esperienza profonda collegata ai fattori di cui sopra. Lo spirito anarchico fu un buon detersivo assieme allo Zen. L’occidente aveva bisogno di spogliarsi delle sovrastrutture intellettuali, maschere sovente dell’immutabile potere. Fratello corpo non fu più estraneo subalterno alla mente e la terra ridivenne cibo e contenitore.

Potresti descriverci il background culturale italiano a ridosso delle contestazioni che si diffondevano nel mondo?

Si viveva in un bolla illusoria ed illudente: la chiamavano ‘boom economico’ che riguardava, come sempre, i soliti e non coloro che più ne avrebbero avuto bisogno. Vero è che le merci giravano e il loro acquisto diveniva uno status symbol ma altrettanto vero è che questo non ampliava l’area di auto- liberazione ed emancipazione. I “più” divenivano “clienti” e consolidavano un sistema repressivo-paternalistico con la benedizione del Vaticano, a volte sornione, a volte corrucciato. Insomma: eravamo, in Italia, come ranocchie in uno stagno, senza grandi visioni, senza ampi respiri culturali e politici: nostalgie di durezze passate, che ogni 25 aprile, per breve tempo commemoravano slanci e morti, reali, mentre l’Italietta ansimava. Mancava, insomma, la percezione della vita come esistenza irripetibile e si preferiva recitare, male, il paludoso dramma d’una rivoluzione abortita nel “tutti a casa”. Anche le contestazioni, in Italia, scivolavano lungo canovacci già praticati: quasi si temeva di volare. Il moralismo,poi, che annichiliva in una burletta il senso dell’etica, ungeva i giorni. Si pativa, credo, la mancanza di “vere” prospettive e di vere domande. Io non mi ci trovavo bene e l’unica possibilità, faticosa e pericolosa, era nuotare controcorrente, tagliandosi fuori dallo stagno dei ranocchi e dal fumo delle cinquecento.

Quale la posizione di Nanda Pivano rispetto agli eventi della contestazione? E quale la tua?

Il 1968 fu letto, da coloro che si erano messi on the road già a partire dal 1964, come una variazione sul tema, un “affare” all’interno del groviglio del sistema che veniva anche definito Moloc. Ricordo che gli studenti universitari, a Torino, nelle loro assemblee mostravano un appetito di leader, parevano canonici che tentassero di decifrare il Verbo, di Marx, tra le righe de Il Capitale. In realtà, a Torino almeno, la polemica politica era contro il PCI. Il mondo delle Università era ristretto a minoranze che tendevano a gestire il mal contento. Io pensavo, e penso che, rispetto all’esperienza on the road, il 1968 nostrano fosse regressivo, addirittura ‘clericale’, alla ricerca d’un padre nuovo visto che quello vecchio era stato cannibalizzato. Ci definivano “leccaculi della borghesia” mentre percorrevano sentieri vecchi come bave di lumache. Temevano la psichedelia, che non comprendevano, e miravano, vecchia storia!, al potere.

Fernanda, maggiormente legata a ciò che avveniva tra la gioventù, e non solo, americana, faceva fatica ad orientarsi nei gergali vetero-sinistra. In Vietnam la guerra era reale e la morte aleggiava sulle masse USA. La domanda urgeva e non era ideologica ma esistenziale. Nanda era una pacifista antimilitarista. Pensava, ed io ero d’accordo con lei, che la vera e prima rivoluzione dovesse avvenire dentro ciascuno di noi, non soltanto come un NO ma in modo creativo, aperto, curioso, creativo. Le cosiddette contestazioni erano risposte provocate dal sistema, risposte prevedibili e meccaniche, escrescenze del sistema in un circuito chiuso.

Incuriosisce, tra l’altro, una presa di posizione di Nanda che in un’intervista ebbe a dire di non curarsi affatto di piacere alle donne: perché era così prevenuta a riguardo?

Nanda non era “femminista” e non usava il “genere” per rivendicare. Non era contraria alle donne ma al fascismo in tutte le sue forme. Di conseguenza più che il “plauso” cercava di avviare una presa di coscienza nuova, alta e non pasticciata. Nanda non ragionava usando i canoni della lotta di classe – non era nella sua storia. Penso si riferisse di più all’universalismo ed al vitalismo dei suoi amici poeti.

Tra le grandi voci della letteratura del tuo tempo, quale consideri più dimostrativo di quegli ideali?

