Il capitalismo ha imparato a installarsi nella crisi e a dimostrare maggiore capacità di manovra dei suoi nemici.
La visione del futuro proletario era la società trasformata in fabbrica nulla di più diverso dalla realtà in cui la società intera, è un supermercato.
La differenza sta nel fatto che nel periodo di dominio reale del capitale i centri commerciali hanno sostituito le fabbriche e perciò il consumo prevale sul lavoro. Mentre le classi pericolose diventavano masse di docili salariati, oggetti passivi del capitale, il capitalismo ha approfondito il suo dominio allentando i legami che esse avevano con il mondo del lavoro. A modo suo, il capitalismo moderno è anche contro il lavoro. Nella fase precedente di dominio formale del capitale, si lavorava per consumare; in quella attuale, bisogna consumare senza sosta affinché possa esistere il lavoro. La lotta anti-industriale cerca di spezzare questo circolo infernale, per cui parte della negazione tanto del lavoro quanto del consumo, cosa che la porta a mettere in discussione l’esistenza di questi luoghi chiamati a torto città, dove queste attività sono preponderanti. Condanna questi agglomerati amorfi popolati da masse solitarie in nome del principio andato perduto che presiedette alla loro fondazione: l’agorà. È la dialettica lavoro/consumo a caratterizzare le città al tempo stesso come imprese, mercati e fabbriche globali. Pertanto lo spazio urbano non è più un luogo pubblico per la discussione, l’autogoverno, il gioco o la festa, e la sua ricostruzione si conforma alle scelte più spettacolari e più legate allo sviluppo. Dunque la critica anti-industiale è una critica dell’urbanesimo; la resistenza all’urbanizzazione è per antonomasia una difesa del territorio. (Miguel Amoros)
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