Allen Ginsberg di certo che divenne ponte tra America ed Europa. Lo slancio di Allen contribuì a produrre Pianeta Fresco, esplosione psichedelica e non-violenta nella cultura della seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso. La ruota fu messa in movimento, a mio parere, più dagli hippies che dagli intellettuali monaci laici del ’68. La psichedelia fu lo strumento per tentare di scardinare il sistema di pensiero e comportamento di quegli anni ma, ahimè!, oggi non se ne vede più traccia.

Cosa puoi dirci a proposito delle speranze di Nanda, se ancora ne serbava, che il mondo ritornasse agli ideali di pace e libertà? E quale il tuo parere a riguardo?

Nanda credeva fortemente in uno stare insieme pacifico e solidale, in un tribalismo libertario e creativo. Il mondo non aveva mai sperimentato una realtà alternativa allo sfruttamento ed alle guerre. Quindi non si sperava di “ritornare” ma di andare avanti e nell’andare costruire realtà nuove (pensiamo, in piccolo, alle ‘comuni’ anche italiche). Come poeta e pedagogista presente attivamente in quel tempo ed ora (compatibilmente con i miei 80 anni) questo movimento mi alimentava. Ora è la lotta No TAV che, al di là dei trucchi del sistema, mostra la faccia trucida e volgare . Non si tratta di correnti poetiche ma di lotta, al pari di quelle sostenute dai Nativi americani. Passano gli anni ma l’amor mio non muore.

La psichedelia, una corrente cui ti rifai e che sostieni sia stata abbandonata troppo presto, puoi parlarcene?

La caricatura di quegli anni, caricatura che secondo me, nascondeva un po’ di invidia, era “sesso, droga e rock and roll”. Smontiamo subito questa ridicola affermazione. Il “sesso era allora visto, per lo meno dalla popolazione maschile, e maschilista, come una pratica genitale, quasi esclusivamente. In realtà si sarebbe dovuto parlare di “sessualità” in una visione panica, base dell’essere. Gli stimoli che giungevano dall’India, il loro pansessualismo, fecero sì che l’area si dilatasse oltre lo “scopare”. In realtà il sesso, la pratica sessuale, portava ad una esperienza non frantumata, orgasmica, da inizio del tutto. La percezione unitaria e simbiotica della realtà era psichedelia. Altro argomento (proposto in chiave moralistica e scandalistica) era la “droga”. Dicevo allora che le droghe si acquistavano dal droghiere mentre, nel caso specifico, si trattava di “erbe”, usate in altre culture comunemente. Tali erbe, fumate allora in modo comunitario, miravano al decondizionamento della mente, come scriveva Allen Ginsberg. Io non fumo più nemmeno tabacco perché penso d’aver raggiunto l’obiettivo. Per quel che riguarda la musica, nata come risposta al potere culturale del tempo, vorrei ricordare che il movimento ossessivo è stato anche una pratica preparatoria alla “trance”, come i dervisci ci insegnano. I tre aspetti ridicolizzati dall’establishment erano in realtà una pulsione unica, quella per cui è difficile descrivere “oggettivamente” il movimento underground, somma di esperienze radicali e profonde individuali, soggettive. La poesia parve allora la forma più libera e propria per comunicare, attivamente, il cammino intrapreso, l’on the road di kerouachiana memoria. Almeno così avvenne per me e non posso che parlare della mia esperienza, ormai consolidata visti i miei 80 anni.

A proposito di questo ti trovi d’accordo con quello che oppose Ginsberg, al suo ritorno dall’India, ovvero che la meditazione trascendentale fosse una pratica altrettanto valida per oltrepassare i parametri apparenti della realtá?

Io penso che la “meditazione” deve divenire “fiato” e non soltanto momento specifico e rituale. Inoltre credo che sia bello sentirsi dentro e avvolti dal mistero, olistico. Come dire: essere l’Alfa e l’Omega nel presente, ora e qui. I miei palloncini sono volati via e sono più leggero.

E qui Gianni Milano continua in versi:

La poesia
s’infilò le scarpe
e scese in strada.
Lentamente
la strada s’illuminò
e da ogni angolo inconsueto
emersero doni
e meraviglie e nomi.
Un flash colpì
il camminante
sulla strada dell’Utopia
per l’Utopia
e lo lasciò nudo
senza vili difese ed illusioni.
Quando, ripreso, il camminante
rimirò l’intorno
s’accorse che era giunto
in Utopia
per la brezza che smuoveva i
capelli
e la barba imbiancata.
Un ridere giulivo
senza motivo apparente
gli discendeva dalle labbra.
Il giorno era gioioso
e il sole caldo.
La luce riattivò le percezioni –
si stava bene pacificati e all’erta
quando anche l’erba era più
verde.

Intervista a cura di Jo Gabel, tratta dal sito www.artapartofculture.net. maggio 2018.

 

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